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Autore: CHAOSevangeline    08/09/2019    1 recensioni
{ Apollo/Giacinto | Questa storia partecipa alla "Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP. }
Apollo ha scoperto di recente che odia innamorarsi: troppi pensieri, troppe preoccupazioni, brutte esperiente e troppo dolore.
Ma non può impedire a un giovane principe spartano di fare colpo su di lui.
Un breve racconto su come tutto è cominciato.
E su come Apollo si è impegnato per farlo funzionare.
----
"«Shhht!» proruppe Apollo, chinandosi a propria volta di fronte a Giacinto che ancora stava in ginocchio.
«Ma voi siete…»
Certo Apollo avrebbe voluto toccare Giacinto per la prima volta in modo un poco più romantico e non premendogli una mano sulle labbra.
Gli occhi verdi di Giacinto si spalancarono.
Oh dei, pensava forse volesse ucciderlo?
Perché questo pensava la gente di solito, no?
Apollo ritrasse la mano.
«Non ti voglio fare del male», esalò. «Solo… sono qui in incognito.»"
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Apollo, Artemide, Eros
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Atto II
 

 
Nel giardino in cui Giacinto l’aveva condotto c’era una fontana.
Sdraiarsi su una delle panche per farsi abbeverare dal giovane principe non sarebbe stata un’idea malvagia, ma Apollo riconobbe quanto poco adatta fosse a un primo incontro.
Il dio era chino sul bacino d’acqua artificiale, intento a sciacquarsi il viso; Giacinto invece stava seduto sul bordo, le mani salde su di esso, e osservava Apollo solo con la coda dell’occhio, cortese; per quanto il dio fosse bello non voleva rischiare di disturbarlo apparendogli invadente. Eppure proprio non riusciva a fare a meno di scrutarlo, tentando di cogliere, se gli era concesso e non peccava di presuntuosità, ciò che stava oltre l’apparenza. Perché era vero ciò che si diceva di Apollo: era ben più nebuloso della luminosa chiarezza che incarnava.
Loxias, lo chiamavano. L’oscuro. Il dio delle profezie imperscrutabili.
Tutto quel mistero però non spaventava Giacinto e lo rendeva anzi curioso. Assai curioso. Avrebbe dovuto stare in guardia, sapere che quello poteva essere uno dei molti inizi della tragica storia tra un dio e un umano. Ma il principe proprio non riusciva ad essere spaventato, non riusciva nemmeno a pensare di doverlo essere, a convincersi di dover provare quel sentimento. Non mentre era vicino ad Apollo. Si sentiva sereno.
«Se mi è concesso chiederlo, cosa vi ha portato a Sparta?»
Su questo il dio aveva visto giusto: Giacinto non era sciocco. Avrebbe dovuto soppesare le proprie parole, perché la sua mente splendeva come un diamante e in qualità di principe doveva aver ricevuto un’educazione di retorica che avrebbe potuto metterlo in difficoltà più di quanto non lo fosse quando parlava con Ermes. Non perché Giacinto brillasse più del messaggero degli dei – agli occhi di Apollo sì, in realtà –, ma perché Apollo, di Ermes, non era innamorato: non avrebbe rischiato di non saper controllare le proprie parole in preda ai sentimenti.
Era anche per questo che le mani unite a coppa stavano continuando a sciacquare il suo viso: doveva mantenersi lucido.
Apollo sollevò la mano in un cenno.
«Non servono questi convenevoli», lo rassicurò con un sorriso. «Parlami come parleresti a un amico.»
Intanto aveva preso tempo.
Giacinto lo guardò.
«Vuoi essere mio amico?»
Lo chiese per scoprire se quelle fossero le reali intenzioni del dio, ma la sua domanda suonò anche come una richiesta, quella di diventare davvero amici. All’epoca ancora non esisteva un termine per definire il rischio che Apollo stava correndo, sarebbero stati necessari millenni perché qualcuno s’inventasse di definire la zona amici. La paura che provò Apollo fu tuttavia la stessa: quella di essere solo un amico.
Come poteva spiegargli di essere lì per lui senza suonare inquietante? Come poteva spiegargli tutto ciò che gli passava per la testa e prima di tutto comprendere se fosse il caso di farlo, essendo Giacinto ancora uno sconosciuto?
