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Autore: Adeia Di Elferas    07/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Isabella stava aspettando ormai da quasi mezz'ora. Era agitatissima e non riusciva a tener ferme le mani, tanto che, per trattenerne il tremito, le aveva strette l'una nell'altra e le teneva saldamente premute contro il ventre.

Aveva lasciato le sue due figlie alla sua dama di compagnia più fidata, ma quella separazione, per quanto abbastanza breve, la metteva in forte ansia. Tuttavia, quella che si presentasse completamente sola a palazzo era stata una delle clausole indiscutibili decise dal re di Francia.

Con una ciocca di capelli rossi che le scivolava davanti agli occhi, mentre cercava di guardare fuori della finestra, pur non sapendo da dove suo figlio Francesco sarebbe arrivato, la donna cominciò a farsi mille domande.

Voleva fidarsi di Luigi, ma in quei giorni aveva avuto più di un segnale che l'aveva messa in guardia. Era arrivata a quel 9 ottobre molto meno baldanzosa e sicura di sé, rispetto alla sera in cui era riuscita a parlare a quattrocchi col francese per discutere del futuro del figlio.

Dall'accettarlo come suo fantoccio lì a Milano, il re era passato a proporre di lasciarlo a Pavia, per poi concludere, giusto un paio di giorni prima, che sarebbe stato meglio, almeno per qualche tempo, che il ragazzino, di otto anni appena, passasse prima un periodo di formazione in Francia, in modo da imparare gli usi e i costumi che avrebbe dovuto poi imporre ai suoi sudditi.

Isabella aveva cercato prima di rifiutare, poi di proporsi per accompagnare il figlio in quel viaggio di formazione, ma, alla fine, rischiando di vedersi portar via le altre due bambine, aveva piegato il capo a quanto Luigi aveva decretato, ovvero che Francesco sarebbe andato in Francia da solo – per un anno o due al massimo, aveva promesso il monarca – per poi tornare come nuovo Duca di Milano.

Le piangeva il cuore, all'idea di dover ridire subito addio al figlio, ma non aveva trovato altro da fare. Era stata messa alle strette, senza possibilità di scegliere concretamente un'altra alternativa.

Era stata un'ingenua a pensare di essere in grado di strappare un accordo migliore a una volpe come il francese. Quando aveva capito di essere persa, aveva provato a prendere tempo, nella speranza, così, di poter contattare un emissario napoletano e coinvolgere anche la sua famiglia, però le era stata negata ogni procrastinazione. Se non avesse accettato, e subito, allora Francesco avrebbe fatto una fine ignobile, senza uscire mai vivo dalla torre in cui era rinchiuso.

Trovandosi a dover scegliere tra due possibilità entrambe per lei dolorose, l'Aragona aveva deciso di provare almeno a salvare la vita del bambino e così ora si trovava in uno dei saloni del palazzo di Porta Giovia in attesa di poter salutare Francesco prima della sua partenza.

Quello era stato solo il coronamento dell'inganno perpetrato da parte del re di Francia nei suoi confronti. Il primo segno di incrinatura Isabella l'aveva notato quando Ambrogio da Rosate era stato sì isolato e interrogato, per la morte di Gian Galeazzo, come aveva suggerito lei, ma era poi stato rilasciato praticamente subito, senza nemmeno un breve processo.

All'inizio la donna aveva voluto credere che Luigi fosse stato costretto a rilasciarlo perché le prove indiziare non erano sufficienti ad andare oltre, ma, con il senno di poi, si era dovuta arrendere alla verità dei fatto: il fermo dato all'alchimista, così come tutte le chiacchiere, i sorrisi e le belle parole altro non erano stati che fumo negli occhi per confonderla e indurla a fidarsi abbastanza dal cadere in trappola.

Mentre sentiva il cuore fremere, nell'udire qualche passo appena fuori dalla porta, Isabella deglutì, sentendosi all'improvviso impreparata a quel momento. Aveva atteso così a lungo e così accoratamente di poter riabbracciare il figlio che adesso che stava per farlo quasi non sapeva cosa provare.

Il legno pesante della porta cigolò e un ragazzino pallido e magro fece capolino, sorretto da una guardia per lato.

