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Autore: Adeia Di Elferas    10/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Stai tranquillo.” aveva continuato a dire Lucrecia, mentre lei e il marito si avvicinavano alle porte di Roma, quel 14 ottobre.

Alfonso aveva fatto tutto il possibile per seguire il consiglio della moglie, anche se, man mano che il Vaticano si profilava all'orizzonte, il giovane si sentiva sempre più in trappola.

C'erano voluti giorni di discussioni e contrattazioni tra lui e la Borja e alla fine i due coniugi avevano trovato un accordo che, in realtà, scontentava tutti e due.

Nessuno dei due coniugi aveva un reale desiderio di tornare a Roma, sotto l'ala del papa, tanto meno in quel momento, dato che mancavano pochi giorni alla nascita del loro primo figlio. Tuttavia, mettendo tutto su un piatto, era stato chiaro a entrambi quanto fosse importante cercare di ottemperare – anche se con un lieve ritardo – la richiesta del Santo Padre di riavere la figlia a Roma e, in egual misura, restare uniti in vista delle prove che sarebbero arrivate.

Lucrecia temeva sempre di più il giorno in cui suo fratello Cesare sarebbe arrivato a chiederle conto di tutti quei mesi di lontananza e anche Alfonso cominciava a nutrire dei seri timori riguardo quello che il cognato avrebbe preteso.

“Eccoci...” sussurrò la Borja, quando intravide il palazzo di Santa Maria in Portico.

L'Aragona, ancor più teso di prima, deglutì e si preparò a mostrarsi agli occhi della rada folla accorsa per curiosare. La moglie si teneva il pancione, faticando anche solo a star seduta in carrozza, mentre lui, oppresso come non mai dalle tensione che sentiva crescere tutt'attorno a sé, avrebbe solo voluto scappare dalla gabbia invisibile in cui l'avevano rinchiuso e mettersi a correre, dando sfogo all'energia dei suoi diciotto anni.

Un po' di curiosità, nei loro confronti, era già scemata perché Jofré, in uno slancio di altruismo, li aveva preceduti, facendo sì che molti romani pensassero che fosse l'unica attrazione, per quel giorno. Così il passaggio attraverso la siepe di gente che voleva scorgere anche solo per un istante il ventre rigonfio della figlia del papa fu abbastanza indolore, ma Alfonso sentì mancargli il fiato quando, ormai entrato nel loro palazzo, si accorse della quantità immane di servi e guardie che li attendevano.

A Nepi, almeno, lui e la moglie avevano avuto l'illusione di essere liberi. A Roma sarebbe stato impossibile muovere anche solo un passo senza avere dozzine di occhi piantati addosso.

“Sì, lo so che a Bartolomeo d'Alviano è stato confermato l'anno di rispetto da parte di Venezia, ma non vedo perché non debba interessarsi a una nostra proposta...” stava borbottando Rodrigo Borja, con il suo Segretario, prima di accorgersi che la figlia, che tanto aveva aspettato, era finalmente davanti a lui: “Lucrecia!” esclamò, nel vederla.

Con le grandi braccia spalancate e il volto che si distendeva per il sollievo, il pontefice marciò in direzione della figlia, evitando di stringerla a sé, per non rischiare di schiacciare il pancione, ma la prese comunque per le spalle, baciandola sulle guance tante di quelle volte che anche la giovane finì per perdere il conto.

Alfonso, che se ne stava un po' in disparte nel suo bellissimo abito di raso, con i capelli biondi in ordine e le guance ben rasate, in quella scenetta sembrava più un paggio che non il legittimo sposo della giovane donna che Alessandro VI aveva usucapito.

Passò quello che all'Aragona parve un secolo, prima che il papa si decidesse a guardare pure lui, seppur con un'occhiata fredda e di biasimo: “Oh, il nostro adorato genero... Spero abbiate fatto un buon viaggio.”

Prima ancora che il giovane potesse commentare in qualche modo, il Santo Padre strinse una delle sue forti mani attorno al braccio della figlia e, guidandola verso una delle sale, cominciò a parlarle fittamente di Cesare e dei grandi progressi che aveva fatto: “Nel giro di un paio di settimane – si arrischiò a dire, forse con troppo ottimismo – sarà già alle porte di Imola!”