Più gli stava vicino e più si dimenticava delle preoccupazioni con cui aveva tediato Artemide per giorni, perché appena una manciata di giorni era trascorsa da quando aveva iniziato a farlo. Accanto a Giacinto era distratto dal fuoco naso dentro di sé, lo stesso sentito divampare quando aveva incontrato Giacinto e lui gli aveva sorriso gli aveva sorriso; Apollo tentava invano di spegnerlo con l’acqua di quella fontana, ma falliva nell’intento perché non c’era acqua terrena o divina in grado di placare quell’ardore.
Apollo decise che, avendo scelto di essere una persona migliore, avrebbe dovuto comprendere cosa pensasse Giacinto di lui prima di compiere qualsiasi altra mossa. Avrebbe dovuto scavare oltre l’innocenza che lo rendeva sicuro della sua sincerità quando lo trattava con gentilezza: doveva capire cosa provava e finché doveva fare questo nulla era o sarebbe stato deciso.
Dunque era il momento. Il momento di scoprire se il suo cuore sarebbe andato in frantumi come quel famoso negozio di vasi o se sarebbe rimasto integro, dandogli la possibilità di continuare a crucciarsi per timore degli esiti di quell’innamoramento.
Decise di essere seducente, di essere sé stesso quando non era agitato.
Alzò il capo dall’acqua, gettando un ultimo sguardo nei propri occhi riflessi per darsi coraggio prima di voltarsi verso Giacinto. Fili d’oro umidi gli incorniciavano il viso, le dita che scorrevano fra le ciocche per scostarle dagli occhi. Gli sorrise: un sorriso che nulla aveva a che vedere con quello puro di Giacinto, un sorriso che pareva voler essere letale quanto le frecce scoccate insieme alla sorella con il proprio arco d’oro.
Seducilo –, sembrava dirsi. – Avanti Apollo, che lo sai fare. Credi in te stesso.
«E se ti dicessi che sono venuto a Sparta per te?»
Fosse stato una divinità dell’amore avrebbe sentito il cuore di Giacinto perdere un battito, ma Apollo poteva solo sperarlo. O sperare di capire in cosa sperare, perché nemmeno sapeva più cosa fosse meglio per sé, per Giacinto. Anzi, per Giacinto lo sapeva: avrebbe dovuto lasciarlo in pace.
Il trucco era fingere. Fingere una sicurezza che allora era anche inutile, dopo essere quasi crollato come un pezzo di stoffa bagnata di fronte agli occhi del principe. Mantenne quell’espressione sicura e scrutò il volto di Giacinto.
Perché, perché non riusciva a vedere nulla? Perché non riusciva a capire?
Era così che si sentivano i mortali quand’erano innamorati? Non capivano più nulla? O non lo capivano mai?
Era il maledetto dio delle profezie e non riusciva a prevedere niente. Forse stava davvero diventando sciocco come aveva presagito Artemide milioni di volte. Ma se l’aveva presagito la sorella forse gliel’aveva rubato lei il potere! No, stava diventando anche paranoico.
Le gote di Giacinto si tinsero, più per una speranza lusinghiera appena avverata che per l’imbarazzo di una sorpresa sgradita.
Ancora una volta, non pareva sconvolto.
«Sei qui per rapirmi?»
Quella domanda fu inaspettata.
Apollo non stava bevendo più, ma non serviva un liquido per soffocarsi: poteva farlo anche con l’aria.
Tossì.
«Cosa?! No!»
La candida domanda di Giacinto era dettata da una legittima curiosità. E anche dal voler prendere in giro Apollo perché era buffo vederlo imbarazzarsi.
Si trattenne dal ridere per non essere insolente.
«Tuo padre. Ha rapito un ragazzo, una volta», proseguì Giacinto.
Oh. La questione Ganimede. Troppe persone gli chiedevano di quella storia.
«Mio padre… ha dei modi di fare tutti suoi», tentò di dissimulare. «E poi si era trasformato in un’aquila per riuscirci. Non mi sembra di essere un animale, adesso.»
Giacinto rimase in silenzio. Forse Apollo era riuscito a scamparla, ad arginare quei dubbi più che sensati per Giacinto, ma scomodi per lui.
«Però so che anche tu ti sei trasformato in una tartaruga[1] per…»
Apollo andò in panico perché le proprie vecchie e poco ortodosse conquiste erano un discorso che avrebbe preferito non affrontare con nessuno: se ne vergognava. Figurarsi parlarne con Giacinto.
Portò ambo le mani sulle sue spalle, una per ciascuna.
