Penso che
non finirò mai di ringraziare Bunny per avermi portato al concerto dei Birthday Massacre. Mi
sono innamorata di una loro canzone (e del relativo video, seppure inquietante)
che mi ha accompagnato per tutta l’ultima parte del capitolo.
Per chi se
la vuole ascoltare e non la conosce, è Looking Glass. Il
titolo del capitolo è preso dal testo.
Note: Daniel Wayne, che viene citato, non mi appartiene. E’ stato creato e viene schiavizzato da Shichan, che me ne presta i servigi
quando ne necessito XD perciò: grazie Shichan.
Monday
Eric
It’s
a glass cage, so I can’t pretend...
Sembrava
monotono e altresì comune, ma avrebbe potuto giurare
che il lunedì fosse il giorno che odiava di più.
Motivazioni?
Diverse.
Per
definizione è il primo giorno della settimana. Il tedio di alzarsi presto la
mattina cominciava a percepirsi sin dalla sera prima e sentire l’insistente
“bip bip” come primo suono appena svegli
era decisamente debilitante.
Inoltre,
la sua famiglia. Anche se quello era un problema di
tutti i giorni, non solo del lunedì.
Suo padre
era un uomo all’antica, già. Per lui i pasti - colazione compresa, dunque - erano
i momenti di maggiore importanza della giornata, e oltre a costringerli tutti
ad ingoiare vitamine e proteine pretendeva che tutta
la famiglia fosse presente e riunita.
Questo
progetto prevedeva l’alzarsi mezz’ora prima del necessario: minuti di sonno che
nessuno gli avrebbe ridato mai.
Anche
quel giorno nulla variò. La sveglia suonò alle sei come sempre, dovette
litigarsi il bagno con il fratello come sempre, finì per arrivare ultimo come
sempre. E, come sempre…
« Sei in
ritardo ».
La voce
severa del padre giunse come il brontolio di un drago a digiuno dalla cucina,
dove lui e Alex avevano appena interrotto una
conversazione sicuramente incentrata sul basket.
E
nessuno andrebbe ad accarezzare un drago a digiuno, ammettiamolo.
«
Buongiorno anche a te, papà » salutò lui, con palese ironia, sistemandosi meglio
la maglia nera e gettando zaino e borsone contro il muro
prima di entrare in cucina. Spettinò i capelli del fratellino, diede un
piccolo bacio sulla guancia alla madre e si andò a posizionare
alla destra del padre, facendo stridere la sedia nello spostarla.
L’uomo gli
scoccò un’occhiataccia che lui ignorò.
« Allora
ragazzi, cosa farete oggi? » cominciò la madre, posando davanti ai due un piatto
con uova strapazzate e pancetta. Ignorando lo stomaco che si contorceva con
disappunto, si versò un bicchiere di succo d’arancia.
« Scuola »
rispose Alex allegramente: « poi allenamento. Io e papà vogliamo provare con Rick la nuova finta che abbiamo sperimentato ieri
pomeriggio, dovremo riuscire a vincere contro i Pidgeons
se riusciamo a coordinarci bene e a metterla in pratica al tempo giusto »
terminò quasi raggiante, infilzando con la forchetta un po’ di
uovo.
Il suo
stomaco si rivoltò come un calzino, ma per l’ennesima volta non vi badò;
preferì armarsi di coltello e cominciare a sbocconcellare la sua fetta di
pancetta.
« Bene,
divertiti » rispose cortese la madre, sedendosi alla sinistra del padre, seduto
a capotavola. « E tu Eric? » chiese poi, osservandolo
con lo stesso sorriso che aveva appena riservato al figlio più piccolo.
Eric si
bloccò con la forchetta a mezz’aria, guardandola appena. « Oggi ho lezione, poi vado a pranzo con McFarland.
Nel pomeriggio sto in biblioteca, devo preparare un elaborato; dopo ho
allenamento » terminò, riassumendo.
Ovviamente
non poteva essere abbastanza, per quella mattina. Se Eric non
metteva piede fuori di casa con l’umore tendente al nero, suo padre non
si considerarava realizzato.
« Quanto hai intenzione di stare in piscina? » chiese, con l’evidente
tono di chi disprezza dalla prima all’ultima lettera della frase che ha appena
pronunciato.
« Al
solito » ribatté lui, cercando di mantenere lo status quo solo per non infognarsi nell’ennesima discussione senza
senso con colui che si professava suo genitore: «
finisco alle otto e mezza. Come tutta la scorsa
settimana e da un anno a questa parte » commentò, ingoiando a fatica un po’
d’uovo che subito annaffiò con del succo di frutta.
Trent
aggrottò le sopracciglia. « Non mi piace il tuo tono, ragazzo ».
“Ragazzo”.
Come se lui non fosse suo padre, ma suo nonno o suo zio.
Qualcuno di più distante, nell’albero genealogico della famiglia Everald; qualcuno tagliato fuori solo perché non rincorreva
una palla arancione per farla passare in una rete sospesa a mezz’aria.
Non
rispose alla provocazione. Non ne valeva la pena di avvelenarsi il sangue.
Guardò in
basso, invece, dove le uova lo stavano implorando di mangiarle ma il suo stomaco
aveva deciso di non collaborare. Si arrese ben presto
all’evidenza che non avrebbe toccato oltre la sua
colazione.
«
Scusatemi » sussurrò con faticosa cortesia, alzandosi velocemente. Per evitare
che suo padre, finito il boccone, cominciasse la sua paternale di “quando ci si
alza dal tavolo” e “si esce di casa tutti insieme”.
Gli faceva
venire da vomitare, il fatto che suo padre lo considerasse a parole membro
della famiglia e lo escludesse dal concetto con i
gesti e con l’atteggiamento che gli dimostrava.
Uscì dalla
porta con un frettoloso saluto, udendo la voce dell’uomo solo quando ormai era
a cavallo della mountain bike.
La scuola
non gli era mai piaciuta.
Era sempre
stato un tipo molto movimentato, amante della vita all’aria aperta, e passare tutti i giorni sei ore seduto ad un banco non era
esattamente la sua idea di “libertà”.
Tuttavia
all’epoca giocava a basket, di conseguenza andava d’accordo con il padre. Fu
quando decise di andare per una vita tutta sua che i ruoli si
invertirono: casa era una specie di carcere di massima sicurezza mentre
il college era divenuto la sua nuova boccata d’aria fresca.
