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Autore: Yoko Hogawa    02/08/2009    6 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Penso che non finirò mai di ringraziare Bunny per avermi portato al concerto dei Birthday Massacre

Penso che non finirò mai di ringraziare Bunny per avermi portato al concerto dei Birthday Massacre. Mi sono innamorata di una loro canzone (e del relativo video, seppure inquietante) che mi ha accompagnato per tutta l’ultima parte del capitolo.

Per chi se la vuole ascoltare e non la conosce, è Looking Glass. Il titolo del capitolo è preso dal testo.

Note: Daniel Wayne, che viene citato, non mi appartiene. E’ stato creato e viene schiavizzato da Shichan, che me ne presta i servigi quando ne necessito XD perciò: grazie Shichan.

 

 

Monday

 

Eric

It’s a glass cage, so I can’t pretend...

 

 

 

Sembrava monotono e altresì comune, ma avrebbe potuto giurare che il lunedì fosse il giorno che odiava di più.

Motivazioni? Diverse.

Per definizione è il primo giorno della settimana. Il tedio di alzarsi presto la mattina cominciava a percepirsi sin dalla sera prima e sentire l’insistente “bip bip” come primo suono appena svegli era decisamente debilitante.

Inoltre, la sua famiglia. Anche se quello era un problema di tutti i giorni, non solo del lunedì.

Suo padre era un uomo all’antica, già. Per lui i pasti - colazione compresa, dunque - erano i momenti di maggiore importanza della giornata, e oltre a costringerli tutti ad ingoiare vitamine e proteine pretendeva che tutta la famiglia fosse presente e riunita.

Questo progetto prevedeva l’alzarsi mezz’ora prima del necessario: minuti di sonno che nessuno gli avrebbe ridato mai.

Anche quel giorno nulla variò. La sveglia suonò alle sei come sempre, dovette litigarsi il bagno con il fratello come sempre, finì per arrivare ultimo come sempre. E, come sempre…

« Sei in ritardo ».

La voce severa del padre giunse come il brontolio di un drago a digiuno dalla cucina, dove lui e Alex avevano appena interrotto una conversazione sicuramente incentrata sul basket.

E nessuno andrebbe ad accarezzare un drago a digiuno, ammettiamolo.

« Buongiorno anche a te, papà » salutò lui, con palese ironia, sistemandosi meglio la maglia nera e gettando zaino e borsone contro il muro prima di entrare in cucina. Spettinò i capelli del fratellino, diede un piccolo bacio sulla guancia alla madre e si andò a posizionare alla destra del padre, facendo stridere la sedia nello spostarla.

L’uomo gli scoccò un’occhiataccia che lui ignorò.

« Allora ragazzi, cosa farete oggi? » cominciò la madre, posando davanti ai due un piatto con uova strapazzate e pancetta. Ignorando lo stomaco che si contorceva con disappunto, si versò un bicchiere di succo d’arancia.

« Scuola » rispose Alex allegramente: « poi allenamento. Io e papà vogliamo provare con Rick la nuova finta che abbiamo sperimentato ieri pomeriggio, dovremo riuscire a vincere contro i Pidgeons se riusciamo a coordinarci bene e a metterla in pratica al tempo giusto » terminò quasi raggiante, infilzando con la forchetta un po’ di uovo.

Il suo stomaco si rivoltò come un calzino, ma per l’ennesima volta non vi badò; preferì armarsi di coltello e cominciare a sbocconcellare la sua fetta di pancetta.

« Bene, divertiti » rispose cortese la madre, sedendosi alla sinistra del padre, seduto a capotavola. « E tu Eric? » chiese poi, osservandolo con lo stesso sorriso che aveva appena riservato al figlio più piccolo.

Eric si bloccò con la forchetta a mezz’aria, guardandola appena. « Oggi ho lezione, poi vado a pranzo con McFarland. Nel pomeriggio sto in biblioteca, devo preparare un elaborato; dopo ho allenamento » terminò, riassumendo.

Ovviamente non poteva essere abbastanza, per quella mattina. Se Eric non metteva piede fuori di casa con l’umore tendente al nero, suo padre non si considerarava realizzato.

« Quanto hai intenzione di stare in piscina? » chiese, con l’evidente tono di chi disprezza dalla prima all’ultima lettera della frase che ha appena pronunciato.

« Al solito » ribatté lui, cercando di mantenere lo status quo solo per non infognarsi nell’ennesima discussione senza senso con colui che si professava suo genitore: « finisco alle otto e mezza. Come tutta la scorsa settimana e da un anno a questa parte » commentò, ingoiando a fatica un po’ d’uovo che subito annaffiò con del succo di frutta.

Trent aggrottò le sopracciglia. « Non mi piace il tuo tono, ragazzo ».

“Ragazzo”. Come se lui non fosse suo padre, ma suo nonno o suo zio. Qualcuno di più distante, nell’albero genealogico della famiglia Everald; qualcuno tagliato fuori solo perché non rincorreva una palla arancione per farla passare in una rete sospesa a mezz’aria.

Non rispose alla provocazione. Non ne valeva la pena di avvelenarsi il sangue.

Guardò in basso, invece, dove le uova lo stavano implorando di mangiarle ma il suo stomaco aveva deciso di non collaborare. Si arrese ben presto all’evidenza che non avrebbe toccato oltre la sua colazione.

« Scusatemi » sussurrò con faticosa cortesia, alzandosi velocemente. Per evitare che suo padre, finito il boccone, cominciasse la sua paternale di “quando ci si alza dal tavolo” e “si esce di casa tutti insieme”.

Gli faceva venire da vomitare, il fatto che suo padre lo considerasse a parole membro della famiglia e lo escludesse dal concetto con i gesti e con l’atteggiamento che gli dimostrava.

Uscì dalla porta con un frettoloso saluto, udendo la voce dell’uomo solo quando ormai era a cavallo della mountain bike.

 

La scuola non gli era mai piaciuta.

Era sempre stato un tipo molto movimentato, amante della vita all’aria aperta, e passare tutti i giorni sei ore seduto ad un banco non era esattamente la sua idea di “libertà”.

Tuttavia all’epoca giocava a basket, di conseguenza andava d’accordo con il padre. Fu quando decise di andare per una vita tutta sua che i ruoli si invertirono: casa era una specie di carcere di massima sicurezza mentre il college era divenuto la sua nuova boccata d’aria fresca.

Forse era per quello che passava fuori casa la maggior parte del tempo. E, al contempo, forse era per quello che il lunedì mattina a scuola non assumeva contorni così tanto traumatici.

« Ev! » sentì esclamare, appena prima che McFarland gli piombasse addosso travolgendolo con la sua incredibile allegria sin dal primo mattino: « come hai passato queste ventiquattro ore lunghissime che ci hanno separato nel week end? » scherzò ad alta voce, attirando le occhiate di parecchia gente nei paraggi.