Era serio, ma serio di risolutezza e non di rabbia.
Giacinto si era fatto più piccolo sotto il peso delle sue mani, ma solo per un’istante: le dita di Apollo non stringevano, le mani non lo schiacciavano. Era più delicato di qualsiasi tutore avesse mai avuto. Apollo aveva avvertito una fitta al solo pensiero d’averlo spaventato, ma quando sentì i suoi muscoli stendersi quasi si rilassò anche lui.
Questo gli piaceva di Giacinto: non aveva paura di lui. Gli teneva testa, diceva la verità. Era coraggioso.
«Sono venuto a Sparta perché ti avevo notato», iniziò. «E volevo conoscerti. In modo autentico, senza profetizzare niente. Non è così che funziona e andare a Delfi a far avere un’epifania su di me al mio stesso oracolo sarebbe stato stupido», borbottò. «Certo non avevo considerato quanto tu sapessi di me e che avrebbe reso il tutto così imbarazzante.»
Il giovane principe ascoltò quell’accorata spiegazione in silenzio, le labbra schiuse, senza distogliere gli occhi da quelli di Apollo un solo istante. Sembrava volersi giustificare, il dio.
Per la prima volta da quando si erano incontrati Giacinto pensò bene a ciò che stava per fare, perché Apollo doveva capire.
«Perché imbarazzante? Ci sono dei che hanno fatto cose più imbarazzanti di te», gli fece notare. «Ti direi che possiamo prenderli in giro se fosse da me e se non rischiassi di essere fulminato.»
Apollo rise e Giacinto capì che stava andando nella direzione giusta. Le sue dita si poggiarono sul dorso della mano di Apollo. Fresche e morbide sulla pelle calda del dio che pensò di aver appena ricevuto la più grande delle grazie.
«So quello che la gente dice di te. Loro non ti conoscono e nemmeno io», cominciò pacato. «Ma mi piacerebbe farlo. Sei stato gentile con me.»
Giacinto aveva appena detto nel modo meno sminuente possibile che non aveva paura. E se anche gli avesse detto che non era spaventoso e non gli incuteva timore, Apollo sarebbe stato ugualmente felice. Perché Giacinto non era fuggito.
Trattava Apollo come una persona ed era il primo a farlo, il primo a togliergli il peso di essere un dio dalle spalle. Il primo a farlo essere Apollo e non il crudele, l’uccisore.
Apollo si chiese se non avesse piantata fra le scapole una delle subdole frecce di Eros e si chiese anche quale magia fosse in grado di compiere Giacinto per spazzare via ogni sua pena: anche il pensiero della maledizione di Eros, che era il suo più grande timore, in quel giardino scomparve.
 
 
«Quindi ti ha detto che vorrebbe rivederti.»
«Sì.»
«E tu mi stai chiedendo se secondo me gli piaci.»
«Potresti anche suonare meno sarcastica.»
«Potrei farlo se non stessi chiedendo a una delle dee vergini se piaci a un ragazzo quando palesemente è così.»
Apollo e Artemide non sapevano avere uno scambio che non fosse acido. Quando Artemide non sfoderava gli artigli, Apollo la costringeva a farlo rendendosi insopportabile. Quei siparietti erano anche buffi da osservare e sarebbero stati divertenti da interpretare, se solo entrambi i gemelli – Apollo per primo – non fossero stati esasperati dalla situazione.
Il dio del sole le gettò uno sguardo in tralice, poi fissò i propri piedi.
Era tornato da Sparta dopo aver ricevuto notizia da Ermes che Artemide lo attendeva al solito posto: il Parnaso, sempre lui. Nemmeno le inveì contro per non averlo raggiunto dato quanto bene era andata la propria uscita e anzi, appena era giunto aveva strillato come un’adolescente raccontandole l’accaduto. Si era esageratamente rallegrato del fatto che Giacinto gli avesse toccato una mano e l’aveva agitata a mezz’aria di fronte al naso della sorella rischiando per poco di schiaffeggiarla.
«Oh lode a nostro padre Zeus, mi ha toccato!»
E aveva proteso la mano verso il cielo, reggendosi il braccio con l’altra quasi fosse una reliquia.
«Aveva paura che lo rapissi ma mi ha toccato!»
E saltellava intorno alla sorella come un’idiota, seminando le frecce della propria faretra come briciole dietro di sé fino a quando non ebbe disegnato un cerchio intorno ad Artemide.