“Avete un'ora.” disse una voce smorta, alle spalle di Francesco, con forte accento francese.

Improvvisamente dimentica di tutti i suoi timori, l'Aragona si fiondò verso il bambino e, inginocchiandosi in terra per averlo alla sua altezza, lo strinse subito a sé, baciandolo e sussurrandogli parole dolci e scuse mescolate in una sorta di triste preghiera.

Il piccolo, frastornato già dal fatto di essere fuori dal castello di Pavia, dove era rimasto per buona parte della sua vita, era teso, rigido nell'abbraccio della madre, come se non riconoscesse quelle braccia che sembravano volerlo portar via. Ci mise parecchio, prima di tornare ad apprezzare il tocco di quella donna che, malgrado tutte le avversità, era riuscita a farlo sopravvivere così a lungo.

Proprio mentre il ragazzino finalmente si scioglieva in un pianto di commozione per il presente e paura per il futuro, le porte si riaprirono e la stessa voce di un'ora prima annunciò: “Messer Francesco mi deve seguire. Il carro è pronto alla partenza.”

“Vi prego!” implorò Isabella, aggrappandosi ancor più strettamente al bambino: “Vi prego! Fate che resti qui ancora un po'! Qualche giorno, non chiedo di più! Vi supplico!”

Il piccolo Sforza, spaventato nel vedere la madre contorta dal dolore, si sentì strappar via di peso, tanto che, nell'afferrarlo a quel modo, le guardie lo sollevarono letteralmente da terra.

L'Aragona cercò di nuovo di restare avvinghiata a lui, ma riuscì solo a farsi spintonare e a farsi buttare al suolo, impattando con il tappeto che attutì un po' il colpo.

“Tornerò a prenderti!” promise Isabella, guardando il bambino che, in preda del pianto e delle grida, veniva portato via: “Torneremo insieme! Te lo giuro! Dovessi venire in Francia a piedi..!”

Ma di fatto, quando riuscì a rialzarsi, un paio di soldati accorsi per dar man forte ai commilitoni la bloccarono, impedendola addirittura di seguire anche solo con lo sguardo il figlio che veniva portato verso la carrozza pronta a partire alla volta della Francia.

Provata e scossa per quell'incontro – troppo breve e troppo tragico – Isabella andò, appena poté, a recuperare le due figlie, lasciando detto alle sue dame di compagnia che le bambine sarebbero rimaste al suo fianco anche di notte, in modo che potesse averle sempre sott'occhio.

Quel giorno non riuscì a mangiare e, a sera, quando scrisse qualche lettera destinata ai suoi vecchi conoscenti, che pure fino a quel momento l'avevano sempre ignorata, per informarli del torto che aveva appena subito, si firmò come 'Isabella d'Aragona Sforcia Ducissa Mediolani unicha in la desgratia'.

 

Seppur con grandissima difficoltà, Caterina quel giorno era riuscita a ritagliarsi un po' di tempo da passare con i figli. In realtà, con lei nella sala delle letture c'erano solo Bianca, Giovannino e e Sforzino, ma era comunque meglio di niente.

Anche Galeazzo avrebbe volentieri preso parte a quel breve incontro, ma la madre gli aveva concesso di andare alla cittadella, assieme ad alcuni soldati che sarebbero stati messi là di stanza, per vedere come funzionasse una fortificazione complessa come quella del Paradiso.

La Sforza teneva in braccio il figlio più piccolo, mentre Bianca leggeva con voce tranquilla qualche brano da un libro che parlava di eroi dell'antichità. Sforzino, come sempre un po' timoroso, in presenza della madre, era seduto davanti a loro, la schiena dritta e il volto paffuto che si tingeva di rosso ogni volta in cui la Tigre incrociava per caso il suo sguardo.

Alla Sforza sarebbe piaciuto molto che ci fosse stato anche Bernardino. Benché facesse ancora molta fatica a stargli accanto, sempre divorata dai ricordi che si acuivano nel vederne i lineamenti e nello scorgerne alcune espressioni così simili a quelle di Giacomo, la Contessa aveva voglia di passare qualche tempo anche con lui.