Alfonso incrociò lo sguardo della moglie per la frazione di un secondo e poi, quando si rese conto che Lucrecia non aveva intenzione di provare a sganciarsi dal padre, abbattuto diede voce a uno dei servi affinché facesse portare in camera i loro bagagli e poi, sforzandosi di non cedere al nervosismo, decise di fare una rapida ispezione del palazzo, per vedere se fosse cambiato qualcosa durante la loro assenza.

 

Caterina aveva lasciato da poco il cortile d'addestramento. Aveva tirato un po' di spada e ne aveva approfittato per saggiare le capacità di Paolo, il figlio illegittimo del suo primo marito, che si era offerto da pochi giorni al suo servizio.

All'inizio era stata un po' restia ad accordargli la sua fiducia. A differenza di Scipione, che, bene o male, aveva vissuto grazie al vitalizio che lei gli passava e che, quindi, aveva qualche motivo di mostrare lealtà nei suoi confronti, Paolo era a tutti gli effetti un estraneo.

Certo, nel momento stesso in cui l'aveva visto, non aveva avuto dubbi sul fatto che il padre fosse proprio Girolamo, tuttavia sia nel modo schietto e diretto di parlare – con una forte inflessione romana – sia nei modi abbastanza sbrigativi e decisi, il giovane non ricordava minimamente il Riario. Anche quando poi l'aveva visto duellare, aveva visto ben poco del suo primo marito in lui, e quell'aspetto glielo aveva fatto risultare subito simpatico.

Durante il loro colloquio, tutto sommato abbastanza breve, il romano le aveva riconfermato tante notizie di cui la donna era già a conoscenza, spiegandole poi che aria tirasse in Vaticano e come il papa risultasse schivo e preso da altro, in quei mesi. Anche se tutti credevano che il suo cruccio fosse la campagna militare del figlio, secondo Paolo il vero motivo della sua inquietudine era la gravidanza della figlia Lucrecia.

Tutti i discorsi politici erano stati lasciati da parte quella mattina quando, sotto lo sguardo attento di Giorgio Attendolo da Cotignola e del maestro d'armi, che presiedevano quella sessione di addestramento, il ragazzo aveva dimostrato la sua capacità con le armi, stupendo la Tigre quando aveva fatto vedere cosa sapesse fare con la lancia.

La Sforza aveva preso la decisione di lasciare gli allenamenti per dedicarsi alla corrispondenza, ma non solo. Malgrado rifiutasse l'idea, il suo corpo le stava dando dei chiari segnali in quei giorni e sapeva di non poterli più ignorare. La colpa era verosimilmente delle lunghe notti che passava in bianco, delle preoccupazioni che l'attanagliavano e dei ritmi irregolari che seguiva.

Il suo medico personale l'aveva fermata nel mezzo del corridoio anche il giorno prima, mettendola in guardia, ma la Contessa aveva risposto, sprezzante: “Mi riposerò quando sarò morta.”

Era stata la risposta del dottore, la cui lingua era libera soprattutto in virtù della confidenza che ormai si era instaurata con la Leonessa, a indurla a ragionare un po' di più su quello che stava facendo e sui rischi che correva: “Se andrete avanti così – le aveva infatti detto – allora il momento di riposare per sempre arriverà prima di quel che pensate.”

Presa dall'ansia che quella situazione di costante attesa le aveva messo addosso, mangiava quando capitava, più spesso beveva vino e basta, e, in assenza di Giovanni da Casale al suo fianco, non riusciva nemmeno a trovare un po' di pace durante la notte. La sua proverbiale resistenza fisica le aveva permesso di gestire abbastanza bene tutti quegli sgarri, fino a quel momento, ma quella mattina, mentre tirava di spada, si era infine resa conto di quando fosse esausta.

Il dolore costante alle braccia che aveva provato nel vibrare i colpi, il fiato più corto del solito e le gambe che rispondevano in ritardo erano tutti moniti che il suo corpo le stava lanciando.