« Le più belle della mia vita » rispose a tono Eric con un sorrisetto, scrollandoselo di dosso.

« Crudele » ribatté l’altro: « bisognerebbe avvertire tutte quelle poverette che ti fanno il filo, potrebbero rimanere veramente ferite da questo tuo comportamento anti-sociale » esplicò con improvvisa eloquenza, camminando al suo fianco in direzione del dipartimento di Letteratura.

Il castano ridacchiò, guardandosi intorno senza rispondergli. Non erano pochi gli studenti che non avevano lezione presto al lunedì mattina, e non era strano vederli chiacchierare seduti in cerchio sull’erba del campus. Soprattutto se era una giornata niente male e il tempo prometteva bene.

Non fu difficile individuare chi, in realtà, si era ritrovato a cercare con lo sguardo. Occhi come quelli, una volta registrati bene in mente, saltano all’attenzione fin troppo velocemente: più o meno come gli oggetti di segrete ossessioni.

E non poteva non ammettere a se stesso che la sua fissazione non lo stesse diventando.

Archer stava seduto su una panchina del parco, tranquillo, nessuno intorno. Leggeva, da quello che sembrava a lui, un libretto piccolo e dalla copertina piuttosto consunta dal titolo in lettere d’oro che non riusciva a leggere. Indossava un paio di pantaloni neri e una semplice maglietta bianca, ma anche nella più assurda semplicità di vestiario quell’abbigliamento gli si incollava addosso come una seconda pelle, cadendogli perfettamente, quasi fosse stato disegnato appositamente per lui e poi messo in commercio.

Si rese conto di essersi fermato a guardarlo solo quando la voce perennemente su di giri di Jonathan lo riscosse dal suo improvviso torpore.

« Ev, chi cavolo stai guardando? » chiese, incuriosito più che stizzito, appoggiandosi sulle sue spalle e cercando a sua volta l’oggetto dello sguardo di Eric.

Per fortuna aveva una capacità spiccata di non dare a vedere l’imbarazzo e di avere quasi sempre la risposta pronta:

« Archer » rispose con una perfettamente recitata calma: « lo conosci? ».

« E chi non lo conosce? » ribatté quello, assottigliando lo sguardo come se stesse guardando un nemico... o un rivale, più che altro. « Joshua Archer, Fisica, classe del professor Wayne » continuò: « è qui da quanto? Due giorni? Forse tre. E sembra già che la metà delle ragazze di questa stramaledetta università si siano innamorate pazzamente di lui. Non so quante dichiarazioni o quanti atti di deliberata seduzione abbia già subito, ma da quello che ho capito non si è messo con nessuna e non ha la ragazza. E’ il fottuto playboy di origine ignota » biascicò a denti stretti, togliendosi da sopra le sue spalle per riprendere a camminare in direzione della facoltà. Anche Eric gli andò dietro, costringendosi a scostare lo sguardo da Joshua.

Prese fiato per parlare, ma decise di non farlo. Con l’incazzatura che si era fatto venire Jonathan, se gli diceva cose come “io l’ho conosciuto e non mi sembra male” poteva tranquillamente ritrovarsi in uno dei fossi dietro la scuola con un pugnale piantato nello stomaco; McFarland era in grado di farlo, oh sì.

Optò dunque per un approccio più idiota: « cioè, fammi capire: una persona ti chiede informazioni su uno nuovo e la prima cosa che gli dici è la sua vita sentimentale e il suo grado di popolarità nella sfera femminile? » ironizzò, ridacchiando in sua direzione con una finta aria scioccata.

L’altro lo fulminò, salvo poi togliere da lui lo sguardo con un leggero rossore sulle guance: « e cos’altro ti devo dire? Ho sentito solo questo in giro » si giustificò.

« Hai sentito solo questo perché ti interessava solo questo, e di conseguenza hai ascoltato solo questo » lo corresse Eric, colpendo direttamente il nervo scoperto: « possibile che tutta la tua esistenza giri intorno al sesso e alle ragazze, McFarland? » domandò falsamente lamentoso, anche se la risposta già la conosceva.

« Ovvio, su cos’altro dovrebbe girare, scusa? » rispose l’altro, sgranando gli occhi come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Eh già, su cos’altro?

 

« Noterete che l’inglese usato è diverso da quello contemporaneo » stava spiegando il giovane professore, indicando sulla lavagna alcuni pronomi personali scritti in bella grafia: « “thou”, per esempio, è una forma arcaica di “you”. Lo utilizzava Shakespeare e, se non avete sbagliato aula andando a biologia, saprete sicuramente che il caro William visse nella seconda metà del sedicesimo secolo ».

Una lieve risata si sollevò dagli studenti in ascolto, sicuramente più numerosi rispetto a molti altri corsi.

Il professor Wallacy sorrise a sua volta, voltandosi nuovamente verso alla lavagna ad indicare la forma possessiva del pronome appena menzionato.

Eric, come altri, trovava che Elliot Wallacy avesse una marcia in più rispetto agli altri professori. E non solo per l’aspetto fisico, che lo faceva assomigliare molto da vicino ad una specie di essere angelico sceso da una qualche parte del paradiso, ma soprattutto per la passione e la gioia con cui insegnava la sua materia: Letteratura Inglese.

Aveva i capelli mossi e biondi, corti a sfiorare il collo, e un paio d’occhi azzurro cielo sempre solcati da un’allegria contagiosa. Ventisei anni, giovanissimo rispetto allo standard dei professori, eppure era già un associato e con una classe tutta sua. Record d’età battuto solo dal suo collega Daniel Wayne, insegnante di Fisica Meccanica, ex bambino prodigio ora ventiquattrenne.

Si appoggiò con il mento alla mano destra, il cui relativo gomito era puntato sulla plastica rigida del poggia libri della sedia. Osservò con cipiglio distratto il professore, seguendone i lineamenti delle dita affusolate solo per l’improponibile scopo di pensare a tutt’altro e perdersi la rimanente parte della lezione.

Non ne poteva veramente più.

Ogni volta che suo padre apriva bocca si sentiva come la pecora nera nell’ovile di quelle bianche.

Non meritevole, non degno. Solo perché aveva scelto la sua strada, e perché quella strada andava contro i suoi voleri e valori.

Perché non poteva essere un padre come tutti gli altri? Perché non poteva semplicemente dirgli “vai, Eric, vai con Dio”? Perché doveva essere sempre così terribilmente, pesantemente stressante? Perché doveva comandare a bacchetta ogni aspetto della sua giornata per sentirsi soddisfatto?

Sospirò, socchiudendo gli occhi per non permettere al nervosismo di salire a galla. Erano tutte domande che non avrebbero mai trovato risposta, e lui lo sapeva benissimo, ma non poteva fare a meno di ripetersele in un lento ritornello senza fine.