Si sentiva come se il suo tempo stesse finendo, come se ogni giorno fosse una goccia che se ne andava da un vaso ormai quasi vuoto. Le dispiaceva non riuscire a sfruttare al meglio quel poco che le restava. Però, anche quando aveva provato a cercarlo, Bernardino era risultato introvabile. I fratelli l'avevano rassicurata, dicendole che quando spariva a quel modo di solito era assieme ai suoi amici dei bassifondi a combinare qualche guaio, ma non in pericolo.

Caterina aveva fatto del suo meglio per fidarsi e mettersi il cuore in pace e aveva raggiunto la sala delle letture assieme agli altri.

Solo Ottaviano mancava volutamente all'appello. L'aveva incontrato ben tre volte, quella mattina, ma si era ben guardata dal chiedergli di unirsi a loro. La sua mera presenza avrebbe rovinato l'umore a tutti quanti... O, se non altro, alla Leonessa di certo.

La Tigre cercava di seguire il senso di quello che sua figlia stava leggendo, ma in realtà continuava a distrarsi, pensando in parte ai figli e al piano che stava elaborando assieme a Luffo Numai per la loro fuga e in parte, suo malgrado, a Giovanni da Casale.

Malgrado tutte le promesse che si erano scambiati, di fatto da quando lui si era trasferito alla cittadella, non erano più riusciti a incontrarsi. Sistemare gli uomini e mettere a punto l'organizzazione della difesa stava togliendo a entrambi il tempo per dedicarsi anche se per poco a se stessi e, quando arrivava la sera, memori delle chiacchiere che volevano evitare di far nascere, una non osava lasciare Ravaldino e l'altro restava al Paradiso nella speranza che il nuovo giorno portasse qualche inaspettata parentesi di quiete.

Sul fatto che Pirovano riuscisse a sopportare abbastanza bene quel periodo di distanza la Sforza non aveva dubbi. Già in altri frangenti il suo amante aveva dato prova di stoica resistenza e di grande capacità di autocontrollo. Era su se stessa che la donna nutriva le maggiori perplessità.

Anche la sera prima, mentre raggiungeva la propria stanza per andare a coricarsi, nell'intravedere nella penombra del corridoio un paio di soldati giovani e piacenti, era stata sul punto di vacillare.

Anzi, era stata così al limite che se non fosse stato per un terzo uomo che aveva richiamato i primi, facendoli allontanare, probabilmente la Leonessa non avrebbe neppure provato a resistere, proponendosi subito per passare assieme la notte.

“Non è vero, madre..?” la voce Bianca risvegliò Caterina, che, assorta com'era nei suoi pensieri batté un paio di volte le palpebre, cercando di ricostruire come mai fosse stata chiamata in causa.

Mentre Giovannino si agitava tra le sue braccia, nel tentativo di farsi stringere un po' di più, la donna dovette chiedere apertamente: “Come, scusa?”

“Niente, dicevo...” la Riario sembrava in imbarazzo, come se non si fosse resa conto dell'assenza della madre, e ora fosse pentita di averla distolta dai suoi pensieri: “Ecco, dicevo che anche vostro nonno Francesco era molto amato dai soldati, come Giulio Cesare, perché condivideva con loro tutto quanto...”

“Sì.” confermò allora la Leonessa, riuscendo finalmente a orientarsi nel discorso: “Se si vuole essere accettati nel modo migliore dall'esercito, mescolarsi il più possibile con la truppa è il modo più efficace.”

Bianca parve soddisfatta da quella risposta, e anche Sforzino, che pur se n'era tenuto fuori, sorrideva pacato, come se le parole della madre avessero confermato qualcosa di cui era già certo.

Caterina apprezzò la trasparenza degli occhi di quel figlio che troppo spesso ignorava. Le venne subito in mente un'antitesi molto chiara: se al posto dell'ultimo figlio di Girolamo ci fosse stato lì Cesare, quasi per certo nel sentirla parlare a quel modo si sarebbe lasciato andare a qualche considerazione sprezzante su come 'mescolarsi' con la truppa non andasse inteso come condividerne il letto. Per fortuna Sforzino era molto più ingenuo e puro, come se non vedesse mai doppi sensi in nulla, tanto meno cattiveria o malizia. Forse il tempo avrebbe cambiato anche lui, ma, almeno per il momento il dodicenne riusciva a camminare leggero sulla vita, senza lasciarsi rovinare da quello che lo circondava.