Così aveva colto il pretesto di badare alla corrispondenza e si era ritirata, prima che il suo cedimento diventasse troppo evidente.

Le lettere a cui aveva risposto erano ammonticchiate alla sua destra, quelle ancora in attesa di lettura a sinistra. Molta gente le stava scrivendo in quei giorni e Cesare Feo, preso da altre cose, non aveva avuto tempo di smistargliele come faceva di solito, così, in mezzo a missive di ordine commerciale e altre di stampo diplomatico, la Contessa ne aveva trovate almeno una dozzina scritte da uomini che l'avevano avuta per una notte o due al massimo.

Appena capiva il tono del messaggio, strappava la pagina e la gettava nel camino spento, sapendo che, di lì a pochi giorni, sarebbe giunto il momento di accenderlo, dando alle fiamme quelle parole che le sembravano solo le farneticazioni di qualche pazzo.

Quando aprì un voluminoso plico che aveva accantonato fino a quel momento – non riuscendo a capire chi ne fosse il mittente – la Sforza era certa di trovarsi davanti all'ennesimo lunghissimo e sgrammaticato ricordo di uno dei suoi amanti dimenticati e invece, quando cominciò a leggere le prime righe, sgranò gli occhi, sistemandosi meglio sulla sedia.

Si era quasi convinta che Bartolomeo Nerli non le avrebbe più risposto. Forse, si era detta, la sua proposta gli era risultata ridicola o, quanto meno, molto svantaggiosa, e l'aveva così accantonata senza prendersi nemmeno il disturbo di comunicarle il suo rifiuto.

Invece quello che si trovava tra le mani non era solo un messaggio con cui le si accordava il prestito che aveva chiesto, ma addirittura già il contratto riguardante il saldo del debito che si apprestava ad accollarsi.

Nerli le proponeva tremilacinquecento ducati, che sarebbero stati versati subito, in cambio di un pagamento dilazionato nel tempo in denaro contante e gioielli.

Caterina lesse con attenzione ogni sillaba del contratto che aveva davanti. Non sembrava ci fossero imbrogli, anzi, Bartolomeo non aveva nemmeno imposto interessi sulla cifra. Era un prestito del tutto pro bono e la Sforza si sentì un'imbrogliona quando, con già la penna in mano per firmare, si trovò a pensare che quel debito non sarebbe riuscita a saldarlo mai.

Leggendo le date delle rate da versare che l'uomo aveva indicato, la Tigre si rese conto che, probabilmente, lei sarebbe già stata morta allo scadere della prima. Difficile dire se il creditore avesse fatto lo stesso calcolo, dato che aveva vincolato il saldo solo ed esclusivamente a lei, lasciando fuori dalle sue pretese qualsiasi erede o garante. Pensare a una svista era difficile, ma lo era anche credere che Nerli volesse favorirla in modo tanto gratuito.

Quello che provò nel firmare una pagina dopo l'altra, tuttavia, un senso di colpa molto passeggero, già del tutto estinto all'ultima firma. Sistemò un po' le pagine, contenta di aver trovato i fondi necessari a tamponare le richieste continue di fondi per comprare da mangiare alla sua gente. Aveva dovuto arrivare a indebitarsi, per non far morire di fame il suo popolo, e poi Gaspare Sanseverino le chiedeva tremila ducati per una condotta...

Il cibo, quella era la priorità del momento. Quando al Consiglio Cittadino aveva decretato la requisizione e la ridistribuzione delle derrate alimentari, c'era stato un momento in cui aveva temuto una rivolta in piena regola. Alcuni dei rappresentanti delle famiglie più abbienti non si erano fatti problemi a mettersi a gridarle contro e qualcuno aveva pure battuto i pugni sul tavolo.

Certi, forse credendo di suonare più concilianti, avevano dato tutte le colpe al Governatore Ridolfi, accusandolo di voler indebolire Forlì per volere di Firenze. Quando la Leonessa aveva fatto loro presente che Ridolfi, ormai, non era più Governatore da giorni, c'era stato un lungo momento di silenzio perplesso, che la donna aveva saputo sfruttare.