«È così bello, a un certo punto stavo per cadere per terra!»
La dinamica di questa scena fu forse la più sconnessa e confuse Artemide.
«Ed ero tipo “è strano se non ti conosco e tu conosci me, però so che sei bravo in atletica!” e lui ha detto “oh, davvero lo pensi? Però potrei imparare tantissimo da te!” E io ero tipo oh miei dei è fantastico! Abbiamo un sacco di cose in comune!»
Apollo si arrestò. Un ginocchio sollevato per un altro passo, statuario, quasi Medusa in persona fosse apparsa e l’avesse pietrificato sul posto.
Si era spento e Artemide si chiese se non fosse necessaria un’immediata trasfusione d’icore.
«Credo di amarlo.»
Artemide avrebbe voluto salire sulla cima del Parnaso e inveire contro Zeus, chiedergli perché. Giacché lo stavano invocando, che lo facessero una volta in più e per qualcosa di utile. Anche se gli affari d’amore non competevano il padre degli dei, Artemide gli avrebbe domandato perché avesse permesso che l’amore facesse sempre del male a suo fratello.
Ma questo sarebbe servito solo a lei, per avere un capro espiatorio. Capì che era il momento di essere una brava gemella e mettere ordine nella zucca confusa di Apollo, che sapeva essere ordinata solo in prossimità di Giacinto il quale, sfortunatamente, al momento non era lì.
«D’accordo. Va bene, respira», iniziò, prendendo la mano del fratello per timore di qualsiasi sua reazione. «È una cosa non indifferente ma non farti venire una crisi isterica.»
«Come faccio a non farmi venire una crisi isterica?!»
Artemide gli stritolò la mano e Apollo tornò composto.
«Cos’è che ti preoccupa davvero?» domandò. «A parte qualche paranoia sull’essere brutto, che non è la vera questione.»
Lei lo sapeva, sapeva cosa c’era, ma era Apollo a doverlo riconoscere.
«Non so, che mi tocchi intrecciare un bracciale di giacinti magari.»
Una sarcastica allusione all’alloro. Era grave.
Artemide avrebbe riso, perché era una di quelle battute pungenti che l’avrebbe divertita se fosse uscita dalle labbra di Apollo per prendere in giro qualcun altro. Ma allora gli spezzò il cuore.
«Non è detto che vada male.»
«Non è detto nemmeno che vada bene», ribatté lui. «Sono un dio. E se gli accadesse qualcosa? Non lo sopporterei.»
Dea della luna e della caccia, Artemide aveva fatto i propri danni e fatto infuriare divinità che sarebbe stato meglio non inimicarsi. Salvo questo, era assennata e astuta: sapeva a cosa andava incontro. Il suo essere impulsiva spesso tradiva le proprie previsioni e rischiava di demolire un buon piano per una risposta che la infastidiva. Ma adesso si stava dedicando ad Apollo e poteva essere avveduta quanto voleva.
«Ehi, quanti umani sono ascesi all’Olimpo? Quanti sono divenuti immortali? E poi l’ultima volta le cose sono andate male per colpa di Eros», fece notare ad Apollo. «Evita di dirgli quanto sei più bravo a tirare con l’arco, così magari ti sarà favorevole.»
Silenzio.
Apollo schizzò in piedi.
Oh-ho.
Aveva proprio gli occhi di quando stava per incenerire un mortale. O di quando aveva tentato di planare sull’Olimpo con il proprio carro perché era pieno del vino di Dioniso e qualcuno, forse Atena, lo aveva infastidito e dunque voleva investirla.
Era meglio che non provasse a farlo con Eros, però: oltre ad essere imp­­­­­­ossibile anche solo l’idea di sbarazzarsene in via definitiva, Zeus avrebbe rinchiuso Apollo insieme ai Titani pur di non sentire Afrodite frignare. O forse Ares l’avrebbe squartato. Di solito era Apollo a riservare questo trattamento agli altri, non il contrario: Artemide sospettava non avrebbe sopportato nemmeno un taglietto.
«È vero, è stata tutta colpa di Eros!»
Per la verità Eros non era responsabile di tutte le relazioni fallimentari degli olimpi, né di tutte loro sfortune, ma ad Apollo faceva comodo pensarlo e la questione si applicava in modo diverso.
Eros era responsabile degli innamoramenti a volte e, nel caso di Apollo, anche del fatto che si fosse preso sbandate per donne che non lo volevano nemmeno vedere. E che avevano preso decisioni drastiche pur di non avere a che fare con lui.