Forse era
per quello che passava fuori casa la maggior parte del tempo. E, al contempo, forse era per quello che il lunedì mattina a
scuola non assumeva contorni così tanto traumatici.
« Ev! » sentì esclamare, appena prima che McFarland
gli piombasse addosso travolgendolo con la sua incredibile allegria sin dal
primo mattino: « come hai passato queste ventiquattro ore lunghissime che ci
hanno separato nel week end? » scherzò ad alta voce,
attirando le occhiate di parecchia gente nei paraggi.
« Le più
belle della mia vita » rispose a tono Eric con un sorrisetto, scrollandoselo di
dosso.
« Crudele »
ribatté l’altro: « bisognerebbe avvertire tutte quelle poverette che ti fanno
il filo, potrebbero rimanere veramente ferite da questo tuo comportamento
anti-sociale » esplicò con improvvisa eloquenza,
camminando al suo fianco in direzione del dipartimento di Letteratura.
Il castano
ridacchiò, guardandosi intorno senza rispondergli. Non erano pochi gli studenti
che non avevano lezione presto al lunedì mattina, e
non era strano vederli chiacchierare seduti in cerchio sull’erba del campus.
Soprattutto se era una giornata niente male e il tempo prometteva bene.
Non fu
difficile individuare chi, in realtà, si era ritrovato a cercare con lo
sguardo. Occhi come quelli, una volta registrati bene in mente, saltano all’attenzione fin troppo velocemente: più o meno come gli
oggetti di segrete ossessioni.
E non
poteva non ammettere a se stesso che la sua fissazione non lo stesse
diventando.
Archer
stava seduto su una panchina del parco, tranquillo, nessuno intorno. Leggeva,
da quello che sembrava a lui, un libretto piccolo e dalla copertina piuttosto
consunta dal titolo in lettere d’oro che non riusciva a leggere. Indossava un
paio di pantaloni neri e una semplice maglietta bianca, ma anche nella più
assurda semplicità di vestiario quell’abbigliamento gli si incollava
addosso come una seconda pelle, cadendogli perfettamente, quasi fosse stato
disegnato appositamente per lui e poi messo in commercio.
Si rese
conto di essersi fermato a guardarlo solo quando la voce perennemente su di
giri di Jonathan lo riscosse
dal suo improvviso torpore.
« Ev, chi cavolo stai guardando? »
chiese, incuriosito più che stizzito, appoggiandosi sulle sue spalle e cercando
a sua volta l’oggetto dello sguardo di Eric.
Per
fortuna aveva una capacità spiccata di non dare a vedere l’imbarazzo e di avere
quasi sempre la risposta pronta:
« Archer » rispose con una perfettamente recitata calma: « lo
conosci? ».
« E chi non lo conosce? » ribatté quello, assottigliando lo
sguardo come se stesse guardando un nemico... o un rivale, più che altro. « Joshua Archer, Fisica, classe del
professor Wayne » continuò: « è qui da quanto? Due giorni? Forse tre. E sembra già che la metà delle ragazze di questa
stramaledetta università si siano innamorate pazzamente di lui. Non so quante
dichiarazioni o quanti atti di deliberata seduzione abbia
già subito, ma da quello che ho capito non si è messo con nessuna e non ha la
ragazza. E’ il fottuto playboy di origine
ignota » biascicò a denti stretti, togliendosi da sopra le sue spalle per
riprendere a camminare in direzione della facoltà. Anche
Eric gli andò dietro, costringendosi a scostare lo sguardo da Joshua.
Prese fiato per parlare, ma decise di non farlo. Con l’incazzatura che si era fatto venire Jonathan,
se gli diceva cose come “io l’ho conosciuto e non mi sembra male” poteva
tranquillamente ritrovarsi in uno dei fossi dietro la
scuola con un pugnale piantato nello stomaco; McFarland
era in grado di farlo, oh sì.
Optò
dunque per un approccio più idiota: « cioè, fammi capire: una persona ti chiede
informazioni su uno nuovo e la prima cosa che gli dici è la sua vita sentimentale
e il suo grado di popolarità nella sfera femminile? » ironizzò, ridacchiando in
sua direzione con una finta aria scioccata.
L’altro lo
fulminò, salvo poi togliere da lui lo sguardo con un leggero rossore sulle
guance: « e cos’altro ti devo dire? Ho sentito solo
questo in giro » si giustificò.
« Hai
sentito solo questo perché ti interessava solo questo,
e di conseguenza hai ascoltato solo
questo » lo corresse Eric, colpendo direttamente il nervo scoperto: « possibile
che tutta la tua esistenza giri intorno al sesso e alle ragazze, McFarland? » domandò falsamente lamentoso, anche se la
risposta già la conosceva.
« Ovvio,
su cos’altro dovrebbe girare, scusa? » rispose l’altro, sgranando gli occhi
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Eh già, su
cos’altro?
« Noterete
che l’inglese usato è diverso da quello contemporaneo » stava spiegando il
giovane professore, indicando sulla lavagna alcuni pronomi personali scritti in
bella grafia: « “thou”, per esempio, è una forma arcaica di “you”. Lo
utilizzava Shakespeare e, se non avete sbagliato aula
andando a biologia, saprete sicuramente che il caro
William visse nella seconda metà del sedicesimo secolo ».
Una lieve
risata si sollevò dagli studenti in ascolto, sicuramente più numerosi rispetto
a molti altri corsi.
Il professor Wallacy sorrise a sua volta, voltandosi nuovamente verso
alla lavagna ad indicare la forma possessiva del pronome appena menzionato.
Eric, come
altri, trovava che Elliot Wallacy avesse una marcia in
più rispetto agli altri professori. E non solo per l’aspetto fisico, che lo
faceva assomigliare molto da vicino ad una specie di essere
angelico sceso da una qualche parte del paradiso, ma soprattutto per la
passione e la gioia con cui insegnava la sua materia: Letteratura Inglese.
Aveva i
capelli mossi e biondi, corti a sfiorare il collo, e un paio d’occhi azzurro
cielo sempre solcati da un’allegria contagiosa. Ventisei anni, giovanissimo
rispetto allo standard dei professori, eppure era già un associato e con una
classe tutta sua. Record d’età battuto solo dal suo collega
Daniel Wayne, insegnante di Fisica Meccanica, ex bambino prodigio ora
ventiquattrenne.
Si
appoggiò con il mento alla mano destra, il cui relativo gomito era puntato
sulla plastica rigida del poggia libri della sedia.