E non poteva nemmeno impedire alla rabbia di comparire, di chiudergli lo stomaco trasformandosi in frustrazione, di fargli accelerare il cuore finché non si rendeva conto di stare per impazzire, come un moccioso, un fottuto bambino che si trova da solo quando ha paura del buio.

Scosse appena il capo, tornando ad osservare la lavagna. Ma la concentrazione evidentemente aveva smesso di essergli amica, perché le parole del professor Wallacy scivolavano sulla sua mente come una coperta di seta, troppo liscia e morbida per rimanere su di lui a lungo.

La campanella di fine lezioni lo salvò da una sicura crisi di nervosismo.

Non si preoccupò nemmeno di aspettare o salutare McFarland: raccolse le sue cose in fretta e furia per poi uscire dall’aula come un fulmine, spintonando e dribblando chi camminava troppo lentamente.

Aveva bisogno di aria. Sentiva di non riuscire più a respirare al chiuso, intrappolato fra mura e persone.

Si diresse a grandi passi verso l’uscita, incredibilmente più lontana di quello che immaginava di ricordare. Persino il corridoio sembrava più lungo, e tutte le volte che osservava una delle persone che sorpassava correndo, quella dopo sembrava avere gli stessi vestiti, gli stessi capelli... magari essere la stessa persona che aveva superato pochi passi prima.

Stava male. Si sentiva il torace come stretto in una morsa.

Aria. Aria!

Finalmente raggiunse la porta e, spalancandola di malagrazia, corse per cinque passi oltre al viale, in mezzo ai giardini. Alcuni ragazzi si girarono a guardarlo, straniti.

Respirò a fondo molte volte prima di rendersi conto di stare ansimando. Il sangue sembrava non trovare più la strada per arrivare al cervello mentre il surplus di ossigeno che inspirava si traduceva tutto in un offuscamento generale della  vista. Notò con uno sprazzo di lucidità che il cuore sembrava uscirgli di petto da quanto batteva forte e veloce, manco avesse nuotato i quattrocento metri stile libero battendo il record mondiale.

Portò il polso sinistro, con l’orologio da polso, davanti agli occhi mentre poggiava due dita della destra sulla carotide. Sotto la pelle l’arteria sembrava un martello. Batteva contro i suoi polpastrelli come se dovesse uscire dalla gola entro pochi secondi.

Cercò di calmarsi, trattenendo il fiato in modo da regolarizzare i respiri ed immettere nei polmoni la giusta quantità di ossigeno. Nel frattempo, Prese a contare i battiti.

Uno, due, tre, quattro... quando superarono gli otto ogni cinque secondi, fece un veloce calcolo. Era vicino ai cento battiti al minuto, e decisamente non era colpa della corsetta che aveva compiuto per uscire dall’edificio.

Che cosa cavolo stava succedendo?

Aspetta... non era il suo cuore che impazziva, vero? Non gli stava giocando un brutto scherzo alla sua età, vero?

In un moto di lucidità (o di follia?) fece una rapida scorsa mentale di chi in famiglia aveva avuto problemi di cuore. Nessuno, a quanto ne sapeva.

Ma giusto, lui che ne sapeva? Magari un suo lontano parente da parte di madre era cardiopatico e lui nemmeno lo sapeva. Un cugino che non aveva mai conosciuto, o uno zio segreto di Philadelphia.

Tutte quelle congetture non facevano altro che agitarlo, e l’agitazione gli faceva schizzare il cuore a livelli da tachicardia. Si accorse di essere quasi piegato in due, da come le sue mani stavano aggrappate alle ginocchia, reggendo probabilmente il tronco in procinto di piegarsi ancora di più.

Fu probabilmente per quello, che non lo vide arrivare...

« Ehi, ti senti bene? »

Se non fosse stato piegato in due in quello che cominciava a considerare come un principio d’infarto, probabilmente avrebbe riconosciuto la voce. Ma la domanda improvvisa, la posizione retrostante e il tocco della mano sulla spalla ebbero il brutto risultato di farlo reagire d’impulso; si voltò di scatto, scostando con uno schiaffo la mano del povero malcapitato che lo voleva aiutare.

Malcapitato con degli stranissimi, quanto bellissimi, occhi di cristallo azzurro.

« Ar... cher? » ansimò Eric, rendendosi improvvisamente conto di non riuscire nemmeno a parlare coerentemente.

L’altro sembrò stupito, inizialmente; poi un lampo di preoccupazione gli attraversò lo sguardo... o forse no? Era ansia, quella? Sembrava la faccia di uno che si trova davanti ad una situazione completamente imprevista, non calcolata.

Beh, magari uno studente in preda ad un infarto lo era, imprevisto, no?

« Everald, datti una calmata » disse poi, sfoggiando la sua caratteristica calma: « e siediti, sei pallido come un lenzuolo » aggiunse.

Ah! La faceva facile, lui. Non era mica semplice come prestargli una matita!

Ma decise di fidarsi. Se Joshua sapeva cosa cavolo fare in situazioni come quella, magari per scongiurare l’infarto che – ormai ne era sicuro! – stava per stroncargli la carriera agonistica appena iniziata, ben venisse!

Lo sentì appoggiargli le mani sulle braccia, accompagnandolo ad una vicina panchina in legno. « Stenditi e piega le gambe » gli sentì dire, e non ebbe la forza di chiedere spiegazioni o di rifiutarsi di farlo; sotto lo sguardo di passanti un po’ curiosi, si stese con la schiena sul legno e piegò le ginocchia.

Già meglio. Almeno la testa stava ferma al suo posto, ora.

« Cosa ti senti? » gli chiese Joshua, e si domandò mentalmente come cavolo aveva fatto a non riconoscere prima quel tono particolarmente pacato e quel modo suadente di parlare.

« E’... un infarto. Lo so. Lo sen... to » ansimò, portando l’avambraccio a coprirsi gli occhi. Nonostante fossero all’ombra se li sentiva umidi.

« Se fosse un infarto a quest’ora saresti su un’ambulanza » rispose pacatamente l’altro. Un fruscio di abiti gli rivelò che si era chinato al suo fianco, appena prima che un paio di dita fredde si posassero sul suo collo, sentendo la carotide proprio nell’esatto punto in cui prima se l’era ascoltata lui stesso.

Scostò il braccio, osservandolo. Il viso dai lineamenti delicati ma mascolini era concentrato sulla lancetta dei secondi del suo orologio da polso, uno vecchio Swatch di almeno una decina d’anni prima con il cinturino in pelle un po’ consunto.

Non parlò, lasciando che gli prendesse il battito. Se lo sentiva rimbombare nel petto ancora velocemente, ma non tanto quanto prima.