Apollo ne portava una in testa.
«… Apollo», lo richiamò Artemide. «Apollo, parlaci e basta.»
Avrebbe dovuto accompagnarlo, fermarlo. Invece lo guardò.
Apollo annuì e se ne andò dalla collina dove la sorella stava affilando la punta delle proprie frecce prima che arrivasse.
Il dio del sole si curava di pochi dei così come faceva Artemide. Non era sicura del piano del fratello, ma almeno le sembrava più motivato di quanto non lo avesse visto nei giorni appena trascorsi.
 
 
«Eros!»
Apollo tuonò il suo nome ancor prima di raggiungere il tempio nel quale il giovane dio amava rifugiarsi.
Gli sembrava assurdo doversi rapportare con quello che a conti fatti sembrava ancora un bambinetto.
Rispetto a quando l’aveva messo nei guai con la ninfa di cui si era innamorato lo vedeva più adolescente che bambino, ma tant’era: sempre un ragazzino che girava mezzo nudo con arco e frecce taglia bebè e dei ricciolini biondi che gli avrebbe volentieri strappato dalla testa a morsi.
Cuccia, Apollo. – se lo disse da solo.
Il volto paffuto del ragazzino fece capolino da dietro l’altare. Cosa stesse tramando lì dietro, quali frecce stesse progettando per la fucina di Efesto, in modo da rendere più letali quelli che per lui erano solo dispetti, Apollo non lo sapeva. Sperava che il fabbro degli dei non gliele realizzasse, quelle armi: tanto che aveva da perdere? Afrodite già lo tradiva e in più Eros era un figliastro, non aveva ragione di aiutarlo. Apollo si dimenticava sempre di esserlo anche lui, un figliastro, ma credeva di poter vedere applicate regole diverse su di sé.
L’importante, comunque, era che Eros fosse uscito dal proprio nascondiglio, in modo da non dover sradicare l’intero tempio per stanarlo. Certo una disinfezione dell’ambiente sarebbe stata in ogni caso necessaria con la sua presenza lì, ma quel tempio non era mica suo.
«Si urla in casa degli altri?» lo salutò il ragazzino, balzando sull’altare su cui si sedette a gambe incrociate.
Afrodite era bella e, oggettivamente, anche Eros lo era. Insomma, lei e Ares si erano impegnati. Agli occhi di Apollo però sembrava la creatura più tremenda al mondo: le due file di denti perlacee gli sembravano più che altro gli spuntoni di un’antica trappola mortale e i vispi occhi castani una pozza di sabbie mobili capace di uccidere.
Insomma, non il volto che avrebbe sperato di avere come prima visione al mattino. Né in nessun altro momento della giornata. Né mai.
Invece era tecnicamente ziastro di quell’obbrobrio maleducato e antipatico.
«Ti avrei urlato contro anche fossimo stati altrove», gli fece notare.
Dopo quello scambio equivalente a «buongiorno» e «come stai?» Apollo pensò fosse il caso di palesare il perché della propria visita.
«Devo chiederti una cosa.»
Il ragazzino parve incuriosito. Si alzò in piedi sull’altare e finse di camminare a mezz’aria, anche se tutto il lavoro lo stavano facendo le sue alette piumate.
Ad Apollo ricordava sempre una gallina.
«Che cosa?»
«Io e te. Siamo a posto, giusto?» gli chiese. «Ce l’hai con me per qualcosa?»
Che colpo all’orgoglio: chiedere a un bimbo se avessero questioni in sospeso. Proprio lui, il fiero Apollo.
Eros alzò un sopracciglio.
«Sei entrato nel tempio di mia madre urlandomi contro», gli fece notare. «E sembri sul punto di chiedermi un favore…»
Un sorriso inquietantemente ampio prese forma sul suo viso. Aveva mangiato lamponi, forse bevuto vino e i denti erano un po’ arrossati, ma Apollo immaginò che quello sarebbe stato l’effetto quando avrebbe banchettato con i brandelli del suo cuore. E che fossero rossi perché già quel giorno doveva averlo fatto con i resti di quello di qualcun altro.
Maledetta gallina volante e cannibale.
«Se sono arrabbiato dipende», proseguì Eros. «Che cosa vuoi?»
Due persone sapevano di Giacinto: Artemide ed Ermes. E sarebbe stato bene rimanesse così. Per chiedere a Eros di lasciarlo in pace avrebbe dovuto parlargli di lui.