Osservò con cipiglio distratto il professore, seguendone i lineamenti delle
dita affusolate solo per l’improponibile scopo di pensare a tutt’altro e
perdersi la rimanente parte della lezione.
Non ne
poteva veramente più.
Ogni volta
che suo padre apriva bocca si sentiva come la pecora nera nell’ovile di quelle
bianche.
Non
meritevole, non degno. Solo perché aveva scelto la sua
strada, e perché quella strada andava contro i suoi voleri e valori.
Perché
non poteva essere un padre come tutti gli altri? Perché
non poteva semplicemente dirgli “vai, Eric, vai con Dio”? Perché
doveva essere sempre così terribilmente, pesantemente stressante? Perché doveva comandare a bacchetta ogni aspetto della sua
giornata per sentirsi soddisfatto?
Sospirò,
socchiudendo gli occhi per non permettere al nervosismo di salire a galla.
Erano tutte domande che non avrebbero mai trovato risposta, e lui lo sapeva
benissimo, ma non poteva fare a meno di ripetersele in un lento ritornello
senza fine.
E non
poteva nemmeno impedire alla rabbia di comparire, di chiudergli lo stomaco
trasformandosi in frustrazione, di fargli accelerare il cuore finché non si rendeva
conto di stare per impazzire, come un moccioso, un fottuto
bambino che si trova da solo quando ha paura del buio.
Scosse
appena il capo, tornando ad osservare la lavagna. Ma
la concentrazione evidentemente aveva smesso di essergli amica, perché le
parole del professor Wallacy scivolavano sulla sua mente come una coperta di
seta, troppo liscia e morbida per rimanere su di lui a lungo.
La
campanella di fine lezioni lo salvò da una sicura
crisi di nervosismo.
Non si
preoccupò nemmeno di aspettare o salutare McFarland:
raccolse le sue cose in fretta e furia per poi uscire dall’aula come un
fulmine, spintonando e dribblando chi camminava troppo
lentamente.
Aveva
bisogno di aria. Sentiva di non riuscire più a
respirare al chiuso, intrappolato fra mura e persone.
Si diresse
a grandi passi verso l’uscita, incredibilmente più lontana di quello che
immaginava di ricordare. Persino il corridoio sembrava più lungo,
e tutte le volte che osservava una delle persone che sorpassava
correndo, quella dopo sembrava avere gli stessi vestiti, gli stessi capelli...
magari essere la stessa persona che aveva superato pochi passi prima.
Stava
male. Si sentiva il torace come stretto in una morsa.
Aria. Aria!
Finalmente
raggiunse la porta e, spalancandola di malagrazia, corse per cinque passi oltre
al viale, in mezzo ai giardini. Alcuni ragazzi si girarono a guardarlo,
straniti.
Respirò a
fondo molte volte prima di rendersi conto di stare ansimando. Il sangue
sembrava non trovare più la strada per arrivare al cervello mentre il surplus di ossigeno che inspirava si traduceva tutto in un
offuscamento generale della vista. Notò
con uno sprazzo di lucidità che il cuore sembrava uscirgli di petto da quanto
batteva forte e veloce, manco avesse nuotato i
quattrocento metri stile libero battendo il record mondiale.
Portò il
polso sinistro, con l’orologio da polso, davanti agli occhi mentre poggiava due
dita della destra sulla carotide. Sotto la pelle l’arteria
sembrava un martello. Batteva contro i suoi polpastrelli come se dovesse uscire
dalla gola entro pochi secondi.
Cercò di
calmarsi, trattenendo il fiato in modo da regolarizzare
i respiri ed immettere nei polmoni la giusta quantità di ossigeno. Nel
frattempo, Prese a contare i battiti.
Uno, due, tre, quattro... quando superarono gli otto ogni
cinque secondi, fece un veloce calcolo. Era vicino ai cento battiti al minuto, e decisamente non era colpa della corsetta che
aveva compiuto per uscire dall’edificio.
Che
cosa cavolo stava succedendo?
Aspetta...
non era il suo cuore che impazziva, vero? Non gli
stava giocando un brutto scherzo alla sua età, vero?
In un moto
di lucidità (o di follia?) fece una rapida scorsa mentale di chi in famiglia
aveva avuto problemi di cuore. Nessuno, a quanto ne sapeva.
Ma giusto, lui che ne sapeva? Magari un suo lontano parente da parte di madre era
cardiopatico e lui nemmeno lo sapeva. Un cugino che non aveva
mai conosciuto, o uno zio segreto di Philadelphia.
Tutte
quelle congetture non facevano altro che agitarlo, e l’agitazione gli faceva
schizzare il cuore a livelli da tachicardia. Si accorse di essere quasi piegato
in due, da come le sue mani stavano aggrappate alle
ginocchia, reggendo probabilmente il tronco in procinto di piegarsi ancora di
più.
Fu
probabilmente per quello, che non lo vide arrivare...
« Ehi, ti
senti bene? »
Se non
fosse stato piegato in due in quello che cominciava a considerare come un
principio d’infarto, probabilmente avrebbe riconosciuto la voce. Ma la domanda improvvisa, la posizione retrostante e il
tocco della mano sulla spalla ebbero il brutto risultato di farlo reagire
d’impulso; si voltò di scatto, scostando con uno schiaffo la mano del povero
malcapitato che lo voleva aiutare.
Malcapitato
con degli stranissimi, quanto bellissimi, occhi di cristallo azzurro.
« Ar... cher? »
ansimò Eric, rendendosi improvvisamente conto di non riuscire nemmeno a
parlare coerentemente.
L’altro
sembrò stupito, inizialmente; poi un lampo di preoccupazione gli attraversò lo
sguardo... o forse no? Era ansia, quella? Sembrava la faccia di uno che si trova davanti ad una situazione completamente imprevista,
non calcolata.
Beh,
magari uno studente in preda ad un infarto lo era, imprevisto, no?
« Everald, datti una calmata » disse poi, sfoggiando la sua
caratteristica calma: « e siediti, sei pallido come un
lenzuolo » aggiunse.
Ah! La
faceva facile, lui. Non era mica semplice come prestargli una matita!
Ma
decise di fidarsi. Se Joshua sapeva cosa cavolo fare
in situazioni come quella, magari per scongiurare
l’infarto che – ormai ne era sicuro! – stava per stroncargli la carriera
agonistica appena iniziata, ben venisse!