“Il cibo ci serve per sfamare l'esercito. Soldati malnutriti, non sono soldati efficienti.” aveva fatto presente la Sforza.

“Non c'è solo l'esercito.” aveva ribattuto uno dei Consiglieri.

“No, è vero.” era stata la lapidaria reazione di Caterina: “Ma senza esercito, non ci sarebbe più lo Stato!”

Siccome qualcuno ancora aveva cercato di farla desistere, arrivando a proporre di attendere la nomina del nuovo Governatore per decidere, la Contessa aveva detto chiaramente che quella carica tornava ufficialmente a lei e che, quindi, le sue decisioni avrebbe avuto effetto immediato.

Massaggiandosi un momento la fronte, cercando di scacciare le immagini del Consiglio Cittadino dalla propria mente, la Tigre si abbandonò contro lo schienale della sedia. L'unica cosa che avrebbe davvero voluto fare in quel momento, sarebbe stato prendere il suo stallone nero e scappare nei boschi, restandoci anche fino al giorno dopo, se necessario. Doveva scaricare la tensione e liberare la testa da tutto ciò che l'affollava, ma non sapeva come fare.

Schiarendosi la voce, ricacciando indietro qualche lacrima – di stanchezza e di rabbia, al pensiero di ciò che aspettava lei e i suoi figli – la donna si impose di non cedere e di andare dritta per la propria strada. Così prese un'altra lettera dalla pila che aveva ancora alla sua sinistra e, apertala, si mise a leggerla in silenzio.

 

Finalmente il piccolo Sigismondo aveva preso sonno. Era un neonato di pochi giorni, ma a volte a sua madre, Maria Giovanna Della Rovere, pareva un diavolo. Sapeva che era sbagliato odiarlo solo per come era stato concepito, ma in giorni come quelli, la giovane non riusciva a vederlo in altro modo.

Perfino le balie lo mal sopportavano. O almeno, così le sembrava. Quale che fosse il reale motivo, le due donne che avrebbero dovuto sollevarla da ogni incombenza da puerpera, la lasciavano continuamente sola con il piccolo, comparendo solo di rado e più che altro per controllare che lei non avesse commesso qualche sciocchezza.

Era stanca e le doleva ancora molto il ventre. Era stato un parto che la levatrice aveva ritenuto semplice, ma per lei era stato un dramma. Aveva provato solo dolore. Non c'era stato nient'altro a consolarla. Non un viso amico nella stanza, non la voglia di conoscere il bambino che stava nascendo... Nemmeno il sollievo di essere ancora viva.

Tenendosi una mano sulla pancia, che era già tornata al suo volume normale, ma che la diciassettenne sentiva ancora abnorme e ingombrante, Maria Giovanna uscì cautamente dalla stanza in cui il suo secondogenito dormiva e mosse qualche passo un po' incerto verso i propri alloggi.

Voleva riposare. Solo mentre dormiva riusciva a dimenticare tutto. E invece, proprio mentre raggiungeva silenziosamente l'ala del palazzo, sentì la voce di suo marito uscire dal suo studiolo privato.

Le dava il voltastomaco, sentirlo. In quei giorni aveva cercato di evitarlo il più possibile, ma, essendo nato un maschio, Venanzio si era inorgoglito e aveva voluto mostrarla come un trofeo, assieme al piccolo, a tutti i loro amici e galoppini, finendo così per passare con lei molto più tempo del solito.

“Sì, insomma, bisogna vedere...” stava dicendo l'uomo, che avrebbe compiuto ventitré anni nel giro di tre giorni.

“Forse sarà la volta che tua moglie serve a qualcosa.” ribatté secco Annibale, il suo fratellastro, nato da una delle innumerevoli relazioni fedifraghe di Giulio Cesare da Varano.

Maria Giovanna si fermò, restando in ascolto, convinta che fosse stata tirata in mezzo al discorso per via del figlio maschio che era finalmente riuscita a dare al marito.