Apollo s’innervosì, proprio come tutte le volte che scopriva di star respirando la stessa aria di Eros.
«Se la metti così me ne vado.»
«Davvero? A quel punto sì che sarò arrabbiato. Dovrò scoprire cosa volevi da solo e chissà cosa potrei fare allora…»
Brutto ragazzino alato figlio di una dea poco casta e fedele.
Apollo tenne quell’insulto per sé. Scelse di rischiare, perché avere un amico chiacchierone aveva i propri vantaggi: Ermes gli portava sempre delle chicche dai salottini privati degli altri dei. Non l’avrebbe toccato, ma avrebbe tenuto Eros per… quelle alette da pennuto che si ritrovava. In via del tutto metaforica.
«C’è un ragazzo…»
«Oh, chi è?»
«Non te lo dico chi è.»
«Mi sto innervosendo, Apollo…»
Palesemente non era così, ma Apollo lo accontentò alzando gli occhi al cielo.
«Si chiama Giacinto.»
«Voglio i dettagli.»
«È un bel giovane di Sparta.»
«Più bello della mamma?»
Apollo lo fissò. Era ovvio lo pensasse, ma nessuno poteva osare dire che qualcuno fosse più bello di Afrodite. Accadeva che, come aveva detto Dioniso una volta, «le prendeva male». E si era beccato un gancio solo per quell’affermazione. Il vino aveva fatto da antidolorifico.
«Anche le fidanzatine che ti trovi tu ti sembrano più belle di tua madre, brutta spia.»
Eros si zittì e mise il broncio. Un punto per Apollo.
Magra consolazione: stava arrivando la parte che lo faceva sentire male.
«Sono venuto qui per chiederti se potessi gentilmente… non so… scordarti che esisto e lasciarmi vivere questa storia in pace, senza colpire me con una delle tue frecce che mi fanno uscire di testa per qualcuno e lui con una di quelle capaci di farmi sembrare un mostro repellente agli occhi della persona che mi piace…»
Eros sbatté le lunghe ciglia bionde.
«Tu sembri sempre un mostro repellente», ribatté annoiato.
La sua smorfia di tedio era sale sull’orgoglio squarciato di Apollo.
Se Apollo sorrideva poteva compiere disastri. Circolava la leggenda che avesse raso al suolo un villaggio in una di queste occasioni, e non esattamente perché fosse esageratamente bello e avesse folgorato tutto e tutti: aveva sorriso mentre provocava una catastrofe naturale, per vendetta. Era stato cattivello, insomma.
Quando si faceva torvo, quando tutta la luce scompariva dai suoi occhi, però, allora era davvero furioso.
«Va bene, ora basta.»
La luce che entrava dalla porta del tempio svanì. Sembrava il sole si fosse non solo eclissato, ma anzi completamente svanito, quasi fino ad allora fosse stata una mera fantasia degli umani.
Apollo aveva il potere di spegnerlo e di privare il mondo di una certezza inoppugnabile non solo per i mortali, ma anche per gli stessi dei. Giorno e notte avrebbero perso di significato, ogni cosa sarebbe stata buia.
Eros capì di aver esagerato ancor prima che la mano di Apollo lo afferrasse per la cintola e l’attirasse a sé. I suoi occhi erano quelli di un lupo rabbioso.
«So cosa ti fa paura, Eros», sibilò a un palmo dal suo viso. «Credi che Atena sia l’unica davvero brava a minacciarti[2]
Fu Eros a pensare che con quei denti Apollo avrebbe anche potuto stracciare la sua carne e divorarlo.
Le labbra di Apollo si accostarono all’orecchio di Eros. Scelse le parole con accuratezza, trovò quelle giuste per instillargli il terrore nelle viscere. I foni ricordavano il suono di un coltello nella carne, talvolta uno scricchiolio sinistro di ossa. Si ispirò alle torture promesse dalla sorellastra Atena prontamente origliata da Ermes in un momento di noia e le peggiorò: scelse di essere quel dio crudele che era sempre stato solo un’altra volta, ma ora per il bene di Giacinto, perché potessero esistere le volte in cui sarebbe stato migliore e perché il ragazzo non fosse vittima del capriccio di qualche dio annoiato. Nessuno doveva scegliere al suo posto.
Per una volta Eros ebbe paura di Apollo. Per davvero.