Lo sentì
appoggiargli le mani sulle braccia, accompagnandolo ad una vicina panchina in legno. « Stenditi e piega le
gambe » gli sentì dire, e non ebbe la forza di chiedere spiegazioni o di
rifiutarsi di farlo; sotto lo sguardo di passanti un po’ curiosi, si stese con
la schiena sul legno e piegò le ginocchia.
Già
meglio. Almeno la testa stava ferma al suo posto, ora.
« Cosa ti senti? » gli chiese Joshua,
e si domandò mentalmente come cavolo aveva fatto a non riconoscere prima quel
tono particolarmente pacato e quel modo suadente di
parlare.
« E’... un
infarto. Lo so. Lo sen... to » ansimò, portando
l’avambraccio a coprirsi gli occhi. Nonostante fossero all’ombra
se li sentiva umidi.
« Se fosse
un infarto a quest’ora saresti su un’ambulanza »
rispose pacatamente l’altro. Un fruscio di abiti gli
rivelò che si era chinato al suo fianco, appena prima che un paio di dita
fredde si posassero sul suo collo, sentendo la carotide proprio nell’esatto
punto in cui prima se l’era ascoltata lui stesso.
Scostò il
braccio, osservandolo. Il viso dai lineamenti delicati ma mascolini era
concentrato sulla lancetta dei secondi del suo orologio da polso, uno vecchio Swatch di almeno una
decina d’anni prima con il cinturino in pelle un po’ consunto.
Non parlò,
lasciando che gli prendesse il battito. Se lo sentiva
rimbombare nel petto ancora velocemente, ma non tanto quanto prima.
« Quanti
caffè hai bevuto oggi? » domandò all’improvviso
l’altro, senza spostare la mano dal suo collo.
Ed
Eric cominciava a sperare che non lo facesse mai: era piacevolmente fresca e
sembrava non scaldarsi nemmeno a contatto con il calore emanato dal suo corpo.
« Due »
ammise: « prima di entrare in aula. McFarland ha lasciato lì il suo, l’ho bevuto io » riuscì a dire,
stranamente senza interrompersi per ansimare.
Joshua
sbuffò. « Cos’hai mangiato a colazione? » chiese poi,
apparentemente seccato.
“Mangiato”
non era il termine adatto. Quel pezzo infinitesimale di uovo
e quel boccone di pancetta non valevano quanto una vera colazione. « Quasi
nulla » rispose dunque, anche se non capiva esattamente il senso delle domande.
Gli fu rivelato molto presto, con tanto di buffetto sulla fronte: « il
tuo problema si chiama tachicardia, genio del male, e sono sicuro che la tua
iniezione masochistica di caffeina in tazza a stomaco vuoto ne sia la causa »
lo riprese, alzandosi per andare a sedersi sul pezzo libero di panchina.
Maledì il
caffè. Gli sembrava la prima cosa che andava assolutamente fatta. Di seguito,
compatì se stesso e la sua idiotissima figura di
merda.
Cercò di
recuperare, in un qualche modo: « “Eric” va bene » se ne uscì, incredibile ma
vero, in un discorso tutto suo che non c’entrava niente con il contesto in cui erano.
« Cosa? » chiese infatti l’altro,
voltandosi con il capo in sua direzione. Non sembrava più seccato, adesso.
« Puoi chiamarmi Eric, va bene lo stesso » chiarì. Lo aveva
chiamato “Everald” prima; nonostante il trambusto se ne era accorto.
L’altro
sembrò pensarci sopra. « Allora è “Joshua”, per te »
ribatté in seguito, tornando con gli occhi ad un punto indefinito del cortile.
« Va bene
anche “Josh”? » chiese il castano ridacchiando,
puntando gli occhi nocciola su quelli freddi ma stranamente affascinanti
dell’altro.
« Come vuoi » fu la tiepida risposta, che però non era un rifiuto.
Eric
sospirò, rilassandosi. Doveva ancora chiarire come una
semplice chiacchierata con quel ragazzo spuntato dal nulla riuscisse a
calmargli non solo gli istinti omicidi, ma persino il cuore impazzito in
avanzata rapida.
Ora che la
tranquillità aveva preso il posto del terrore, si rese conto di avere avuto
veramente paura, anche se per alcuni istanti apparentemente interminabili.
« Credevo
di morire... » sussurrò, una risata vuota ad accompagnare i suoi occhi chiusi.
« Non
ancora » rispose velocemente Joshua, forse troppo. Salvo poi aggiungere: « ...a quanto pare ».
Fra loro
calò il silenzio. Eric sentiva rallentare pian piano il suo battito cardiaco e
ben presto ebbe abbastanza controllo su se stesso da riuscire a mettersi
seduto.
« Meglio? »
domandò Joshua pacatamente, incurvando appena le
labbra in un sorriso.
Il castano
annuì.
« Ti
converrebbe mangiare qualcosa » aggiunse poi il moro: « possibilmente senza
caffè » ironizzò lievemente.
« Non
toccherò una tazza di caffè per il prossimo mese, cavolo. Ho
le selezioni per i nazionali la prossima settimana, non posso rischiare
di stramazzare in vasca con il cuore a mille » rivelò, entusiasta.
L’espressione
di Joshua non variò. Nemmeno un po’. Si limitava ad
osservarlo con quel sorriso gentile ma vuoto, come se gli fosse stato dipinto
addosso e lì rimasto invariato.
Non parlò
nemmeno, probabilmente perso in pensieri suoi. Scostò solo lo sguardo,
impercettibilmente, ma Eric avrebbe giurato che non
stesse più guardando lui; piuttosto qualcosa in lontananza appena sopra la sua
spalla.
Stava
evitando il suo sguardo?
Si sentì
in dovere di riparare a quella frattura invisibile: « sei libero per pranzo? »
domandò, mascherando l’improvvisa ansia con un ben pianificato sorriso allegro.
L’attenzione
di Joshua fu nuovamente sua.
« Sì, a
dire il vero » ammise con un mezzo sorriso.
« Ora non
più » si intromise lui, alzandosi in piedi con un
balzo che aveva quasi dell’infantile: « sei prenotato. Anche
se ci dovremo accontentare della mensa, perché non è che io conosca
l’ubicazione dell’albero dei soldi, e ho solo quelli necessari alla convezione
studenti del campus » se ne uscì con ritrovata contentezza, mettendosi le mani
in tasca e fermandosi per aspettarlo.
Joshua
lo seguì con lo sguardo, annuendo piano. « Aggiudicato, allora. Vado pazzo per l’insalata di cartapesta della mensa, non potrei
mai farne a meno » scherzò, dando però l’aria di uno che non racconta una
cavolata nei riguardi della cartapesta.