Perciò rimase spiazzata quando sentì Venanzio dare ragione all'altro dicendo: “Sempre che suo zio abbia davvero a cuore le sue sorti.”

Accigliandosi, la ragazza si fece più attenta. Suo zio, il Cardinale Giuliano Della Rovere, era al seguito del re di Francia e se suo marito credeva che potesse tornare loro utile, poteva esserci solo un motivo...

“Tua moglie è la sua nipote preferita, no?” chiese Annibale, con il suo tono un po' roco e sbrigativo: “E allora che lo dimostri. Nostro padre è andato a Milano apposta per strappare al re di Francia la promessa di reciproco rispetto, quindi se Giuliano vuole fare la sua parte, può farla benissimo.”

Si sentì Venanzio sospirare e poi il rumore di un calice che veniva riempito: “Io trovo che sia inutile, tutto questo teatro...” sbuffò: “Luigi non ha intenzione di invadere le Marche. Gli basteranno la Lombardia e la Romagna... E poi, adesso che mio suocero sta cercando di fare pressioni sul papa per convincerlo a far sposare Angelica Borja con suo figlio Francesco...”

“Ah!” esclamò l'altro: “Non credere che sia così facile... Il papa non darebbe così facilmente la nipote in sposa a un bambino di nove anni...”

“Mio suocero sa essere molto convincente, in fatto di matrimoni.” rimbeccò Venanzio, acido: “O altrimenti mio padre non si sarebbe certo fatto convincere a far sposare me con quella...”

Annibale non si disse né in accordo né in disaccordo e, con una facilità disarmante, cominciò a parlare d'altro, buttando subito il discorso su un piano volgare, com'era sua consuetudine.

Nauseata dal sentir parlare il marito e il cognato di quello che avrebbero fatto quella notte nei bordelli di Camerino, la Della Rovere riprese la sua camminata solitaria fino alle sue stanze. Si chiuse in camera e poi, andando a sedersi davanti al piccolo specchio che usava per sistemarsi al mattino, sollevò lo sguardo verso la propria immagine.

Tra le profonde occhiaie, le labbra pallide e lo sguardo spaurito, faceva quasi fatica a riconoscersi.

Era davvero difficile scorgere nella donna che occhieggiava verso di lei dallo specchio, la bellezza concreta e solida dei Della Rovere. I suoi lineamenti un po' duri e molto decisi, che avevano saputo fin dall'infanzia armonizzarsi in una delicatezza tutta particolare, risaltavano invece come tanti spigoli acuminati e sgraziati, esasperati dalla tensione che la sua anima riversava sui suoi tratti.

Perfino il suo fisico, imponente e florido, era mortificato, reso impacciato e grottesco dall'incuria con cui stava seduta e con cui si muoveva, quasi stesse manovrando un burattino con cui non aveva nulla a che fare.

Deglutì, sfiorando la superficie fredda dello specchio con la punta delle dita. Aveva un marito che odiava, due figli che erano per lei quasi due estranei e una vita che non capiva. Stringendosi un po' nelle spalle, respirò un paio di volte a fondo, nel tentativo di calmarsi e solo dopo quell'esercizio che ormai era avvezza a fare spesso, riuscì a trovare un minuscolo spiraglio di speranza.

Sperò con tutto il cuore che suo zio Giuliano per qualche motivo non appoggiasse suo suocero Giulio Cesare a Milano. Anzi, sperò che lo ostacolasse, che convincesse il re di Francia a marciare prima di tutto proprio su Camerino, rovesciando il governo dei da Varano, liberandola. Non le importava nemmeno se in una guerra del genere fossero morti i suoi figli. Non le importava neppure se fosse morta lei stessa. Tutto era meglio della gabbia in cui viveva.

“Mia signora...” la voce incerta di una delle sue cameriere personali la ridestò dai suoi pensieri.

La giovane appena entrata in camera, nel vedere gli occhi della sua signora brillare di una luce che sfiorava la follia, si era un po' spaventata, ma ligia al suo dovere, non era retrocessa.

