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Autore: heliodor    31/10/2019    1 recensioni
Joyce è nata senza poteri in un mondo dove la stregoneria regna sovrana. Figlia di potenti stregoni, è cresciuta al riparo dai pericoli del mondo esterno, sognando l'avventura della sua vita tra principi valorosi e duelli magici.
Quando scoppia la guerra contro l'arcistregone Malag, Joyce prende una decisione: imparerà la magia proibita per seguire il suo destino, anche se questo potrebbe costarle la vita...
Tra guerre, tradimenti, amori cortesi e duelli magici Joyce forgerà il suo destino e quello di un intero mondo.
Fate un bel respiro, rilassatevi e gettatevi a capofitto nell'avventura più fitta. Joyce vi terrà compagnia a lungo su queste pagine.
Buona lettura!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Cibo per gli Dei

“Gromm-nu” disse Belben indicando una grotta qualche passo più in alto. L’ingresso era spoglio, privo delle corone di fiori decorative. Sorgeva lontana dalle altre grotte, nascosta alla vista dal basso da alcuni massi posizionati davanti all’entrata.
Belben si arrampicò fino alla grotta e Joyce lo seguì faticando non poco. Quando lo raggiunse, lui indicò la grotta.
“Ur-az.”
“È lì dentro?” chiese Joyce.
“Ur-az.”
È l’unica parola che non inizi per gromm, si disse Joyce. Deve essere importante per loro. O terribile.
Fece per entrare. “Tu non vieni?”
Belben rimase in silenzio.
Joyce indicò prima lui e poi l’ingresso.
“Gromm-de” rispose scuotendo la testa.
“Dimmi almeno se è pericoloso lì dentro.”
“Gromm-de.”
Sospirò. “Arran Lacey avrebbe dovuto creare un incantesimo per comprendere la vostra lingua.”
Raccolse il coraggio e varcò la soglia. L’interno era buio come qualsiasi altro cunicolo. Era solo una sua impressione ma la luce fioca proveniente dall’esterno faticava a farsi strada lì dentro e dopo un po’ si ritrovò immersa nel buio.
Evocò la vista speciale, ma la situazione non migliorò. Non c’era niente di vivo o di caldo in quella grotta. Se mai vi era vissuto qualcosa, era morto da tempo.
Forse c’è ancora lo spirito di Urazma, si disse.
Quel pensiero le provocò un brivido lungo la schiena.
Roge e Galef le raccontavano storie di spettri e creature del buio quando lei e Bryce erano piccole. Esseri pericolosi e freddi che si nascondevano tra le ombre pronti a tendere agguati agli incauti che entravano nelle loro cripte, risvegliandoli da un sonno millenario.
Sono solo storie, si disse per farsi coraggio. Questa non è una tomba, ma l’ultimo santuario di una maga morta da millenni. È impossibile che il suo spirito sia ancora qui.
Eppure il dubbio la stava assalendo.
Per il Culto, dopo la morte l’essenza di una persona, la sua anima, si addormentava in un sonno dalla durata indefinita. Si sarebbe destata solo alla fine dei tempi, quando l’Unico le avrebbe richiamate a sé.
L’anima di Urazma doveva essersi addormentata come le altre.
O l’Unico aveva deciso che i maghi avrebbero avuto un destino diverso? Si chiese. Forse per loro non ci sarebbe stato un sonno eterno, ma un eterno vagare per le loro tombe. Forse è per questo che i gromm temono tanto quel posto.
Che sciocca, si disse. Non è la prima volta che entri nel santuario di un mago. Tutta la grotta, compreso quello che c’è lì fuori, faceva parte del suo santuario e di Urazma non abbiamo trovato traccia.
Camminare in quel buio la rendeva inquieta. Evocò una lumosfera per fare luce. Le pareti si illuminarono come se fosse giorno e vide i segni sulle mura.
Non le aveva viste prima a causa dell’oscurità in cui era immersa ma ora poteva osservarle da vicino. Tornò indietro fino al punto in cui le incisioni iniziavano. Come nella camera che avevano visitato poco dopo essere entrati nel santuario, anche lì era ritratta una giovane donna in abiti sfarzosi che osservava da lontano una valle dall’aspetto desolato.
“Urazma” sussurrò Joyce.
La maga era ritratta con le braccia aperte, come se stesse lanciando un incantesimo o una benedizione su quelle terre.
Non sono terre, si disse Joyce. È la valle dove vivono i Gromm.
Riconobbe le grotte che correvano lungo le pareti e la collina a gradoni che sorgeva nel mezzo. Non c’erano gli alberi né le decorazioni davanti agli ingressi.
Quelli dovevano essere stati aggiunti dopo.
Nell’incisione successiva, due creature sembravano inchinate davanti a Urazma, che sembrava benedirle con lo stesso gesto di prima.