Mentre Bianca stava proseguendo la sua lettura, qualcuno bussò alla porta e Caterina, riconoscendo in quell'insistenza la mano del Capitano Rossetti, sospirò e gli diede il permesso di entrare.

“Avevo chiesto di non essere disturbata.” fece la Contessa, senza nemmeno guardare il soldato.

Questi, in tutta risposta, si schiarì la voce e fece presente: “Lo so, ma è stato messer Pirovano a chiedermi di chiamarvi, perché la cosa sembra di una certa importanza.”

Nell'udire il nome dell'amante, la Sforza parve rianimarsi e, sotto lo sguardo impotente di Bianca e Sforzino, lasciò Giovannino alle loro cure e, alzandosi in fretta, raggiunse la porta, chiedendo: “E di cosa si tratta?”

“Pare che Gaspare Sanseverino voglia mettersi al soldo vostro, ma di più non so.” anticipò Rossetti, restando il più possibile sul vago, prima di riportare scorrettamente dettagli che aveva solo potuto origliare.

 

Quell'11 ottobre, sotto un cielo nero come il carbone, Firenze aveva assistito ad un'altra condanna capitale che, in un certo senso, andava a completare ciò che la morte di Paolo Vitelli aveva cominciato.

La folla aveva guardato come rapita all'impiccagione di Cherubino dal Borgo, ritenuto colpevole quanto o forse più di tutti gli altri che erano stati catturati assieme al comandante. Il processo era stato brevissimo e talmente sommario da non prevedere nemmeno la possibilità di una difesa. Le prove portate contro Cherubino erano quasi tutte poco attendibili e in parte contraffatte in modo abbastanza evidente, eppure non era servito altro a chi giudicava per firmare la condanna a morte.

Nel giro di poche ore si era deciso di rendere quella sentenza esecutiva, per paura che qualche potente straniero potesse mettere il becco in quella faccenda, strumentalizzandola in qualche modo al fine di pilotare la politica della città.

Così Cherubino era stato portato via di fretta dalla sua cella e preparato per l'esecuzione. Gli era stato messo un cappio al collo e poi, con grande fatica, dato che l'uomo si dimenava di continuo e strenuamente, malgrado avesse mani e piedi legati, era stato lanciato fuori dalla finestra.

Il colpo secco del collo che si spezzava era riecheggiato in modo sinistro e formidabile per la piazza, seguito subito dopo dal tonfo ovattato dal corpo che, ormai senza vita, ribatteva sempre più lentamente contro la parete del palazzo della Signoria.

A differenza di quanto era accaduto alla morte di Vitelli, la popolazione pareva nutrire scarso interesse per la sorte di Cherubino e, appurato che fosse morto, tutti quanti si dispersero senza grandi commenti.

L'unico che aveva davvero accolto quell'uccisione con un sospiro di sollievo sincero era stato Lorenzo Medici, che aveva visto, con lo spezzarsi di quel collo, la strada verso il potere ancora più spianata.

Ora che Ranuccio da Marciano era stato nominato Governatore Generale dell'esercito, in sostituzione al traditore Vitelli, il Popolano si sentiva molto più sicuro della propria posizione. C'era solo una pecca, nella sensazione di leggerezza che provava, mentre tornava al suo palazzo, dopo l'esecuzione: si diceva che Ranuccio, che era tornato subito a Cascina per prendere in mano il comando delle truppe, non stesse troppo bene e una sua malattia, grave o lieve che fosse, avrebbe potuto ostacolare o quanto meno ritardare i piani del Medici.

Cercando di non pensarci troppo, Lorenzo svoltò con decisione nella Via Larga, vedendo già il profilo della sua casa e accelerò il passo.

Era ancora sulla porta, il vento che si stava alzando minaccioso che gli scompigliava un po' i morbidi ricci castani, assieme a un lembo del capperone scuro, quando sentì la voce di sua moglie dire qualcosa con una certe freddezza a qualcuno che evidentemente se ne stava zitto, incassando in silenzio quell'arringa.