Si incamminarono
dunque verso l’edificio, camminando l’uno di fianco all’altro e chiacchierando
amichevolmente. Sembrava si conoscessero non da
qualche giorno, sporadicamente, ma da un certo tempo. Se
entravano in discorso con la letteratura, poi, gli argomenti di cui discutere
saltavano fuori come funghi.
Arrivarono
al self service che Joshua
stava elencando punto per punto gli atteggiamenti della Alice
di Lewis Carroll che non sopportava.
L’aveva definita – poverina! – una “scassa palle patentata”
mentre si serviva effettivamente dell’insalata mista al banco dei contorni.
« Povera
Alice » fu il semplice commento di Eric fra le risate.
Non era
ancora riuscito a definire come si esprimesse
realmente quel ragazzo; cambiava registro a seconda del momento e
dell’occasione. Prima formale come un damerino, poi informale e rozzo. Aveva
raramente una via di mezzo fra i due e, se la utilizzava, lui non era mai stato
presente.
Si servì
di un filetto di vitello che sembrava stranamente mangiabile – salvo il
contorno di carotine lesse, che avrebbe
puntigliosamente scartato a lato del piatto – e di patatine fritte. Afferrò una
coca dal frigorifero accanto alla frutta, da cui Joshua
prese dell’acqua naturale, e si diressero entrambi alla cassa.
Sorvolò
con un moto di stizza sul fatto che la cassiera, che poteva tranquillamente
essere sua madre, guardasse Archer
come se fosse stato un pacchetto di cracker da scartare e mangiare... o un
commesso particolarmente attraente di un sexy shop. Non aveva voglia di farsi
passare la fame proprio mentre stava pagando il pranzo. Riservò alla donna
un’occhiata particolarmente scazzata e, ritirato lo
scontrino, si avviò dietro Joshua con il vassoio fra
le mani.
« Ma fai quell’effetto a tutti? » chiese,
curioso di sapere se tutta la sua vita si svolgesse fra sguardi
assatanati di donne in preda a recessi ormonali da adolescenti schizzate.
« Quale
effetto? » chiese l’altro, ma era palese che faceva il finto
tonto.
« Quale
effetto?! » esclamò il castano, adocchiando un tavolo da sei con una buona metà
libera: « quello di una fabbrica ambulante di ferormoni, per Dio! » aggiunse
scandalizzato.
Joshua
si sedette, ridacchiando come uno che la sa lunga: «
sì, ogni tanto, lo ammetto » disse, sfilando velocemente le posate
dell’involucro di carta.
« Ogni
tanto... » gli fece il verso il castano con tono risentito: « e intanto fai
mister perfettino, capelli in ordine e abiti
perfettamente in taglia. Persino il pranzo è calcolato, vero? Verdura mista e acqua minerale, come le ragazzine fissate con la
dieta e i salutisti ».
« o come i vegetariani » intervenne il moro con un sorrisetto
sornione.
Eric interruppe la sua rassegna stampa sulle tendenze
comportamentali della società giovanile. « Sei vegetariano?
» chiese con un sopracciglio alzato.
« Bingo » affermò Joshua.
« Ma... non vale! » sbottò l’altro, ignorando con un broncio
l’ennesima risatina di vittoria di Archer:
« non posso prenderti per il culo sul tuo mangiare verdura se sei vegetariano! »
obiettò.
« Se
proprio ci tieni provaci comunque » suggerì l’altro: «
sono sicuro che gli appigli non ti mancano ».
« No, ha
perso di attrattiva adesso » rispose a sua volta,
fingendo professionalmente un broncio risentito.
Si allungò
sul tavolo per raggiungere il ketchup a centro tavola, afferrandolo per poi
metterne una generosa quantità sulle patatine. Quando
fu soddisfatto dell’aspetto del suo rinato pranzo, posò la bottiglietta da
parte e si dedicò ad inforcare le prime due listarelle.
Per quello
che ne sapeva lui, era ormai sicuro che il ketchup
potesse dare sapore anche alla plastica.
Fu proprio
mentre Joshua si dedicava a spargere un filo poco
consistente d’olio sulla sua insalata che un grido concitato provenne
dall’entrata della mensa, confuso in un vociare di sottofondo: « Everald! ».
Si voltò
quasi istantaneamente, per istinto. Non c’era persona che non lo conoscesse - anche solo di vista - in quell’università, ed
era abituato a sentirsi chiamare dalle persone più disparate.
Quando
l’espressione decisamente stupita di McFarland lo fulminò, si rese conto che per l’altro non era
assolutamente normale vederlo pranzare con persone che aveva conosciuto da poco
o che , come effettivamente doveva pensare Jonathan
stando al discorso di quella stessa mattina, che aveva appena conosciuto.
E i
mali non vengono mai soli.
Jonathan
era solito portarsi appresso uno stuolo di ragazze dalle altre facoltà, ma
quando lei compariva nel gruppo, Eric
aveva sempre la sensazione che nemmeno su Marte avrebbe avuto scampo dalla
presenza costante di quell’essere umano.
« Eric! »
urlò quella: un tifone boccolato biondo con quattro
dita di matita nera intorno agli occhi – approfondiva lo sguardo, diceva – di
nome Sarah Wilkinson.
La sua pseudo-anima gemella barra promessa-sessuale made by McFarland Industries.
Se le
sue parole avessero potuto trasformarsi in qualcosa a contatto con l’aria,
sarebbero molto probabilmente diventare cuoricini.
« Oddio... » sibilò il castano, girandosi di
fretta verso Joshua e fingendo inutilmente di non
averli visti. « Cosa fanno, cosa stanno facendo? » chiese con un filo di panico nella voce, fingendo (male) di
tagliare in micro quadratini la sua fetta di vitello.
« Stanno
guardando da questa parte » rispose semplicemente l’altro, portandosi alla
bocca una foglia di insalata: « puoi andare con loro,
non mi offendo » aggiunse poi.
« Nemmeno
per idea » rispose subito Eric, masticando la carne: « non quando McFarland si porta dietro quella sottospecie di gossip girl ossigenata sperando che io
ci vada a letto insieme! » esclamò, riducendo la voce ad uno stridio monocorde.
Archer
si fece sfuggire un ghigno. « E
non ti piacerebbe? » domandò, come divertito dalla situazione.
« Merda,
no! » esclamò il castano, schifato dall’idea come lo sarebbe stato davanti ad
una vasca piena di fango: « l’hai vista? Sembra uscita adesso dal set di
Beautiful! » commentò.