Le creature avevano zanne e corna dietro le orecchie, ma erano minuscole rispetto alla maga.
Sono i Gromm, pensò Joyce. Urazma deve averli portati qui. O forse vivevano già nella conca e lei li ha solo trovati.
Nella scena successiva i Gromm diventavano una decina e si affollavano attorno a Urazma, che sembrava indicare qualcosa.
Più avanti i Gromm erano una folla che si accalcava attorno alla maga che li osservava con benevolenza.
In quella dopo, di quella folla non vi era più traccia. Al centro della scena c’era Urazma e attorno a lei i Gromm distesi sul terreno.
Aveva già visto una scena simile. Non stavano dormendo né pregando. Erano morti.
Poco dopo Urazma sembrava benedire due Gromm. Sembravano più grossi e massicci di quelli visti nella prima scena.
Di nuovo i Gromm si moltiplicavano, venivano ritratti nell’atto di adorare Urazma e in una scena successiva sparivano, sostituiti da una o due coppie.
La sequenza era sempre la stessa e si ripeteva decine di volte. A mano a mano i Gromm ritratti nella pietra cominciavano ad assomigliare a quelli che aveva visto nella conca.
In una delle ultime raffigurazioni Urazma giungeva nella valle accompagnata da decine di creature rotonde sostenute da sottili gambe.
“I ragni” mormorò Joyce.
In quella dopo i Gromm erano di nuovo nella polvere, stavolta offerti come cibo ai ragni sotto lo sguardo impassibile di Urazma.
La mattanza proseguiva per altre scene.
Urazma guidava i ragni nelle razzie ai danni dei Gromm.
Erano la loro riserva di cibo, pensò Joyce.
Le scene si facevano più precise e dettagliate mentre proseguiva verso il fondo della galleria. In una i Gromm costruivano la piattaforma sulla collina a gradoni, per essere fatti a pezzi in quella successiva.
I ragni imperversavano in ogni scena. In una li si vedeva chiudere le loro mandibole sul corpo di un Gromm disteso per terra. In un’altra trascinavano via dei corpi con delle corde dopo averli chiusi in qualcosa che sembrava un uovo.
I bozzoli, si disse. Quelli in cui volevano intrappolare anche me e Belben.
Quel pensiero la fece rabbrividire.
Joyce sentì la rabbia montarle dentro osservando quelle scene e si chiese chi le avesse incise.
Devono essere stati i Gromm, pensò. Millenni fa, quando Urazma era la loro Dea e loro erano cibo per nutrire il suo esercito di ragni divoratori.
Il pensiero di quei ragni che brulicavano nel santuario la fece fremere.
Le scene terminavano poco prima del fondo, dove l’apertura si allargava dando accesso a un’ampia sala. Joyce proseguì aumentando il passo. Ne aveva abbastanza di quel posto, ma doveva sapere.
La sala era simile a una bolla scavata nella roccia. Era così ampia che non ne vedeva i confini. Al centro torreggiava una montagna dai contorni frastagliati.
Spinta dalla curiosità si avvicinò per guardare meglio. La luce danzò su volti scarnificati e teschi dalle orbite vuote.
Le ossa più in alto erano gigantesche, quelle sul fondo erano una versione più piccola delle prime. C’erano scheletri completi con enormi gabbie toraciche, ossa lunghe quanto un adulto e teschi, innumerevoli teschi, tutti mischiati insieme in una macabra composizione.
È un cimitero, si disse Joyce.
I Gromm dovevano aver sepolto lì sotto quelli che erano morti in quegli anni di massacri. Dovevano essercene a centinaia, se non a migliaia, sepolti – no, ammucchiati – in quella sala.
La montagna era così alta da innalzarsi fino al soffitto. Per un attimo fu tentata di levitare fino alla cima per rendersi conto di quanto fosse alta, ma non aveva bisogno di vedere altro.
Trasse un profondo sospiro e si incamminò nella direzione opposta. Quando raggiunse l’entrata, trovò Belben seduto in attesa.
“Gromm-gu” disse con tono mesto.
“Sì” disse Joyce. “Gromm-gu. È davvero terribile. È la vostra storia, quella.”
“Ur-az” disse il gromm.
“Urazma il flagello” disse Joyce ricordando il titolo usato da uno degli eruditi. “Per fortuna Harak l’ha uccisa migliaia di anni fa.”
Era stato allora che le sofferenze dei gromm erano terminate.
O no?
I ragni erano ancora una minaccia, tanto che per difendersi avevano costruito le enormi porte che sbarravano l’accesso alla valle.
“Devo andare via” disse a Belben mentre scendevano verso la valle. “E ritrovare i miei amici.”
“Gromm-en.”
“Lo so che è pericoloso uscire, ma io devo trovarli.”
“Gromm-as.”