“Che succede?” chiese il Medici, attraversando in fretta il cortiletto e vedendo finalmente l'interlocutore di Semiramide, ovvero l'avvocato Giacomo Aldrovandini.

“Ecco, mio marito è arrivato.” fece piccata l'Appiani: “Potete parlare con lui di queste cose. Per quanto mi riguarda, mi disgusta, discutere di certi argomenti...”

La donna, dicendo ciò, lanciò uno sguardo di biasimo al legale e poi, con molto più astio, si rivolse al marito.

“Gradirei che in futuro ti mettessi d'accordo meglio, quando prendi questo genere di impegni. È l'ultima volta che intrattengo l'avvocato.” mise in chiaro, in un sussurro aggressivo: “Se sei davvero così deciso a rovinare tua cognata e tuo nipote, fallo, ma io non voglio averci nulla a che fare.”

Il Popolano non ribatté, costringendo, a quel modo, Semiramide a una ritirata strategica senza aver modo di sfogarsi con un litigio vero e proprio.

“Vi avevo detto di passare nel pomeriggio.” disse piano l'uomo, occhieggiando verso l'avvocato, ma tornando poi con gli occhi tondi a cercare il profilo della moglie, che stava sparendo su per le scale: “Sapevate che ero impegnato.”

“Lo so, ma è una cosa importante...” fece Aldrovandini, che ancora non si era ripreso dalla sfuriata che l'Appiani gli aveva dedicato, quando aveva saputo il motivo del suo arrivo: “Si tratta di vostra cognata.”

“Questo l'avevo intuito.” annuì Lorenzo, facendosi seguire da Giacomo verso una saletta in cui avrebbero potuto parlare con calma.

Quel breve incontro con Semiramide aveva riportato alla mente del Medici gli incontri, ormai abbastanza frequente, che lui e la donna intrattenevano. Era sempre lei a cercarlo e lui non faceva più nulla per rifiutarla. Anche se durante il giorno si comportavano quasi come due sconosciuti o addirittura come due nemici, di notte quando l'Appiani entrava silenziosamente nella sua stanza, infilandosi poi nel suo letto, marito e moglie sembravano ritrovare un briciolo di unione e complicità. Peccato che entrambe le cose sparissero nell'attimo esatto in cui la donna lasciava il baldacchino, rivestendosi in fretta e uscendo dalla camera del Popolano per tornare nella propria.

“Allora? Parlate.” fece il padrone di casa, facendo sedere l'avvocato.

“Il papa ha scritto una bolla per tutti i Signori di Romagna, dichiarandoli decaduti per non aver pagato quanto dovuto.” spiegò Aldrovandini: “Vostra cognata non si è difesa, anzi, sembra che abbia catturato una delle squille papali.”

Lorenzo si morse il labbro grattandosi poi la guancia, che si era fatta incavata: “Credete che sia una cosa sufficiente per dichiararla incapace di custodire il bambino?”

“La storia della squilla forse no, ma l'ufficializzazione della decadenza del suo titolo potrebbe. E inoltre a breve dovremo riscuotere un'altra rata e se le sue casse sono davvero esauste...” fece Giacomo, con un'alzata di sopracciglia.

“Ha quel maledetto Numai a farle da garante.” gli ricordò il Medici, che non voleva credere a quel colpo di fortuna.

“Per ora.” fece l'avvocato: “Se si riuscisse ad accelerare la discesa del figlio del papa in Romagna, immagino che uomini come Luffo Numai, che è sopravvissuto a tutto cambiando continuamente bandiera, non ci penserebbe un istante a issare i vessilli francesi al suo palazzo...”

Il Popolano strinse il morso e poi, il cuore che accelerava all'idea di essere quasi arrivato al suo scopo, annuì convinto: “Domani, alla Signoria, cercherò di fare quello che posso. Se succedesse quello che voi sperate, Aldrovandini, allora sarei a un passo dall'avere qui quel bambino e dal poter mettere legalmente le mani sull'intero patrimonio.”