Joshua
allargò il ghigno fino a farlo sembrare un sorrisetto sbieco. « E allora
ignorali, stanno per andare a sedersi » li informò successivamente,
continuando a mangiare la sua verdura come se il fatto non fosse suo.
E,
effettivamente, non erano affatto affari suoi. Ma
poteva mostrare almeno un po’ d’empatia per un coetaneo, no?
Eric fu per lunghi istanti indeciso se riprenderlo a voce o limitarsi
a lasciar passare. Quello che più lo preoccupava, però, a dir la verità era
proprio McFarland. Aveva la fama di uno che non porta rancore, ma non sapeva esattamente come avrebbe preso
quel suo comportamento alquanto fuori dall’ordinario una volta che si fossero
rivisti a lezione.
Pensandoci,
nemmeno lui sapeva perché improvvisamente andava a pranzo con ragazzi in
maggior parte sconosciuti, con seri problemi di alimentazione
– suvvia, sei un americano adolescente! Non
puoi per legge naturale essere vegetariano! – e
con lo sguardo di ghiaccio.
Il suddetto
sembrò leggergli nel pensiero.
« Non
avrai problemi con il tuo amico? » domandò infatti,
bruciando in un istante tutti i suoi residui di incredulità. Eric cominciò
a pensare che la verdura fornisse superpoteri,
ma per il bene della sua immagine pubblica ebbe la lucidità di non dirlo ad
alta voce.
Rimase
silenzioso, senza rispondere. Stava cercando a sua volta una sottospecie di
premonizione per la quale potesse rispondere che sì,
era tutto a posto. Non la trovò.
E se
ne infischiò altamente.
« Non lo
so, ma non fa nulla » fece spallucce, indaffarandosi
di nuovo sul pranzo: « ci manca solo che un essere umano non possa invitare a
pranzo un altro essere umano per fare conoscenza »
borbottò risoluto, masticando altre due patatine.
Joshua
sorrise alla frase, ma il castano non lo notò.
Passarono
insieme il resto del pomeriggio, nella biblioteca del campus. Eric scoprì con
un certo timore che a Joshua piaceva sul serio
leggere libri, e non libri qualunque: quando tornò al
loro tavolo con un manuale sulla programmazione in linguaggio PHP per pagine
internet dinamiche, capì che la mente del ragazzo era una di quelle poliedriche,
adatte per una conoscenza di tutto su tutto. Il classico tuttologo, con l’unica
differenza che non aveva occhiali da vista e calvizia
incipiente.
Anzi.
Per la
maggior parte del tempo, comunque, uno si limitò a
leggere e l’altro a redigere il saggio in programma per la settimana
successiva. A volte chiacchieravano, fecero una pausa caffè più o meno verso le
quattro – nella quale lui si limitò ad un disgustoso decaffeinato – e ripresero
con lo studio fino alle sei, ora in cui Eric aveva allenamento in piscina.
Luogo in
cui invitò anche Joshua che, caso strano, accettò.
Non sapeva
cosa ci trovasse a vedere venti persone fare avanti e indietro per due ore in
una vasca da venticinque metri. E, sinceramente, si
stupiva di se stesso per avergli chiesto di sottostare a quella tortura.
Ma, a
vederlo dalla vasca durante le pause fra una serie e l’altra, Joshua sembrava tutto fuorché annoiato.
Leggeva il
libricino consunto che quella mattina gli aveva visto fra le mani, oppure
chiacchierava con la solita espressione cortese con la signora al suo fianco –
sicuramente madre di uno dei bambini dei corsi di
nuoto – che creava qualcosa di rosso con quello che sembrava un uncinetto.
Quello che
più lo incuriosiva, era proprio quella sua insana tendenza a non arrabbiarsi o
agitarsi mai. Insomma, due ore in tribuna con ventotto
gradi costanti lasciano anche sui più pazienti qualche segno di nervosismo; su
di lui, invece, nulla.
Non poteva essere solo infinitamente paziente, no.
Nascondeva qualcosa.
Era
l’impressione che continuava a ronzargli in testa da un po’.
« Ottimo
tempo Everald » commentò l’allenatore dal muretto
sopra di lui, distraendolo dalle sue elucubrazioni. Regolarizzando
il respiro affannato, annuì allegro. « Grazie coach »
disse, togliendosi gli occhialini dagli occhi per assicurarseli bene sulla
fronte coperta dalla plastica della cuffia.
L’uomo segnò
un paio di tempi sulla cartelletta con aria decisamente
soddisfatta, picchiettando con la punta della penna sui numeri appena segnati. «
Se continui di questo passo, sono sicuro che l’oro
nazionale per la staffetta mista è nostro » considerò, probabilmente più
rivolto a se stesso che a lui. Satler, dalla corsia a fianco, roteò gli occhi
con l’aria di chi vorrebbe essere ovunque tranne che
lì.
Cominciò
uno sproloquio sui tempi limite delle altre squadre in gara che lui evitò con
la scusa di un crampo, allungandosi sull’acqua per fare duecento metri in
scioltezza. Timoty invece se la sorbì tutta, ma lui ci era
anche abituato, dati i tempi più che buoni con cui era consono gestire le sue
gare.
Una volta terminato lo scioglimento, ebbero tutti il beneplacito di tornare a
casa. L’orologio sopra le tribune segnava le otto e trenta spaccate.
Uscì
dall’acqua issandosi sul muretto, scrollandosi i capelli bagnati nello stesso
istante in cui si toglieva la cuffia. Recuperò le ciabatte e, camminando con
aria stanca verso le tribune, notò Joshua alzarsi dal
suo posto e avvicinarsi alla ringhiera.
« Ottimi
tempi davvero » commentò il ragazzo una volta avvicinatosi, appoggiandosi con i
gomiti e piegando il corpo in una posa che dire sessualmente attraente era un
gentile pseudonimo.
Il suo
cervello non prese nemmeno in considerazione quel suo ultimo pensiero: si
rifiutò e basta.
« Onorato.
Tu non ti sei rotto? » domandò, alzandosi il cappuccio dell’accappatoio sulla
testa per non raffreddarsi il collo.
Joshua
negò con il capo. « Vai a cambiarti, ti aspetto
nell’atrio » tagliò corto, occhieggiando molto discretamente alcuni dei suoi
compagni guardarli in modo insistente.