« Quanti caffè hai bevuto oggi? » domandò all’improvviso l’altro, senza spostare la mano dal suo collo.

Ed Eric cominciava a sperare che non lo facesse mai: era piacevolmente fresca e sembrava non scaldarsi nemmeno a contatto con il calore emanato dal suo corpo.

« Due » ammise: « prima di entrare in aula. McFarland ha lasciato lì il suo, l’ho bevuto io » riuscì a dire, stranamente senza interrompersi per ansimare.

Joshua sbuffò. « Cos’hai mangiato a colazione? » chiese poi, apparentemente seccato.

“Mangiato” non era il termine adatto. Quel pezzo infinitesimale di uovo e quel boccone di pancetta non valevano quanto una vera colazione. « Quasi nulla » rispose dunque, anche se non capiva esattamente il senso delle domande.

Gli fu rivelato molto presto, con tanto di buffetto sulla fronte: « il tuo problema si chiama tachicardia, genio del male, e sono sicuro che la tua iniezione masochistica di caffeina in tazza a stomaco vuoto ne sia la causa » lo riprese, alzandosi per andare a sedersi sul pezzo libero di panchina.

Maledì il caffè. Gli sembrava la prima cosa che andava assolutamente fatta. Di seguito, compatì se stesso e la sua idiotissima figura di merda.

Cercò di recuperare, in un qualche modo: « “Eric” va bene » se ne uscì, incredibile ma vero, in un discorso tutto suo che non c’entrava niente con il contesto in cui erano.

« Cosa? » chiese infatti l’altro, voltandosi con il capo in sua direzione. Non sembrava più seccato, adesso.

« Puoi chiamarmi Eric, va bene lo stesso » chiarì. Lo aveva chiamato “Everald” prima; nonostante il trambusto se ne era accorto.

L’altro sembrò pensarci sopra. « Allora è “Joshua”, per te » ribatté in seguito, tornando con gli occhi ad un punto indefinito del cortile.

« Va bene anche “Josh”? » chiese il castano ridacchiando, puntando gli occhi nocciola su quelli freddi ma stranamente affascinanti dell’altro.

« Come vuoi » fu la tiepida risposta, che però non era un rifiuto.

Eric sospirò, rilassandosi. Doveva ancora chiarire come una semplice chiacchierata con quel ragazzo spuntato dal nulla riuscisse a calmargli non solo gli istinti omicidi, ma persino il cuore impazzito in avanzata rapida.

Ora che la tranquillità aveva preso il posto del terrore, si rese conto di avere avuto veramente paura, anche se per alcuni istanti apparentemente interminabili.

« Credevo di morire... » sussurrò, una risata vuota ad accompagnare i suoi occhi chiusi.

« Non ancora » rispose velocemente Joshua, forse troppo. Salvo poi aggiungere: « ...a quanto pare ».

Fra loro calò il silenzio. Eric sentiva rallentare pian piano il suo battito cardiaco e ben presto ebbe abbastanza controllo su se stesso da riuscire a mettersi seduto.

« Meglio? » domandò Joshua pacatamente, incurvando appena le labbra in un sorriso.

Il castano annuì.

« Ti converrebbe mangiare qualcosa » aggiunse poi il moro: « possibilmente senza caffè » ironizzò lievemente.

« Non toccherò una tazza di caffè per il prossimo mese, cavolo. Ho le selezioni per i nazionali la prossima settimana, non posso rischiare di stramazzare in vasca con il cuore a mille » rivelò, entusiasta.

L’espressione di Joshua non variò. Nemmeno un po’. Si limitava ad osservarlo con quel sorriso gentile ma vuoto, come se gli fosse stato dipinto addosso e lì rimasto invariato.

Non parlò nemmeno, probabilmente perso in pensieri suoi. Scostò solo lo sguardo, impercettibilmente, ma Eric avrebbe giurato che non stesse più guardando lui; piuttosto qualcosa in lontananza appena sopra la sua spalla.

Stava evitando il suo sguardo?

Si sentì in dovere di riparare a quella frattura invisibile: « sei libero per pranzo? » domandò, mascherando l’improvvisa ansia con un ben pianificato sorriso allegro.

L’attenzione di Joshua fu nuovamente sua.

« Sì, a dire il vero » ammise con un mezzo sorriso.

« Ora non più » si intromise lui, alzandosi in piedi con un balzo che aveva quasi dell’infantile: « sei prenotato. Anche se ci dovremo accontentare della mensa, perché non è che io conosca l’ubicazione dell’albero dei soldi, e ho solo quelli necessari alla convezione studenti del campus » se ne uscì con ritrovata contentezza, mettendosi le mani in tasca e fermandosi per aspettarlo.

Joshua lo seguì con lo sguardo, annuendo piano. « Aggiudicato, allora. Vado pazzo per l’insalata di cartapesta della mensa, non potrei mai farne a meno » scherzò, dando però l’aria di uno che non racconta una cavolata nei riguardi della cartapesta.

Si incamminarono dunque verso l’edificio, camminando l’uno di fianco all’altro e chiacchierando amichevolmente. Sembrava si conoscessero non da qualche giorno, sporadicamente, ma da un certo tempo. Se entravano in discorso con la letteratura, poi, gli argomenti di cui discutere saltavano fuori come funghi.

Arrivarono al self service che Joshua stava elencando punto per punto gli atteggiamenti della Alice di Lewis Carroll che non sopportava. L’aveva definita – poverina! – una “scassa palle patentata” mentre si serviva effettivamente dell’insalata mista al banco dei contorni.

« Povera Alice » fu il semplice commento di Eric fra le risate.

Non era ancora riuscito a definire come si esprimesse realmente quel ragazzo; cambiava registro a seconda del momento e dell’occasione. Prima formale come un damerino, poi informale e rozzo. Aveva raramente una via di mezzo fra i due e, se la utilizzava, lui non era mai stato presente.

Si servì di un filetto di vitello che sembrava stranamente mangiabile – salvo il contorno di carotine lesse, che avrebbe puntigliosamente scartato a lato del piatto – e di patatine fritte. Afferrò una coca dal frigorifero accanto alla frutta, da cui Joshua prese dell’acqua naturale, e si diressero entrambi alla cassa.

Sorvolò con un moto di stizza sul fatto che la cassiera, che poteva tranquillamente essere sua madre, guardasse Archer come se fosse stato un pacchetto di cracker da scartare e mangiare... o un commesso particolarmente attraente di un sexy shop. Non aveva voglia di farsi passare la fame proprio mentre stava pagando il pranzo. Riservò alla donna un’occhiata particolarmente scazzata e, ritirato lo scontrino, si avviò dietro Joshua con il vassoio fra le mani.

