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Autore: Fissie    30/07/2009    1 recensioni
Era inverno, ora, come allora; e lo sarebbe stato per sempre.
Era inverno – il nostro inverno. L’inverno della nostra vita. L’inverno della nostra eternità.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James, Victoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Capitolo 3


Quella mattina mi levai all’alba. Intendevo raggiungere il mercato di Hartpury entro mezzogiorno, per fare provviste – le mie scorte si erano esaurite rapidamente da quando fungevano da sostentamento per due persone.
Ovviamente, non avevo soldi. Non ne maneggiavo da quando avevo sciolto la vantaggiosa – ma non per me - collaborazione con Monsell The Magpie e la sua cricca di ladri; da quando, cioè, avevo deciso che l’onorato contributo reso alla società meritasse una liquidazione cospicua e arbitrariamente me l’ero presa. Chi di spada ferisce di spada perisce, si suole dire. Quanto avevo goduto dopo, immaginando quella faccia scimmiesca di fronte alla scoperta che gli avevo alleggerito le tasche! Lasciai quel covo di malaffare nel quale avevo vissuto tre anni della mia vita con in mano dei soldi e un mestiere; i primi inesorabilmente finirono presto, il secondo mi insegnò a fare a meno dei primi.
Il sole declinava verso ovest, quando feci ritorno a Upleadon, nella chiesa diroccata che consideravo la mia casa da un paio di settimane. La neve, tinta di rosso dal tramonto, fortunatamente quel giorno non era spessa come i precedenti, e vi affondavo i piedi non oltre le caviglie. La giornata era stata straordinariamente calda, perlomeno in relazione al clima che imperversava di solito nei mesi invernali, rendendo quasi superflua la mantella pesante che indossavo.
Attraversavo la campagna abbandonata nella periferia del paese procedendo all’indietro, poiché mi curavo di spazzare le mie impronte con un ramo strappato ad un albero. Quando mi inoltrai nella campagna abbastanza da ritenere che nessuno avrebbe fatto altrettanto, lasciai perdere le mie tracce e puntai decisa verso la sagoma scura e cadente del mio rifugio.
Avvenne però qualcosa che non avevo previsto.
O, meglio, trovai qualcosa che esulava da tutte le mie aspettative - quelle consce, perlomeno. Trovai lui.
Quando me ne accorsi era già tardi. Lui era lì, in piedi di fronte alle macerie del transetto crollato. Ci separavano parecchi metri, ma ne scorgevo distintamente la figura.
Attorno a noi c’era solo la sconfinata distesa di neve, nulla dietro cui potessi ripararmi – oh, avrei potuto fuggire; l’istinto, mescolato all’insana paura che da sempre si nutriva di me, mi dettava di farlo. Ma qualcos’altro mi piovve addosso, come infiniti, piccoli chiodi che mi ancorarono al suolo: tutte le parole scambiate nel buio conforto dell’invisibilità.
Mi sentii persa.
Una vocina, seppellita sotto lo stato confusionale della mia mente, continuava ad urlare “scappa!”, ma sapevo che non era l’urgenza del pericolo a dettare quell’ordine; era timore che l’incanto di quei giorni trascorsi ai margini dell’assurdo potesse sgretolarsi se il nostro fragile mondo si fosse schiantato contro la nuda realtà.
Era timore di scoprire che mi sarebbero mancati, timore di riconoscere ciò che non volevo provare, benché una parte di me lo sapesse già e non volesse ammetterlo.
Non erano passati che pochi giorni. Non potevo aver bisogno di lui – di lui, qualcuno al di fuori di me! -, non potevo; o potevo?
Rimasi lì, maledicendo il giorno in cui era entrato nella mia vita, eppure implorando che non se ne andasse.
D’altro canto, qualsiasi cosa avessi scelto di fare allora, non sarebbe servita a salvarmi la vita. L’ultimo rintocco del troppo tardi era ormai scoccato da un pezzo.