Anche se,
e di questo Eric ne era convinto, era più la curiosità
di vederlo parlare con il nuovo divo dell’università che l’interesse per la
loro chiacchierata.
In ogni
caso si limitò ad annuire, entrando negli spogliatoi a sua volta.
Non passò
nemmeno dal borsone, deviando subito per le docce. Non aveva voglia di andare a
prendere il suo bagnoschiuma: ne avrebbe chiesto uno
in prestito per risparmiare tempo, e la famigliare confusione nelle docce gli
diceva che almeno la metà della sua squadra stava per dare il via ad una
battaglia a cuffiate di acqua gelida.
Pace,
avrebbe corso il rischio.
Entrò
dunque nel locale vaporoso, in cui almeno sette ragazzi dai fisici prestanti –
erano nuotatori, dopotutto – trovavano di un interesse spropositato palleggiare
con una bottiglia vuota di shampoo, sfidandosi a chi ne riusciva a fare di più senza
farla cadere. Il record sul momento era 1.
Tentò a
sua volta qualche palleggio, fallendo miseramente, prima di infilarsi sotto il
primo getto libero e bearsi dell’acqua calda sulla sua schiena. Sentì i muscoli
sciogliersi all’istante e si convinse, per l’ennesima volta, che non ci sarebbe
mai stato nulla di più rilassante.
Ma
quella pace non era destinata a durare a lungo.
« Ehi
Eric, ci vuoi dire come accidenti fai a conoscere Archer? » domandò Dean Spencer
dal cubicolo di fronte, facendo spuntare la testa insaponata dall’anta azzurra.
Bruscamente
riportato alla realtà, rispose con un’espressione interrogativa che riassumeva
il senso nullo che attribuiva a quella domanda.
« Sì,
infatti » aggiunse però Matt Felton,
tenendo miracolosamente in equilibrio la bottiglietta vuota di shampoo sul piede
destro. « Sarei veramente curioso di sapere come cavolo hai
fatto a parlare con una persona che non ti caga pari nemmeno se ti presenti »
aggiunse. Solo allora Eric ebbe un vago ricordo di quando Matt
si era presentato a lui, quasi un anno prima, e aveva
espresso la sua intenzione – poi pienamente realizzata – di entrare alla
facoltà di Fisica.
Dunque
erano compagni di corso, in definitiva, lui e Josh. E non lo aveva considerato nemmeno di striscio?
Quel
ragazzo dagli occhi indicibili cominciava a dipingere una strana idea di sé.
«
Casualmente, a dire il vero » rispose, soddisfacendo quella curiosità
collettiva: « la prima volta in un pub, la seconda alla festa di una
confraternita del campus. Poi al parco domenica. E oggi abbiamo pranzato insieme » disse, come se parlasse
del tempo o di quel nuovo film uscito da poco.
Argomento
che per lui non si allontanava molto dal livello d’importanza dato alle
previsioni meteo, ma che a tutti gli altri pareva
essere fondamentale per passare una notte priva di incubi.
« In poche
parole vi siete visti assiduamente negli ultimi due giorni » notò infatti un terzo, Jared Walker (secondo anno, Architettura), notando l’unica cosa
che nemmeno lui aveva ancora preso in considerazione.
Ovvero
che Joshua Archer gli fosse
stato appiccicato, più o meno, per due giorni; che passavano a tre se contavano
quello stesso lunedì in procinto di finire.
Lo considerò importante per circa due secondi, poi declassò
l’informazione. Poteva essere, ed era sicuramente, il caso. Dopotutto, stentava
a credere che l’incontro ai giardini non fosse frutto di una coincidenza.
Rispose a
quella folla assurdamente ficcanaso con un’alzata di spalle. Non
che il discorso lo entusiasmasse quanto pareva mandare gli altri su di giri.
Chissà poi perché.
Dopo una
rapida doccia si congedò dalla folla schiamazzante, infilandosi l’accappatoio e
andando a vestirsi. Nonostante le temperature non fossero esattamente miti la
sera non si asciugò i capelli, optando per pettinarli
e lasciarli cadere umidi sul collo e sulla fronte.
Salutò i
ritardatari e, mettendosi il borsone in spalla, uscì dallo spogliatoio a passo
veloce.
Magari
avrebbe invitato Joshua a cena. Non era educato
lasciarlo andare via così dopo che aveva passato con lui tutto il santo giorno; e poi era da un pezzo che non portava qualcuno
a casa. Da quando i suoi amici erano diventati degli spostati, probabilmente.
Certo,
avrebbe dovuto chiamare sua madre con almeno un po’ d’anticipo. Fu per questo che arrivò con la mano alla tasca del borsone
in cerca del cellulare. Avrebbe chiesto subito a Josh
se era libero, e poi gli avrebbe fatto subire la
tortura della cena con i suoi genitori.
Si sentiva
un infame, in realtà. Se c’erano ospiti a cena (che
non fossero di famiglia) suo padre probabilmente non lo avrebbe tartassato con
battutine e allusioni, e lui avrebbe passato una sera che fosse una in santa
pace.
Chiese scusa mentalmente ad Archer,
ridacchiando. Si prospettava una serata migliore del solito.
I suoi
piani si frantumarono nello stesso istante in cui alzò lo sguardo dal
cellulare.
Ebbe la
fugace immagine dell’atrio completamente fermo, immobile, come se il tempo si
fosse bloccato su un solo minuto e lo ripetesse all’infinito. L’espressione imbarazzata della receptionist,
che incrociò il suo sguardo per poi distoglierlo velocemente. Le facce a
dir poco sconvolte di alcuni suoi compagni di squadra,
i cellulari in mano ma lo sguardo che non li sfiorava neanche, bloccato su
altro. Joshua appoggiato ad una parete con le braccia
incrociate, lo sguardo serio che squadrava probabilmente la
stessa cose che stavano osservando tutti.
E suo
padre. Suo padre, in tuta da
allenamento, che urlava, inveiva,
contro il suo coach parole che non aveva ancora avuto
la rapidità di afferrare.
Non si
diede nemmeno il tempo di farlo; l’istinto che fosse qualcosa che non gli
sarebbe piaciuto vinse sul raziocino, e si ritrovò a
sbottare a sua volta, ansioso: « papà, cosa ci fai qui? ».
L’uomo si interruppe, girandosi in sua direzione insieme a molte
altre teste. Aggrottò le sopracciglia e sogghignò, in un modo che gli aveva già
visto addosso ma che non ricordava bene dove e quando.