« Ma fai quell’effetto a tutti? » chiese, curioso di sapere se tutta la sua vita si svolgesse fra sguardi assatanati di donne in preda a recessi ormonali da adolescenti schizzate.

« Quale effetto? » chiese l’altro, ma era palese che faceva il finto tonto.

« Quale effetto?! » esclamò il castano, adocchiando un tavolo da sei con una buona metà libera: « quello di una fabbrica ambulante di ferormoni, per Dio! » aggiunse scandalizzato.

Joshua si sedette, ridacchiando come uno che la sa lunga: « sì, ogni tanto, lo ammetto » disse, sfilando velocemente le posate dell’involucro di carta.

« Ogni tanto... » gli fece il verso il castano con tono risentito: « e intanto fai mister perfettino, capelli in ordine e abiti perfettamente in taglia. Persino il pranzo è calcolato, vero? Verdura mista e acqua minerale, come le ragazzine fissate con la dieta e i salutisti ».

« o come i vegetariani » intervenne il moro con un sorrisetto sornione.

Eric interruppe la sua rassegna stampa sulle tendenze comportamentali della società giovanile. « Sei vegetariano? » chiese con un sopracciglio alzato.

« Bingo » affermò Joshua.

« Ma... non vale! » sbottò l’altro, ignorando con un broncio l’ennesima risatina di vittoria di Archer: « non posso prenderti per il culo sul tuo mangiare verdura se sei vegetariano! » obiettò.

« Se proprio ci tieni provaci comunque » suggerì l’altro: « sono sicuro che gli appigli non ti mancano ».

« No, ha perso di attrattiva adesso » rispose a sua volta, fingendo professionalmente un broncio risentito.

Si allungò sul tavolo per raggiungere il ketchup a centro tavola, afferrandolo per poi metterne una generosa quantità sulle patatine. Quando fu soddisfatto dell’aspetto del suo rinato pranzo, posò la bottiglietta da parte e si dedicò ad inforcare le prime due listarelle.

Per quello che ne sapeva lui, era ormai sicuro che il ketchup potesse dare sapore anche alla plastica.

Fu proprio mentre Joshua si dedicava a spargere un filo poco consistente d’olio sulla sua insalata che un grido concitato provenne dall’entrata della mensa, confuso in un vociare di sottofondo: « Everald! ».

Si voltò quasi istantaneamente, per istinto. Non c’era persona che non lo conoscesse - anche solo di vista - in quell’università, ed era abituato a sentirsi chiamare dalle persone più disparate.

Quando l’espressione decisamente stupita di McFarland lo fulminò, si rese conto che per l’altro non era assolutamente normale vederlo pranzare con persone che aveva conosciuto da poco o che , come effettivamente doveva pensare Jonathan stando al discorso di quella stessa mattina, che aveva appena conosciuto.

E i mali non vengono mai soli.

Jonathan era solito portarsi appresso uno stuolo di ragazze dalle altre facoltà, ma quando lei compariva nel gruppo, Eric aveva sempre la sensazione che nemmeno su Marte avrebbe avuto scampo dalla presenza costante di quell’essere umano.

« Eric! » urlò quella: un tifone boccolato biondo con quattro dita di matita nera intorno agli occhi – approfondiva lo sguardo, diceva – di nome Sarah Wilkinson.

La sua pseudo-anima gemella barra promessa-sessuale made by McFarland Industries.

Se le sue parole avessero potuto trasformarsi in qualcosa a contatto con l’aria, sarebbero molto probabilmente diventare cuoricini.

 « Oddio... » sibilò il castano, girandosi di fretta verso Joshua e fingendo inutilmente di non averli visti. « Cosa fanno, cosa stanno facendo? » chiese con un filo di panico nella voce, fingendo (male) di tagliare in micro quadratini la sua fetta di vitello.

« Stanno guardando da questa parte » rispose semplicemente l’altro, portandosi alla bocca una foglia di insalata: « puoi andare con loro, non mi offendo » aggiunse poi.

« Nemmeno per idea » rispose subito Eric, masticando la carne: « non quando McFarland si porta dietro quella sottospecie di gossip girl ossigenata sperando che io ci vada a letto insieme! » esclamò, riducendo la voce ad uno stridio monocorde.

Archer si fece sfuggire un ghigno. « E non ti piacerebbe? » domandò, come divertito dalla situazione.

« Merda, no! » esclamò il castano, schifato dall’idea come lo sarebbe stato davanti ad una vasca piena di fango: « l’hai vista? Sembra uscita adesso dal set di Beautiful! » commentò.

Joshua allargò il ghigno fino a farlo sembrare un sorrisetto sbieco. « E allora ignorali, stanno per andare a sedersi » li informò successivamente, continuando a mangiare la sua verdura come se il fatto non fosse suo.

E, effettivamente, non erano affatto affari suoi. Ma poteva mostrare almeno un po’ d’empatia per un coetaneo, no?

Eric fu per lunghi istanti indeciso se riprenderlo a voce o limitarsi a lasciar passare. Quello che più lo preoccupava, però, a dir la verità era proprio McFarland. Aveva la fama di uno che non porta rancore, ma non sapeva esattamente come avrebbe preso quel suo comportamento alquanto fuori dall’ordinario una volta che si fossero rivisti a lezione.

Pensandoci, nemmeno lui sapeva perché improvvisamente andava a pranzo con ragazzi in maggior parte sconosciuti, con seri problemi di alimentazione – suvvia, sei un americano adolescente! Non puoi per legge naturale essere vegetariano! – e con lo sguardo di ghiaccio.

Il suddetto sembrò leggergli nel pensiero.

« Non avrai problemi con il tuo amico? » domandò infatti, bruciando in un istante tutti i suoi residui di incredulità. Eric cominciò a  pensare che la verdura fornisse superpoteri, ma per il bene della sua immagine pubblica ebbe la lucidità di non dirlo ad alta voce.

Rimase silenzioso, senza rispondere. Stava cercando a sua volta una sottospecie di premonizione per la quale potesse rispondere che sì, era tutto a posto. Non la trovò.

E se ne infischiò altamente.

« Non lo so, ma non fa nulla » fece spallucce, indaffarandosi di nuovo sul pranzo: « ci manca solo che un essere umano non possa invitare a pranzo un altro essere umano per fare conoscenza » borbottò risoluto, masticando altre due patatine.

Joshua sorrise alla frase, ma il castano non lo notò.

 

Passarono insieme il resto del pomeriggio, nella biblioteca del campus. Eric scoprì con un certo timore che a Joshua piaceva sul serio leggere libri, e non libri qualunque: quando tornò al loro tavolo con un manuale sulla programmazione in linguaggio PHP per pagine internet dinamiche, capì che la mente del ragazzo era una di quelle poliedriche, adatte per una conoscenza di tutto su tutto. Il classico tuttologo, con l’unica differenza che non aveva occhiali da vista e calvizia incipiente.