“Qui è un bel posto, non lo nego, ma io devo proprio andare. Non posso restare qui, capisci? Troll-na.”
“Troll-na” ripeté Belben annuendo. “Gromm-na.”
Joyce si accigliò. “Che vuoi dire?”
“Gromm-na.”
“C’è un’uscita?”
“Gromm-na.”
“Senza porte a sbarrarla?”
Belben batté il pugno per terra.
Vuol dire sì? Si domandò.
“Portami a questa uscita. Per favore.”
“Gromm-ak” rispose Belben indicando una delle grotte. “Gromm-ak.”
Joyce lo seguì fino a un terrazzamento dove erano allineate diverse entrate. Quasi tutte erano decorate con fiori dai colori vivaci.
Davanti a una di queste due gromm di piccola taglia sembravano azzuffarsi come ragazzini. Avvicinandosi li udì ringhiare e grugnire mentre cercavano di afferrarsi per le corna.
I due combattenti non affondavano i colpi e anche quando si afferravano con le mani si dividevano subito. Poi uno dei due, dal pelo chiaro e macchiato di nero, afferrò le corna dell’altro costringendolo sulla schiena.
Quando lo lasciò, fece un paio di passi indietro e grugnì battendo i piedi per terra. L’altro si rialzò e alzò le braccia al cielo ringhiando e sbuffando.
“Gromm-or” ringhiò Belben.
I due piccoli gromm sobbalzarono e si ritrassero verso l’entrata.
Belben li squadrò con sguardo inferocito, costringendoli a indietreggiare ancora di più.
Gli occhi dei due piccoli gromm si posarono su di lei facendola sentire osservata.
Joyce abbozzò un sorriso rivolto ai due.
Uno dei piccoli gromm, quello dal pelo chiaro, lanciò un ringhio di sfida e mostrò i denti.
Belben scosse la testa e batté il palmo della mano per terra come a volerle dire che non stava bene comportarsi in quel modo.
Una volta uno dei cani da guardia del castello aveva cercato di azzannare Roge. Lui si era giustificato dicendo che non aveva stuzzicato l’animale. Voleva solo portargli da mangiare e quando gli aveva sorriso, il cane gli era balzato addosso.
“È successo perché gli hai mostrato i denti” gli aveva spiegato suo padre. “Lo hai provocato, quindi la colpa è tua.”
Aveva parlato davanti agi altri figli, specie Bryce e Joyce, che erano più piccole e non avevano idea di quanto potesse essere pericoloso un cane.
Da quel momento si era ben guardata dal sorridere a un animale.
I gromm si comportano allo stesso modo? Si chiese. Non sembrano animali, sono intelligenti. Forse Urazma cercava di mitigare la loro aggressività quando li sterminava?
Belben la portò a una grotta dall’ingresso decorato da fiori viola e gialli. L’intreccio formava un disegno che non sembrava avere altro scopo che quello di abbellire il posto, altrimenti grigio e spoglio.
All’interno erano ammucchiati degli oggetti simili a grosse panche dove potersi sedere. C’erano anche dei barili alti quasi quanto un gromm dalla cui cima spuntava qualcosa.
Belen cercò tra questi mentre Joyce attendeva vicino all’uscita.
I due piccoli gromm si erano avvicinati e la scrutavano incuriositi. Non dovevano mai aver visto un essere simile a lei nella loro vita.
A parte questo, si tenevano ben lontani.
Belben tornò con un rotolo di stoffa e lo dispiegò su una delle panche.
Joyce si avvicinò e dopo essersi arrampicata sul tavolo gettò un’occhiata al rotolo. Sopra vi erano incisi dei segni. Erano stati ottenuti bruciando il tessuto, simile a cuoio, con un oggetto arroventato. Si vedevano ancora le bruciature e i solchi lasciati dal creatore.
Non è un disegno, si disse.
Belben indicò un punto al centro, dove era raffigurata una piramide a più piani. Sopra di esse vi era una figura stilizzata.
“La collina” disse Joyce.
“Gromm-sa” disse Belben. La sua mano si mosse seguendo il confine della conca. Qui erano tracciati altri segni, linee irregolari che procedevano parallele verso l’esterno. Ognuna di esse terminava con un cerchio barrato da una X.
Belben ne indicò uno battendovi sopra l’indice. “Gromm-uk. Gromm-uk.”
“È da dove siamo entrati” disse Joyce indicando lo stesso punto. “Sono cunicoli, questi.” Il cerchio barrato alla fine doveva indicare l’enorme porta di metallo che sigillava il condotto.
“Gromm.”
Belben sposò la mano verso un altro condotto. Non c’era un cerchio barrato alla fine di questo.
“Niente cerchio, niente porta” disse Joyce. “È un’uscita?”
“Gromm.”
Un ruggito proveniente dall’esterno la fece trasalire.

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