“Che devo fare, adesso?” chiese Maria Giovanna, con un sorriso distimico, che accentuò solo l'inquietudine della domestica.

“Il vostro ricostituente...” fece la ragazza, posando sul tavolo, accanto allo specchio, il beverone che il medico dei da Varano aveva voluto propinarle a tutti i costi per aiutarla a superare meglio quel momento.

La Della Rovere guardò un momento l'intruglio. Lo detestava, ma iniziò comunque a berlo. Era come tutto il resto della sua vita: le faceva schifo, ma doveva sopportarlo.

Vuotò il bicchiere e poi, ridandolo alla cameriera, sussurrò: “Grazie.”

La serva se ne andò subito, quasi avesse davanti il demonio, e la diciassettenne rimase da sola. Si sentiva la bocca impastata dalla medicina appena presa e lo stomaco in fiamme. Benché fosse piano giorno, si spogliò e infilò la veste da notte. Si coricò sul letto, senza nemmeno spostare le coperte e, fissando l'interno del baldacchino, cercò solo di non pensare a niente.

 

“Che ci fai qui?” chiese Caterina, infilandosi le tre lettere che aveva in mano nel tascone dell'abito.

Ottaviano, appoggiato al davanzale della finestra, intento a guardare giù, verso il cortile d'addestramento, raddrizzò la schiena e, guardandola, rispose solo: “Nulla.”

“Perché non sei di sotto coi tuoi fratelli a tirar di spada?” la donna era molto nervosa e trovarsi davanti il suo primogenito non aveva fatto altro che renderla ancor più suscettibile.

Il castellano le aveva appena detto in modo chiaro che la mole di lavoro per lui stava diventando eccessiva e che, come lei stessa aveva fatto notare, sarebbe stato opportuno sostituirlo prima che finisse a combinare involontariamente qualche pasticcio.

Per la Tigre quella faccenda era un macigno. Non voleva privarsi di Cesare e, d'altro canto, si rendeva conto lei stessa delle difficoltà sempre maggiori che l'uomo cominciava a incontrare. Alla rocca stavano arrivando sempre più uomini e il clima bellico che andava instaurandosi era per il Feo una fonte inesauribile di ansia. Era un castellano ottimo in tempo di pace, ma fallace in tempo di guerra.

“Lo sapete – sussurrò Ottaviano, abbassando lo sguardo – non sono abile con le armi.”

“Se non ti eserciti mai, non lo sarai mai.” ribatté rigida la Contessa.

Il ventenne deglutì, ma non disse nulla, né si mosse. La Leonessa aveva fretta di andare nella propria stanza per leggere la corrispondenza, dato che tra le lettere ce n'erano due che le interessavano molto, una da Machiavelli e una dal Cardinale Raffaele Sansoni Riario, tuttavia la tentazione di sfogare un po' della propria rabbia sul figlio era troppo grande per resisterle.

“Credo sia inutile, allenarmi.” vuotò il sacco il Riario, per poi ripiegare: “E poi inizia a piovere e a far freddo... Mi rovinerei i vestiti e...”

“Tale e quale a tuo padre!” sbottò la Sforza, che non aspettava di meglio per alzare la voce: “Un imbroglio, ecco cosa sei! Grande, grosso e inutile!”

Il giovane non ribatté. Anche se in modo molto crudele, quello era l'unica strategia che conosceva per avere la considerazione della madre, seppur per una manciata di minuti appena.

“Sono anche loro figli suoi – proseguì la donna, dopo aver dato un breve sguardo oltre la finestra e aver visto nel cortile Scipione e Paolo – eppure sono tutti e due meglio di te!”

Il Riario non sopportò quell'affronto così diretto, specie perché lui stesso, in quei giorni, aveva fatto mille volte il confronto tra se stesso e quei fratellastri con cui sentiva di non aver nulla a che spartire.

Così, gonfiando un po' il petto, contrattaccò: “Forse è perché io sono anche figlio vostro.”