Anzi.

Per la maggior parte del tempo, comunque, uno si limitò a leggere e l’altro a redigere il saggio in programma per la settimana successiva. A volte chiacchieravano, fecero una pausa caffè più o meno verso le quattro – nella quale lui si limitò ad un disgustoso decaffeinato – e ripresero con lo studio fino alle sei, ora in cui Eric aveva allenamento in piscina.

Luogo in cui invitò anche Joshua che, caso strano, accettò.

Non sapeva cosa ci trovasse a vedere venti persone fare avanti e indietro per due ore in una vasca da venticinque metri. E, sinceramente, si stupiva di se stesso per avergli chiesto di sottostare a quella tortura.

Ma, a vederlo dalla vasca durante le pause fra una serie e l’altra, Joshua sembrava tutto fuorché annoiato.

Leggeva il libricino consunto che quella mattina gli aveva visto fra le mani, oppure chiacchierava con la solita espressione cortese con la signora al suo fianco – sicuramente madre di uno dei bambini dei corsi di nuoto – che creava qualcosa di rosso con quello che sembrava un uncinetto.

Quello che più lo incuriosiva, era proprio quella sua insana tendenza a non arrabbiarsi o agitarsi mai. Insomma, due ore in tribuna con ventotto gradi costanti lasciano anche sui più pazienti qualche segno di nervosismo; su di lui, invece, nulla.

Non poteva essere solo infinitamente paziente, no. Nascondeva qualcosa.

Era l’impressione che continuava a ronzargli in testa da un po’.

« Ottimo tempo Everald » commentò l’allenatore dal muretto sopra di lui, distraendolo dalle sue elucubrazioni. Regolarizzando il respiro affannato, annuì allegro. « Grazie coach » disse, togliendosi gli occhialini dagli occhi per assicurarseli bene sulla fronte coperta dalla plastica della cuffia.

L’uomo segnò un paio di tempi sulla cartelletta con aria decisamente soddisfatta, picchiettando con la punta della penna sui numeri appena segnati. « Se continui di questo passo, sono sicuro che l’oro nazionale per la staffetta mista è nostro » considerò, probabilmente più rivolto a se stesso che a lui. Satler, dalla corsia a fianco, roteò gli occhi con l’aria di chi vorrebbe essere ovunque tranne che lì.

Cominciò uno sproloquio sui tempi limite delle altre squadre in gara che lui evitò con la scusa di un crampo, allungandosi sull’acqua per fare duecento metri in scioltezza. Timoty invece se la sorbì tutta, ma lui ci era anche abituato, dati i tempi più che buoni con cui era consono gestire le sue gare.

Una volta terminato lo scioglimento, ebbero tutti il beneplacito di tornare a casa. L’orologio sopra le tribune segnava le otto e trenta spaccate.

Uscì dall’acqua issandosi sul muretto, scrollandosi i capelli bagnati nello stesso istante in cui si toglieva la cuffia. Recuperò le ciabatte e, camminando con aria stanca verso le tribune, notò Joshua alzarsi dal suo posto e avvicinarsi alla ringhiera.

« Ottimi tempi davvero » commentò il ragazzo una volta avvicinatosi, appoggiandosi con i gomiti e piegando il corpo in una posa che dire sessualmente attraente era un gentile pseudonimo.

Il suo cervello non prese nemmeno in considerazione quel suo ultimo pensiero: si rifiutò e basta.

« Onorato. Tu non ti sei rotto? » domandò, alzandosi il cappuccio dell’accappatoio sulla testa per non raffreddarsi il collo.

Joshua negò con il capo. « Vai a cambiarti, ti aspetto nell’atrio » tagliò corto, occhieggiando molto discretamente alcuni dei suoi compagni guardarli in modo insistente.

Anche se, e di questo Eric ne era convinto, era più la curiosità di vederlo parlare con il nuovo divo dell’università che l’interesse per la loro chiacchierata.

In ogni caso si limitò ad annuire, entrando negli spogliatoi a sua volta.

Non passò nemmeno dal borsone, deviando subito per le docce. Non aveva voglia di andare a prendere il suo bagnoschiuma: ne avrebbe chiesto uno in prestito per risparmiare tempo, e la famigliare confusione nelle docce gli diceva che almeno la metà della sua squadra stava per dare il via ad una battaglia a cuffiate di acqua gelida.

Pace, avrebbe corso il rischio.

Entrò dunque nel locale vaporoso, in cui almeno sette ragazzi dai fisici prestanti – erano nuotatori, dopotutto – trovavano di un interesse spropositato palleggiare con una bottiglia vuota di shampoo, sfidandosi a chi ne riusciva a fare di più senza farla cadere. Il record sul momento era 1.

Tentò a sua volta qualche palleggio, fallendo miseramente, prima di infilarsi sotto il primo getto libero e bearsi dell’acqua calda sulla sua schiena. Sentì i muscoli sciogliersi all’istante e si convinse, per l’ennesima volta, che non ci sarebbe mai stato nulla di più rilassante.

Ma quella pace non era destinata a durare a lungo.

« Ehi Eric, ci vuoi dire come accidenti fai a conoscere Archer? » domandò Dean Spencer dal cubicolo di fronte, facendo spuntare la testa insaponata dall’anta azzurra.

Bruscamente riportato alla realtà, rispose con un’espressione interrogativa che riassumeva il senso nullo che attribuiva a quella domanda.

« Sì, infatti » aggiunse però Matt Felton, tenendo miracolosamente in equilibrio la bottiglietta vuota di shampoo sul piede destro. « Sarei veramente curioso di sapere come cavolo hai fatto a parlare con una persona che non ti caga pari nemmeno se ti presenti » aggiunse. Solo allora Eric ebbe un vago ricordo di quando Matt si era presentato a lui, quasi un anno prima, e aveva espresso la sua intenzione – poi pienamente realizzata – di entrare alla facoltà di Fisica.

Dunque erano compagni di corso, in definitiva, lui e Josh. E non lo aveva considerato nemmeno di striscio?

Quel ragazzo dagli occhi indicibili cominciava a dipingere una strana idea di sé.

« Casualmente, a dire il vero » rispose, soddisfacendo quella curiosità collettiva: « la prima volta in un pub, la seconda alla festa di una confraternita del campus. Poi al parco domenica. E oggi abbiamo pranzato insieme » disse, come se parlasse del tempo o di quel nuovo film uscito da poco.

Argomento che per lui non si allontanava molto dal livello d’importanza dato alle previsioni meteo, ma che a tutti gli altri pareva essere fondamentale per passare una notte priva di incubi.