'Non che non ne stiate già disponendo, in fondo' pensò tra sé il legale, continuando però a sorridere affabile.

“A quel punto nessuno potrebbe più accusarmi di aver usato impropriamente dei soldi che, in fondo, sono miei di diritto.” continuò Lorenzo, come a volersi convincere ancor di più della bontà dei suoi propositi: “E sia, ci proveremo.”

 

Caterina teneva le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso sulla lettera di Gaspare Sanseverino.

“E i suoi fratelli? Sappiamo che stanno facendo?” chiese, senza staccare gli occhi dal foglio.

Nello studiolo del castellano, a parte Pirovano e Cesare Feo c'erano anche l'Oliva, Numai, Bernardino da Cremona – che era stato chiamato proprio dal castellano – e Galeazzo, che aveva seguito Giovanni da Casale quando l'aveva visto lasciare la cittadella.

L'Oliva si schiarì la voce e si mise a elencare, indicando di quando in quando la piccola mappa d'Italia posta sulla scrivania, accanto alla lettera di Fracassa: “Giovan Francesco ha ottenuto a patti Tirano, per conto di Gian Giacomo da Trivulzio, e ha occupato Bellinzona. Dicono che stia entrando sempre di più nelle simpatie del re di Francia, che potrebbe dargli un titolo da un momento all'altro.” prese fiato e poi, accigliandosi un po' proseguì: “Galeazzo Sanseverino, invece, resta con vostro zio, l'ha seguito verso Bormio e ora dovrebbe essere a Innsbruck con lui.”

La Sforza fece un profondo sospiro. Il fatto che un soldato abile e spregiudicato come Gaspare Sanseverino stesse chiedendo una condotta proprio a lei la lusingava. Tuttavia la insospettiva in egual misura.

“Come mai Fracassa è arrivato a chiedere di combattere proprio per noi?” chiese, a voce alta, cercando lo sguardo di tutti gli altri presenti, invitandoli a dire così la loro: “È un uomo intelligente, sa che la nostra è una causa persa...”

“Forse perché non sa più a chi rivolgersi...” provò a dire Bernardino da Cremona.

“Spiegatevi meglio.” lo incoraggiò la Contessa, curiosa di sentire che avesse da dire quell'uomo che, secondo Cesare Feo, meritava addirittura il titolo di castellano di Ravaldino.

“Fracassa si è visto togliere Cittadella da Venezia perché sospettato di volerla consegnare agli imperiali – spiegò il cremonese – sia per via della fedeltà di suo fratello Galeazzo verso il Moro sia per le sue non misteriose tendenze filosforzesche.”

“Mi pare un po' poco per lasciare tutto e rivolgersi a me.” fece la Sforza: “Senza contare che i tremila ducati che mi chiede per questa condotta sa benissimo che non glieli potrei dare. Ha avuto modo di toccare con mano i disagi economici del mio Stato. In più, sapendo che da questa guerra, al mio fianco, non ne uscirebbe...”

“Ha cercato di tornare in veneto, dopo la storia di Cittadella – proseguì Bernardino, che si era interessato molto alle vicende dei Sanseverino – ma gli è stato impedito di superare Verona. Adesso è a Ferrara, ma dubito che stia riuscendo a convincere gli Este, e tanto meno i Bentivoglio, con cui pare che abbia cercato contatti, a prenderlo come loro uomo, dato che si è spinto a chiedere a voi.”

“I Bentivoglio..!” sbuffò Pirovano, che fino a quel momento non era riuscito a spiccicare parola, troppo occupato dal passare al setaccio l'immagine della sua amante, come a voler capire, da qualche semplice occhiata, se gli fosse stata fedele o meno, in quei pochi giorni che li avevano visti separati: “Né Alessandro né Annibale otterranno una condotta dal re di Francia, ne potete star certi.”

“Come fai a dirlo?” chiese la Tigre, quasi con aggressività.

Nessuno dei presenti, escluso Bernardino da Cremona, che non aveva ancora capito che cosa ci fosse tra il milanese e la Leonessa, si stupì nel sentirla parlare così al comandante della cittadella.