Quella mattina, svegliandosi, James aveva scoperto di essere solo.
Non c’era nessuno nella chiesa; nessuno che rispondesse al suo buongiorno, nessuno che gli lanciasse molliche di pane, nessuno nascosto dietro il telo dell’impalcatura.
Nessuno.
Inaspettato, il panico lo aveva travolto. Fuori di sé, in preda a una delusione cocente alla quale non sapeva dar nome, l’aveva chiamata più volte. Poi, ignorando tutte le regole dei patti – avevano ancora importanza, d’altronde? – si era precipitato sulle scale dell’impalcatura, arrampicandosi nel nascondiglio dietro cui era stata nascosta fino ad allora.
E lo aveva scoperto vuoto.
Se n’era andata.
Come spiegare quella sensazione di perdita?
No, forse, era proprio l’inverso. Aveva vissuto quei giorni in uno stato simile a quello di chi ha perso i sensi; fuori da se stesso, dalla sua vita, dal suo consueto modo di essere. Con la sua dipartita aveva semplicemente ritrovato tutto questo. Era rinvenuto. La realtà gli era allora piombata addosso di schianto, frantumandosi sulle sue spalle e lasciandolo barcollante, per via dell’urto violento.
Ecco tutto.
Eppure, perché, invece di pensare all’uomo che intendeva ucciderlo, aveva solo lei nella mente? Era rimasto in uno stato catatonico tutta la giornata, prima di raccogliere nuovamente se stesso e riordinare i pezzi: ciò che doveva fare, dove sarebbe andato, come sarebbe sopravvissuto – ma il pensiero martellante di lei continuava ad insinuarsi ad ogni virgola dei suoi ragionamenti sensati, come un’intermittente e stonata nota di irrazionalità.
Con una diffusa sensazione di costernazione nel cuore, si era lasciato alle spalle le macerie della chiesa, mescolate a quelle invisibili dei suoi ultimi giorni.
Non aveva fatto che pochi passi, però, quando intravide una figura stagliarsi nell’immensa distesa di neve. Sentì qualcosa – qualcosa di piacevolmente caldo – scivolargli nel petto, laddove la partenza della ragazza, quella mattina, gli aveva scavato un vuoto, riempiendolo come se fosse stato modellato appositamente perché lo colmasse.
Senza sapere come, sapeva che era lei.
Fu come riconoscerla, benché la vedesse allora per la prima volta. Come se quei lineamenti coincidessero con un disegno remoto scolpito in qualche anfratto recondito della sua mente – dell’anima, del cuore, o chissà dove – e vederli lo avesse naturalmente rievocato. Era gracile e minuta, tanto sottile da confondersi con le striature affilate delle rocce che, qua e là, emergevano dalla bassa coltre di neve. Il colore della sua pelle era così esangue e pallido che si distingueva appena dal paesaggio, formando quasi un’unica tinta; ma dalla sommità del suo capo piovevano boccoli di un rosso fiammante intenso che richiamava il tramonto ardente alle sue spalle.
Era un sole infuocato che affondava su un orizzonte d’inverno. Una fiamma di neve.
Aveva qualcosa di passionale e innocente al contempo, benché, allora, gli sembrasse totalmente candida.
Entrambi non si mossero per lunghi istanti, che sembrarono congelarsi in tanti cristalli, come sotto l’azione del freddo. L’aria era statica, inerte, un calco sulle loro figure altrettanto immobili.
Poi lui avanzò. Un passo, due passi. Lentamente. La distanza tra loro sembrava incolmabile. Tre passi. Quattro passi. Cinque passi. Forse trascorsero solo secondi, ma sembrarono ore. Finalmente, James fu a pochi metri da Victoria.
La vide retrocedere con la circospezione di un gatto impaurito, ma non si arrestò. I loro passi affondavano sulla neve con tonfi ovattati, unico riempimento del silenzio, insieme allo sporadico e torvo gracchiare di un uccello in lontananza.
Adesso poteva guardarla in volto. I suoi lineamenti erano morbidi e affilati allo stesso tempo. La linea ovale del suo viso era dolce e priva di spigoli, eppure decisa; la pelle era tesa sulle guance, sotto gli zigomi alti accentuati dalla magrezza, in una linea netta priva di sbavature. Gli occhi erano grandi, né sporgenti né infossati, incorniciati da lunghe ciglia biondo cenere, e il naso piccolo. Su quel viso scarno spiccavano invece le labbra carnose, dal disegno perfetto e sinuoso.
«Victoria…», sussurrò. Al Vi tutti gli istanti cristallizzati nell’aria scivolarono in caduta libera; al suono violento del cto andarono in pezzi, con un rumore secco e tonante simile a quello di un’esplosione; e al timbro acuminato dell’ultima sillaba, ria, graffiarono la loro pelle, ferendoli come frammenti di vetro rotto.
Victoria indietreggiò di scatto, ma James coprì rapidamente la distanza e le afferrò con impeto gli avambracci scarni, stringendo le dita intorno all’intera circonferenza delle ossa sottili.
«Victoria…», ripeté, con voce rauca.
Lo guardava con occhi sgranati, e lui poteva percepire la tensione nervosa irradiarsi dai muscoli contratti del corpo tanto vicino al suo. Si perse nelle sue iridi metalliche, del colore argentino del cielo d’inverno. Lentamente, chinò il capo verso quel viso, molto più in basso del suo. Nuvole di fiato condensato uscivano dalle loro bocche dischiuse, e si fondevano in un solo respiro.
«Victoria, Victoria, Victoria…», sospirò. All’ultima sillaba, premette le labbra su quelle carnose ed esangui di lei. Le sue braccia l’avvolsero, catturandola in una stretta d’acciaio, che incontrò solo una flebile resistenza iniziale, prima che anche lei si abbandonasse all’abbraccio. Rimasero così qualche istante; due corpi immobili stretti l’uno nell’altro, e dispersi in mezzo a una distesa di neve.
Gradualmente, la morsa delle sue braccia si allentò, finché furono soltanto debolmente appoggiate. La fronte di lei era adesso adagiata contro il suo petto, come qualche giorno addietro, ma senza l’effimera protezione della tenda, e i capelli gli sfioravano il mento. Le sue mani percorsero la schiena stretta per tornare alle braccia. Scivolarono fino alle mani, abbandonate sui fianchi, poi risalirono al viso, cingendolo a coppa. Victoria sollevò nuovamente lo sguardo, posandolo sul suo. Cielo e terra che s’incontravano e fondevano insieme, come sulla linea fragile e sottile dell’orizzonte.
Si baciarono ancora, più intensamente.
Victoria allacciò le braccia attorno al suo collo, issandosi sulle punte per venirgli incontro. James strinse un braccio attorno alla sua vita, mentre l’altra mano affondava nella sua chioma fiammante.
Era così esile che si perdeva tra le sue braccia. Ma era così bello stringerla; trattenerla, illudersi che non sarebbe scappata. Giocare con quelle lingue di fuoco attorcigliate tra le sue dita, accarezzare la schiena sottile, vederla, toccarla, sentirla sua, almeno per un labile momento. Stringeva spasmodicamente la presa, ma non era il corpo, ciò che voleva catturare, bensì quel qualcosa d’impreciso e vago che lo aveva colpito dal primo istante, quel qualcosa che continuava a sfuggirgli perché sfuggente per sua natura; quel qualcosa perfettamente speculare a lui, eppure tanto complementare da essere la metà appositamente disegnata per legarsi alla sua. Predatore e preda, lui imbattibile, lei inafferrabile: le due controparti di una lotta senza vincitori né vinti, eppure destinate ineluttabilmente ad appartenersi.