« In poche parole vi siete visti assiduamente negli ultimi due giorni » notò infatti un terzo, Jared Walker (secondo anno, Architettura), notando l’unica cosa che nemmeno lui aveva ancora preso in considerazione.

Ovvero che Joshua Archer gli fosse stato appiccicato, più o meno, per due giorni; che passavano a tre se contavano quello stesso lunedì in procinto di finire.

Lo considerò importante per circa due secondi, poi declassò l’informazione. Poteva essere, ed era sicuramente, il caso. Dopotutto, stentava a credere che l’incontro ai giardini non fosse frutto di una coincidenza.

Rispose a quella folla assurdamente ficcanaso con un’alzata di spalle. Non che il discorso lo entusiasmasse quanto pareva mandare gli altri su di giri. Chissà poi perché.

Dopo una rapida doccia si congedò dalla folla schiamazzante, infilandosi l’accappatoio e andando a vestirsi. Nonostante le temperature non fossero esattamente miti la sera non si asciugò i capelli, optando per pettinarli e lasciarli cadere umidi sul collo e sulla fronte.

Salutò i ritardatari e, mettendosi il borsone in spalla, uscì dallo spogliatoio a passo veloce.

Magari avrebbe invitato Joshua a cena. Non era educato lasciarlo andare via così dopo che aveva passato con lui tutto il santo giorno; e poi era da un pezzo che non portava qualcuno a casa. Da quando i suoi amici erano diventati degli spostati, probabilmente.

Certo, avrebbe dovuto chiamare sua madre con almeno un po’ d’anticipo. Fu per questo che arrivò con la mano alla tasca del borsone in cerca del cellulare. Avrebbe chiesto subito a Josh se era libero, e poi gli avrebbe fatto subire la tortura della cena con i suoi genitori.

Si sentiva un infame, in realtà. Se c’erano ospiti a cena (che non fossero di famiglia) suo padre probabilmente non lo avrebbe tartassato con battutine e allusioni, e lui avrebbe passato una sera che fosse una in santa pace.

Chiese scusa mentalmente ad Archer, ridacchiando. Si prospettava una serata migliore del solito.

I suoi piani si frantumarono nello stesso istante in cui alzò lo sguardo dal cellulare.

Ebbe la fugace immagine dell’atrio completamente fermo, immobile, come se il tempo si fosse bloccato su un solo minuto e lo ripetesse all’infinito. L’espressione imbarazzata della receptionist, che incrociò il suo sguardo per poi distoglierlo velocemente. Le facce a dir poco sconvolte di alcuni suoi compagni di squadra, i cellulari in mano ma lo sguardo che non li sfiorava neanche, bloccato su altro. Joshua appoggiato ad una parete con le braccia incrociate, lo sguardo serio che squadrava probabilmente la stessa cose che stavano osservando tutti.

E suo padre. Suo padre, in tuta da allenamento, che urlava, inveiva, contro il suo coach parole che non aveva ancora avuto la rapidità di afferrare.

Non si diede nemmeno il tempo di farlo; l’istinto che fosse qualcosa che non gli sarebbe piaciuto vinse sul raziocino, e si ritrovò a sbottare a sua volta, ansioso: « papà, cosa ci fai qui? ».

L’uomo si interruppe, girandosi in sua direzione insieme a molte altre teste. Aggrottò le sopracciglia e sogghignò, in un modo che gli aveva già visto addosso ma che non ricordava bene dove e quando.

« Sto dicendo al tuo allenatore che può anche cancellare il tuo nome dalla lista dei suoi atleti, così come da quella delle selezioni nazionali. Non metterai più nemmeno un dito in vasca, tu torni a fare basket » disse, quasi gioendo delle sue stesse parole.

Non ne fu sicuro, ma sentì qualcosa, da qualche parte dentro di lui, rompersi e cadere in pezzi.

La sorpresa lo investì e avvertì il cuore sobbalzare. Poi arrivò l’incredulità, che gli mozzò il respiro in gola. Infine, facendogli sembrare gli occhi che lo fissavano come fari di un palcoscenico, una profonda vergogna lo invase.

Lo aveva fatto davvero.

Davanti a tutti. Davanti a tutti.

Compagni di nuoto, amici, segretarie e normali passanti. Persino il suo coach.

Si introduceva nella sua vita, penetrandovi con violenza e senza ritegno, pretendendo di cambiare a forza ciò che non gli stava bene. Pretendendo di portare tutto sotto il suo controllo, di riportare lui fra le sue mani, legato ai fili da marionetta che Eric aveva fatto tanta fatica a tagliare già una volta.

Era pazzo. No, peggio, era un pezzo di merda. Ed era suo padre, Cristo, suo padre...

« No... » riuscì solo a sussurrare, guardandolo come se la persona davanti a lui fosse un estraneo troppo invadente.

« Sì invece » ribatté serafico il padre, scostando lo sguardo sull’allenatore, sbalordito più o meno come tutti gli altri.

Non ignorarmi, bastardo, pensò con rabbia. Non osare trattarmi come una marionetta del Mangiafuoco.

« NO! » esclamò dunque, gustando quella sensazione che, inconsapevolmente, più di tutte aveva aspettato: l’ira.

E l’adrenalina infettare come veleno il suo sangue, filtrare nei muscoli ed ingigantire il coraggio a dismisura.

Il silenzio era pesate come piombo, ma non ci badava. Nella sua testa volavano solo pensieri inconcludenti che portavano appresso una furiosa vergogna.

Suo padre lo squadrò, e nei suoi occhi Eric poté vedere chiaramente la goccia che fece traboccare il vaso.

« Tu non hai il potere di disobbedirmi, Eric. Io sono tuo padre! » sbottò, riversando su di lui la frustrazione trattenuta nell’ultimo anno, tramutandola in pura furia dalla prima all’ultima stilla.

« E io sono un essere umano, cazzo! Maggiorenne per di più! » urlò lui a sua volta. Non gli interessava se le conseguenze sarebbero state un disastro, se si fosse ritrovato con la porta di casa chiusa in faccia o con una mezza faccia livida. Non era più un bambino e non accettava di essere ancora proprietà di qualcuno!

« Sei sempre mio figlio e a me va l’ultima parola! »

« TU NON PUOI PERMETTERTI DI DECIDERE PER ME LA MIA VITA! » urlò, gridò, dando fondo a tutta la sua voce finché la gola non bruciò nello sforzo di alzare ancora di più il tono, già al suo limite.

Si sentiva deluso, schiacciato dal peso di un’autorità temuta ed odiata... ma, più di tutto, sentiva sulla pelle tutta l’ingiustizia di quel comportamento ignobile da parte del padre.

Si sentiva schiacciato dall’impotenza. La combatteva, la graffiava con le unghie e ne mordeva la superficie, ma essa non si spostava da sopra di lui, premendolo a terra con sempre più forza.