“Lo dico perché se avesse voluto dargliela, l'avrebbe già fatto. Li sta menando per il naso, così come Firenze sta facendo con noi.” rispose Giovanni, senza fare una piega: “Perché lo sai anche tu che è così.”

Caterina non voleva trascendere, specie perché Pirovano le era mancato, in quei giorni, e riprendere con lui il discorso andandosi subito a beccare sulla questione di Firenze non le sembrava una bella cosa: “Comunque immagino che nemmeno gli Este lo prenderanno. Anche loro stanno cercando di elemosinare qualcosa dal re di Francia, figuriamoci se elargiranno qualcosa a Fracassa...”

“Quindi?” chiese a quel punto Numai, appoggiato al bracciolo della poltrona, le gambe che gli dolevano un po', nello stare in piedi a lungo: “Lo prendiamo noi?”

La Sforza era molto tentata di farlo, ma tremila ducati erano molti e del Sanseverino non sapeva se fidarsi o meno.

Suo figlio Galeazzo, al suo fianco, era quello in cui l'attesa era più evidente. La guardava teso, come se volesse capire cosa stava succedendo in quel momento nella sua mente. Dava più l'idea di uno scolaro rapito da una spiegazione particolarmente interessante, che non di un ragazzo la cui madre stava per decidere se accettare o meno la mano tesa di uno dei migliori comandanti d'Italia.

“Conosco un po' Fracassa – concluse infine la donna – e so che è un uomo feroce in battaglia, ma con un forte senso dell'orgoglio e della lealtà. Tuttavia devo declinare: tremila ducati, per lui, io non li ho.”

Gli uomini che la circondavano restarono immobili e zitti. Dopo qualche secondo cominciarono a guardarsi l'un l'altro, un po' come se non capissero l'entità di quella scelta. Quasi, anzi, come se non riuscissero a decidere se la Contessa avesse preso la decisione giusta o quella sbagliata.

“Dunque è questa la risposta ufficiale che dobbiamo dare al Sanseverino? Che non abbiamo abbastanza soldi per pagare la cifra che lui chiede?” sussurrò Numai, che sapeva bene che tremila ducati la Tigre avrebbe potuto tirarli fuori, ma andando a impoverire i fondi per le armi, il cibo e, soprattutto, per le rate della cauzione da versare a Lorenzo Medici per potersi tenere Giovannino.

“Sì.” decretò Caterina, deglutendo e ridando la lettera di Fracassa al Consigliere: “Scriveremo così.”

Siccome Galeazzo la stava ancora fissando, questa volta però non con l'ansia di chi vuole imparare, ma con una confusione più che evidente, legata forse al fatto di non aver sentito uscire dalle labbra della madre quel che si aspettava, la Sforza decise di essere un po' più esplicita di quanto non era solita essere.

“Se la sua volontà di essere con noi in questa guerra, guadagnandosi una fine onorevole e degna del soldato che è stato per tutta la vita, è sincera, si presenterà qui comunque, anche senza la promessa dei tremila ducati che chiede. O, al massimo, ci farà una proposta con una cifra più ragionevole. Se invece non ci farà sapere più nulla – sospirò infine, cercando le iridi del figlio, di un verde così limpido da lasciarla sempre stupita – significa che è solo un ipocrita come tutti gli altri.”

Detto ciò, la Contessa perse qualche minuto a spiegare con maggior precisione che termini usare nella lettera di risposta, e poi congedò tutti quanti. Galeazzo avrebbe voluto fermarsi un momento in più, per farle qualche domanda, ma vedendo che anche Pirovano restava fermo al suo posto, desistette, andandosene come gli altri.

“Sei sicura che sia stata la mossa più saggia?” chiese Giovanni, quando furono soli, avvicinandosi subito a lei.

Caterina sentì le mani di lui cingerle i fianchi e per qualche secondo non gliene importò più nulla né di Fracassa, né di tutti i fratelli Sanseverino.

Tuttavia, prendendo per i polsi l'amante e mantenendo tra loro una certa distanza, si trovò a rispondere con cognizione di causa: “Sì, ne sono sicura. Non posso permettermi di fare certe spese adesso. E se Gaspare non sarà dei nostri, poco male... Ne arriveranno altri, a combattere per me.”