Scivolarono sulla neve ancora stringendosi, le mani che aderivano le une al corpo dell’altro.
I capelli di lei erano una chiazza vermiglia sul manto di neve, che sfumava verso tonalità più chiare laddove gli ultimi bagliori del tramonto tingevano il bianco.
Fece scorrere le dita sulle scanalature delle costole lievemente sporgenti, sotto la pelle tesa.
I loro corpi tremavano febbrilmente, cercandosi, le labbra livide sospiravano il nome dell’altro.
L’ultimo raggio di luce rossastra sparì dietro l’orizzonte, il sole tramontò sulla campagna innevata e la notte si adagiò, infine, su di loro, come un manto di buio.


«Caldo e freddo sono l’uno il perfetto negativo dell’altro, sai Vic?»

Silenzio.

«Si estinguono a vicenda.»

Pausa.

«Tu sei come una fiamma di neve, il campo di battaglia di due forze antagoniste. Una fiamma calda e fredda al contempo che arde e si consuma in sé stessa. Ma all’esterno non c’è contrasto, perché caldo e freddo hanno lo stesso effetto. Bruciano entrambi…»

Silenzio.

«…e ustionano chi si avvicina troppo.»


***


Una domenica mattina tu mi dicesti “sposami”. Io ti diedi del pazzo, ma tu continuasti ad insistere. Volli assecondarti, pensando che stessi scherzando, e ti chiesi “dove?”. Tu apristi le braccia e ti guardasti attorno, indicandomi la risposta che ci circondava. “Siamo o non siamo in una chiesa?”, e scrollasti le spalle fingendoti esasperato. Io risi; di te, di me, di noi, del nostro amore assurdo. Obiettai che non avevamo un prete, ma tu avevi pensato anche a quello. Sopra lo schienale di una panca, si trastullava, dedito ad un’accurata pulizia, quel gatto che era stato testimone del nostro primo incontro.
Avevo solo un anello di una lega metallica di scarso valore, e tu solo un ciondolo che portavi al collo, appeso ad una catenina sottile. Furono le nostre fedi estemporanee.

«Ti capita mai di voler restare?»

«Sì.»

Ci sposammo il 12 Gennaio 1907.
E quella fu anche l’ultima volta che ti vidi umano.


   
 
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