Le parole di suo padre aggiungevano quel peso invisibile che lo teneva ancorato al terreno.

« IO DECIDO QUELLO CHE VOGLIO! E se dico che tornerai al basket, tu prenderai in mano una palla arancione e ti allenerai nei tiri da tre fino a che non sputerai sangue! » sbottò il suo ordine, perentorio e minaccioso, avvicinandosi di qualche passo a lui, che non si mosse.

Non resistette più.

Poteva difendersi solo in un modo, conosceva solo quello.

Dunque urlò con più foga. « FOTTITI BASTARDO! »

Fu un istante.

Non vide la mano del padre sollevarsi in aria con l’intenzione palese di colpirlo. No, non la vide proprio.

Era troppo occupato a racimolare la voce per insultarlo.

Ma vide un lampo azzurro prima che la sua vista fosse completamente coperta da un paio di braccia spuntate dietro di lui, che lo spostarono all’indietro a forza, sbilanciandolo.

Poi, nient’altro che silenzio.

Quando riuscì a liberarsi notò la mano del padre sollevata per aria in procinto di schiaffeggiarlo, bloccata da quella sicuramente più forte del suo allenatore. Davanti a lui, come scudo fra loro, Joshua si era spostato dal muro così velocemente che poteva dire di non averlo visto nemmeno muoversi. Gli dava le spalle, guardando Trent, ed Eric poté solo immaginare l’effetto di quegli occhi color del ghiaccio puntati su quelli marroni nel padre, nel tentativo di sondargli l’anima per trovare lo sporco che la incrostava.

Dietro di lui, infine, Timoty era colui che lo aveva strattonato, probabilmente nel tentativo di scostarlo dalla traiettoria del colpo.

Intorno a loro, solo un silenzioso sbalordimento.

« Janette » pronunciò poi la voce profonda del coach: « chiami il 911 ».

La receptionist sollevò subito il ricevitore del telefono al suo fianco.

Si aspettava una nuova scenata isterica dal padre, a quella minaccia. Era coerente con il suo fottuto carattere, talmente prevedibile da essere quasi scritta a chiare lettere nel copione del prossimo futuro.

Ma quel momento non arrivò mai. Trent stava guardando con puro terrore il viso di Joshua, ed era divenuto talmente pallido che sembrava sul punto di svenire.

« Smetti di guardarmi... » sussurrò impaurito, tentando inutilmente di liberare la propria mano dalla presa dell’uomo alle sue spalle, che non lo lasciava e non aveva intenzione di farlo.

Perché ora faceva così? Eppure il ragazzo non parlava, non lo si sentiva nemmeno respirare.

Ma Trent non sembrava calmarsi, e Joshua continuava a rimanere in silenzio.

« Smetti di fissarmi! » esclamò poi, la voce più alta. Tentò con più forza di liberarsi, ma l’istruttore era molto più forte e lo tenne fermo.

Poi un passo. Vide Joshua avvicinarsi lentamente a suo padre fino ad accostare le labbra al suo orecchio, la mano destra portata a sfiorare appena la guancia dell’uomo. Un tocco così effimero da non sembrare nemmeno reale, ma Trent vi si ritirò come se quelle dita fossero fatte di braci ardenti.

« Vattene, Eric » sentì poi dire al suo orecchio, la voce di Timoty calma ma guardinga: « Vai da qualche amico a dormire; sparisci, per stasera » concluse.

Nel caos che si era scatenato nel suo cervello, quella gli sembrò la soluzione migliore. Anzi, l’unica.

Non si diede nemmeno peso di parlare, o dire qualcosa. Annuì, un gesto appena accennato, uscendo a passo svelto.

All’aria aperta, avvertì subito il famigliare nodo allo stomaco attorcigliargli le viscere. Gli mancò il fiato e, per istinto, si portò una mano alla bocca. Gli occhi presero a bruciare, e un insano bisogno di piangere lo invase improvvisamente e con una violenza inaudita.

Boccheggiante, iniziò a correre.

Ormai era buio e del parco si poteva vedere solo fin dove la luce dell’edificio riusciva ad illuminare.

Fu appena oltre questo ventaglio luminoso che si fermò, attaccandosi con la schiena al tronco di un ippocastano particolarmente grosso.

Cercò di resistere. Si disse di doverlo fare per i suoi diciannove anni compiuti, di non poter scoppiare in lacrime come un moccioso in preda ad una crisi post-litigata con i genitori, quando si sente che la vita è ingiusta a prescindere e le persone che si vorrebbero più vicine sono in realtà quelle che ti fanno più male.

Ma la vita era veramente ingiusta. Sul serio le persone che avrebbe voluto vicine non c’erano, o erano quelle che gli procuravano le ferite più profonde.

Si sentiva esattamente così.

E stava per esplodere e mandare a fanculo il poco orgoglio che sopravviveva in lui.

Scivolò con la schiena contro la corteccia ruvida, che sfregò contro la pelle al di sotto della felpa nonostante lo spessore del tessuto. Si lascò andare finché non fu seduto a terra e, piegando le ginocchia, poté appoggiarci le braccia e nascondere il volto in esse.

Si morse il labbro, resistendo all’impulso. Non voleva frignare come un fottuto moccioso.

Nel silenzio, udì dei passi. Erano lievi, attutiti dall’erba, e si avvicinavano.

Non li ignorò, ma nemmeno diede segno dell’opposto. Non aveva la forza di fare né l’uno, né l’altro.

Rimase in silenzio, ascoltandoli, fino a che il rumore non fu così vicino che fu chiara la presenza di un’altra persona al suo fianco. Sentì una mano appoggiarsi appena sulla sua spalla sinistra, stringerla lievemente, prima che una voce gradita come non mai riempisse il silenzio.

« Puoi piangere, se vuoi. Va tutto bene... io non guardo ».

Trattenne il respiro in un singhiozzo; e le parole di Joshua divennero realtà.

 

 

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Finito. Correggerlo è stata un’agonia peggiore dello scriverlo, davvero.

Faccio alcune precisazioni prima dei ringraziamenti. La parte su Lewis Carrol mi è stata ispirata da un’altra fic, lo ammetto, ma giuro che non è un cortese tentativo di plagio. La persona che l’ha utilizzata legger la fic (anzi, è quella a cui è dedicata) dunque vuole essere solo un tributo XD.

E ora, ringraziamenti. Ovviamente ringrazio tutti coloro che leggono e commentano. In particolare Shichan, che mi ha commentato il precedente capitolo. Spero che stavolta le descrizioni siano meno pesanti e, ehi, ci vorrebbe un santo per sopportare Trent Everald.

Dopo questo capitolo sono sicura che lo odieranno tutti in massa.

Saluto tutti gli intrepidi che sono arrivati fino a qui <3

Alla prossima!

   
 
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