Sentendo le mani prudere, sapendo che non sarebbe riuscita a trattenersi a lungo, finendo quasi per certo a far del male al suo primogenito, Caterina mantenne il tono della voce abbastanza piatto e ribatté: “A proposito di figli, farai meglio a scrivere alla madre di Cornelia. Sto pensando a mettere in salvo anche lei, dato che tu sembri non averci nemmeno pensato.”

Quell'accenno alla figlia che spesso – per non dire sempre – si dimenticava di avere, fece sudare freddo Ottaviano che provò a balbettare: “Ma io...”

“Se non sei in grado nemmeno di scrivere una lettera, allora lasciami detto dove la posso trovare e la cercherò io.” sbuffò la Contessa, ricominciando a camminare: “E forse è anche meglio che non sia tu a occupartene. Quella povera ragazza non vorrà altro che dimenticare il giorno in cui l'hai avvicinata...”

Lasciandosi alle spalle il Riario, la Leonessa andò in camera. Lesse in fretta la prima delle tre lettere. L'aveva ritenuta la meno interessante perché non conosceva il mittente, tuttavia, man mano che faceva scorrere gli occhi sulle parole vergate in un italiano dal sapore francese, si rendeva conto che le parole di quel Gianotto – così si firmava – erano tutto fuorché di scarso interesse.

L'uomo, un condottiero francese che aveva combattuto per Pisa nella recente guerra contro Firenze, le si proponeva, a titolo gratuito, con quattrocento fanti, in parte tedeschi e in parte guasconi. Si diceva pronto a morire per lei in quella che riteneva la difesa più onorevole che si stesse organizzando in Italia e che, avvilito e deluso da potenze come Firenze o come la stessa Francia, altro non desiderava se non prendere parte a un eroico gesto come quello che la Tigre si apprestava a fare.

Caterina rimase un po' interdetta, leggendo ciò che Gianotto le aveva scritto. Da un lato voleva fidarsi e rispondere immediatamente, per farlo partire subito alla volta di Forlì, ma dall'altro temeva che si trattasse di una qualche sottile trappola tesa dal papa. Così, frenando l'impulso che la voleva portare a scrivere subito una risposta affermativa, mise il messaggio da parte, riproponendosi di parlarne con calma con qualcuno che potesse consigliarla.

Passò alla lettera del cugino Raffaele. La informava che infine Cesare era partito per Pisa e che presto avrebbe scritto lui stesso per assicurare di essere in salute e di aver preso possesso del suo nuovo palazzo senza problemi.

La Leonessa ne era in fondo felice, ma si era attesa qualche notizia più importante, da parte del Cardinale. Sperava che potesse ragguagliarla sul clima in Vaticano, o sulle mosse del papa, invece Sansoni Riario si era limitato a una misera notifica di trasloco.

L'ultima missiva, quella di Machiavelli, era molto succinta e le spiegava come lui aveva, seguendo la richiesta della Sforza, esposto formalmente al re di Francia la sua posizione, sottolineando la sua alleanza con Firenze. Di per sé, quella lettera non diceva nulla che la Tigre non sapesse già, tuttavia il tono con cui Niccolò aveva esposto i fatti le fece capire molto più di quello che le parole da sole dicevano.

Machiavelli, in uno slancio, forse, di umana comprensione, aveva fatto quanto richiesto, ma aveva capito quanto il suo tentativo di ammorbidire re Luigi nei confronti di Imola e Forlì fosse risultato vano.

Abbattuta, seppur non sorpresa, la donna lasciò da parte anche quel messaggio, e, rimettendosi in tasca quello di Gianotto, decise di andare a cercare Giovanni da Casale. Forse non era il più indicato a darle consigli, ma aveva voglia di vederlo.

Da giorni sperava di poter combinare con lui un incontro e, per un motivo o per l'altro, non c'era ancora riuscita. Era stata capace di controllarsi, in quei giorni, restandogli fedele, ma non sapeva quanto sarebbe riuscita a resistere ancora.

Così, uscendo dalla rocca sotto le prime gocce di una fredda pioggia d'ottobre, andò con decisione verso la cittadella, sperando che Pirovano sapesse aiutarla, in un modo o nell'altro.

 
 
   
 
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