A Giovanni quella sicurezza sembrava eccessiva, ma quell'impressione non bastò a spegnere il desiderio che cresceva in lui.

Vorace come un lupo che si trova davanti una facile preda dopo giorni di digiuno, l'uomo di protese di nuovo verso di lei e la baciò. La Contessa ricambiò lo slancio, approfittando anzi della loro vicinanza per stringerlo a sé e godersi il contatto con il suo corpo giovane e attraente.

Tuttavia, proprio mentre stava per decidersi ad andare a chiudere la porta e dar sollievo alla fame che stava crescendo in modo irrefrenabile in lei, nello studiolo fece di nuovo capolino Cesare Feo che, distogliendo lo sguardo nel trovare Pirovano e la sua signora ancora intrecciati l'uno all'altra, le labbra che si sfioravano appena, disse, in fretta: “Mia signora, un certo Paolo, che sostiene di essere un figlio illegittimo del vostro primo marito, è alle porte che vi aspetta.”

“E che vuole?” chiese Caterina, in un soffio, allentando un po' la stretta con cui teneva premuto contro di sé Giovanni, ma senza allontanarsene.

“Chiede di poter parlare con voi, perché vorrebbe unirsi a voi nella resistenza. Dice di arrivare da Roma e si avere anche delle notizie che potrebbero interessarvi.” spiegò il castellano.

La Contessa ricordava solo vagamente di un figlio illegittimo di Girolamo di nome Paolo. Le sembrava di rimembrare il suo primo marito borbottare qualcosa riguardo a quel nome, che era quello di suo padre, come se fosse una questione di prima importanza, anche se poi, dopo aver imposto quella scelta, si era rifiutato di riconoscere il bambino. All'epoca, quando erano ancora a Roma, Caterina non vi aveva dato il minimo peso, trovando tutto ciò che aveva a che fare con Girolamo solo ripugnante. Adesso, però, che un altro frutto dei continui tradimenti del Riario arrivava a offrirlesi quasi come un riscatto per le colpe del padre, la Leonessa cominciava a rivalutare la situazione.

Anche se a distanza di anni, l'aver sopportato l'umiliazione di essere tradita, oltre al dover subire le violenze di Girolamo ogni qual volta lui lo volesse, cominciava a ripagarla.

“Ditegli che sarò da lui tra un attimo. Fatelo aspettare nel cortile d'ingresso.” ordinò la donna, congedando il castellano.

L'uomo se ne andò all'istante, e Giovanni da Casale, che aveva capito quanto poco tempo gli restasse per godere della vicinanza dell'amante, tornò a stringerla a sé con furia.

“Visto?” fece la Tigre, in un sussurro un po' roco, all'orecchio di Pirovano: “Arrivano da ogni dove, per combattere per me.”

Il milanese la baciò ancora, sulle labbra e sul collo, ma poi, quando vide che lei ormai non l'assecondava più, la liberò dal suo abbraccio e le chiese: “Quando potremo stare un po' da soli?”

“Farò il possibile...” fece lei, sfiorandogli la guancia con la mano e andando poi alla porta: “Se sapessi quanto lo voglio anche io, non mi guarderesti così.” aggiunse, scorgendo il disappunto sul viso dell'amante.

Giovanni non ribatté oltre, ma, appena restò solo nello studiolo del castellano, si sentì un autentico sciocco. Lui stava perdendo le notti nel pensare alla Sforza, quando lei, quasi sicuramente, le perdeva crogiolandosi tra le braccia di altri uomini.

Deglutendo e sentendo un peso sullo stomaco che gli rendeva quasi difficile respirare, Pirovano si prese un istante per calmarsi e poi, ricordandosi gli impegni che aveva ancora per quel giorno, uscì dallo studiolo, attraversò buona parte della rocca, passò dal cortiletto d'ingresso – trovandovi Caterina con un giovane dai capelli scuri, e ignorandoli volutamente – e se ne tornò alla cittadella, dove, fino a sera, abbaiò ordini a tutti senza riuscire a farsi passare il cattivo umore che l'aveva stretto nella sua morsa.

 

 
 
   
 
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