Quando lo sentì tremare, Apollo lo lasciò libero.
«Va bene, d’accordo!» si lamentò il piccolo dio.
Fuori tornò a splendere il sole e Apollo sorrise. Raggiante come l’astro appena risorto, ma anche sinistro e minaccioso.
«Allora siamo d’accordo: niente frecce su di me o su Giacinto.»
Avrebbe potuto usare quelle minacce per persuadere Eros a colpire Giacinto con una delle sue armi proprio mentre Apollo gli stava dinnanzi e ottenere così un vantaggio, ma non era così che voleva farlo innamorare di sé.
Eros tornò a sedersi sull’altare, il cuore ancora palpitante, ma bisognoso di prendersi una piccola rivincita.
«D’accordo. Niente frecce su Giacinto, principe di Sparta. Capelli ricci e occhi verdi, giusto? Bravo in atletica», annuì. «Quello che hai incontrato stamattina, no?»
Stava giocando con il fuoco e lo sapeva.
Apollo vacillò.
«Sapevi già chi era…?» chiese con un filo di voce.
Avrebbe potuto fargli qualcosa in qualsiasi momento, se avesse voluto.
Eros sorrise, angelico.
«Mamma non mi farebbe stare nei suoi templi se non mi accorgessi di queste cose», gli fece notare. «Le mie frecce possono far impazzire d’amore le persone. Prima che ti innervosissi senza motivo eri venuto qui a chiedermi un favore. Penso tu sia già pazzo. Di lui. E io non potrei peggiorare la tua situazione.»
Apollo si sarebbe potuto infuriare di nuovo per essere stato ingiustamente accusato di aver perso le staffe senza ragione, ma era troppo felice di aver terrorizzato Eros e di avere finalmente delle certezze per poterlo aggredire allora. Si voltò e se ne andò senza neanche salutare, ma solo esultando con un «maledetto ragazzino volante!»
Tagliava corto alle volte ed era meglio così.
Eros svolazzò verso la porta, affacciandosi con appena metà del viso per guardare Apollo andarsene.
Si era spaventato davvero.
«E poi le mie frecce di piombo non fanno effetto su chi è già innamorato.»
Ma questa piccola nota su Giacinto, Eros la sussurrò quando Apollo fu troppo lontano per sentirla.
Quel che fra gli dei venne raccontato di quel giorno, forse da Ermes o da Eros stesso per amor di un amore tanto poetico, fu di quell’eclissi.
L’amore di Apollo per Giacinto era tanto potente da oscurare il sole e quello di Giacinto per lui avrebbe reso Apollo migliore.
Ma questa è un’altra storia.



 
[1] Si tratta della vicenda di Apollo e Driope. Per avvicinare quest’ultima, che era una ninfa, Apollo si trasformò in tartaruga.
[2] Ne “Dialoghi degli dei” di Luciano di Samosata, Eros confessa di non aver mai colpito due divinità con le proprie frecce: Atena e Artemide. Nel caso di Atena, ciò è avvenuto perché lo ha minacciato di terribili conseguenze se solo ci avesse provato. In compenso dice che si è divertito tantissimo a bersagliare Apollo.



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Mi sono fatta un po' attendere con questa seconda e ultima parte, ma alla fine sono arrivata.
La stavo correggendo questa sera e onde evitare di passarci altri giorni e giorni sopra ho deciso di postarla.
Si conclude dunque questo piccolo viaggio che potrebbe essere considerato come una sorta di backstage delle peripezie di un Apollo un tantino preoccupato di innamorarsi ed è deciso a far andare bene le cose.
Spero veramente la storia vi sia piaciuta e che vi vada di lasciarmi un parere nelle recensioni!
Continuerò a scrivere di mitologia. Non solo di Apollo e di Giacinto, ma anche di altri personaggi e in senso più ampio.
Come ho fatto all'inizio della storia, vi consiglio la lettura della mia modern!AU "A Giacinto", che racconta - seppur ovviamente in un contesto odierno, ovviamente - il mito di Giacinto. Cronologicamente parlando non lo è, ma a livello teorico è un seguito di questa storia perché le vicende del mito vengono ricalcate.
Se volete rimanere aggiornati sulle mie pubblicazioni vi lascio il link alla mia pagina FB, dove parlo di scrittura e sclero sui miei progetti in lavorazione e futuri.
Ringrazio ancora chiunque abbia letto fin qui.
Alla prossima!
   
 
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