« Sto
dicendo al tuo allenatore che può anche cancellare il tuo nome dalla lista dei
suoi atleti, così come da quella delle selezioni nazionali. Non metterai più nemmeno un dito in vasca, tu torni a fare
basket » disse, quasi gioendo delle sue stesse parole.
Non ne fu
sicuro, ma sentì qualcosa, da qualche parte dentro di lui, rompersi e cadere in
pezzi.
La
sorpresa lo investì e avvertì il cuore sobbalzare. Poi arrivò l’incredulità,
che gli mozzò il respiro in gola. Infine, facendogli sembrare gli occhi che lo
fissavano come fari di un palcoscenico, una profonda vergogna lo invase.
Lo aveva
fatto davvero.
Davanti a
tutti. Davanti a tutti.
Compagni di nuoto, amici, segretarie e normali passanti. Persino il suo coach.
Si introduceva
nella sua vita, penetrandovi con violenza e senza ritegno, pretendendo di
cambiare a forza ciò che non gli stava bene. Pretendendo di portare tutto sotto
il suo controllo, di riportare lui
fra le sue mani, legato ai fili da marionetta che Eric aveva fatto tanta fatica
a tagliare già una volta.
Era pazzo.
No, peggio, era un pezzo di merda. Ed era suo padre,
Cristo, suo padre...
« No... »
riuscì solo a sussurrare, guardandolo come se la persona davanti a lui fosse un
estraneo troppo invadente.
« Sì
invece » ribatté serafico il padre, scostando lo sguardo sull’allenatore,
sbalordito più o meno come tutti gli altri.
Non ignorarmi, bastardo, pensò con rabbia. Non osare trattarmi come una
marionetta del Mangiafuoco.
« NO! »
esclamò dunque, gustando quella sensazione che, inconsapevolmente, più di tutte
aveva aspettato: l’ira.
E l’adrenalina infettare come veleno il suo sangue, filtrare nei
muscoli ed ingigantire il coraggio a dismisura.
Il silenzio era pesate come piombo, ma non ci badava. Nella sua
testa volavano solo pensieri inconcludenti che portavano appresso una furiosa
vergogna.
Suo padre
lo squadrò, e nei suoi occhi Eric poté vedere chiaramente la goccia che fece
traboccare il vaso.
« Tu non
hai il potere di disobbedirmi, Eric. Io sono tuo padre! » sbottò, riversando su
di lui la frustrazione trattenuta nell’ultimo anno, tramutandola in pura furia
dalla prima all’ultima stilla.
« E io sono un essere umano, cazzo! Maggiorenne per di più! »
urlò lui a sua volta. Non gli interessava se le conseguenze sarebbero state un
disastro, se si fosse ritrovato con la porta di casa chiusa in faccia o con una
mezza faccia livida. Non era più un bambino e non
accettava di essere ancora proprietà di qualcuno!
« Sei
sempre mio figlio e a me va l’ultima parola! »
« TU NON
PUOI PERMETTERTI DI DECIDERE PER ME LA MIA VITA! » urlò, gridò, dando fondo a
tutta la sua voce finché la gola non bruciò nello sforzo di alzare ancora di
più il tono, già al suo limite.
Si sentiva deluso, schiacciato dal peso di un’autorità temuta ed
odiata... ma, più di tutto, sentiva sulla pelle tutta l’ingiustizia di
quel comportamento ignobile da parte del padre.
Si sentiva
schiacciato dall’impotenza. La combatteva, la graffiava con le unghie e ne
mordeva la superficie, ma essa non si spostava da sopra di lui, premendolo a
terra con sempre più forza.
Le parole
di suo padre aggiungevano quel peso invisibile che lo teneva ancorato al
terreno.
« IO
DECIDO QUELLO CHE VOGLIO! E se dico che tornerai al
basket, tu prenderai in mano una palla arancione e ti allenerai nei tiri da tre
fino a che non sputerai sangue! » sbottò il suo ordine, perentorio e
minaccioso, avvicinandosi di qualche passo a lui, che non si mosse.
Non
resistette più.
Poteva difendersi solo in un modo, conosceva solo quello.
Dunque
urlò con più foga. « FOTTITI BASTARDO! »
Fu un
istante.
Non vide
la mano del padre sollevarsi in aria con l’intenzione palese di colpirlo. No,
non la vide proprio.
Era troppo
occupato a racimolare la voce per insultarlo.
Ma vide un
lampo azzurro prima che la sua vista fosse completamente
coperta da un paio di braccia spuntate dietro di lui, che lo spostarono
all’indietro a forza, sbilanciandolo.
Poi,
nient’altro che silenzio.
Quando
riuscì a liberarsi notò la mano del padre sollevata per aria in procinto di
schiaffeggiarlo, bloccata da quella sicuramente più forte del suo allenatore.
Davanti a lui, come scudo fra loro, Joshua si era
spostato dal muro così velocemente che poteva dire di non averlo visto nemmeno
muoversi. Gli dava le spalle, guardando Trent, ed
Eric poté solo immaginare l’effetto di quegli occhi color del ghiaccio puntati
su quelli marroni nel padre, nel tentativo di sondargli l’anima per trovare lo
sporco che la incrostava.
Dietro di lui,
infine, Timoty era colui che lo aveva strattonato,
probabilmente nel tentativo di scostarlo dalla traiettoria del colpo.
Intorno a
loro, solo un silenzioso sbalordimento.
« Janette » pronunciò poi la voce profonda del coach: « chiami il 911 ».
La receptionist sollevò subito il ricevitore del telefono al
suo fianco.
Si
aspettava una nuova scenata isterica dal padre, a quella minaccia. Era coerente
con il suo fottuto carattere, talmente prevedibile da
essere quasi scritta a chiare lettere nel copione del prossimo futuro.
Ma
quel momento non arrivò mai. Trent stava guardando
con puro terrore il viso di Joshua, ed era divenuto
talmente pallido che sembrava sul punto di svenire.
« Smetti
di guardarmi... » sussurrò impaurito, tentando inutilmente di liberare la
propria mano dalla presa dell’uomo alle sue spalle, che non lo lasciava e non
aveva intenzione di farlo.
Perché
ora faceva così? Eppure il ragazzo non parlava, non lo si
sentiva nemmeno respirare.
Ma Trent non sembrava calmarsi, e Joshua
continuava a rimanere in silenzio.
« Smetti
di fissarmi! » esclamò poi, la voce più alta. Tentò con più forza di liberarsi,
ma l’istruttore era molto più forte e lo tenne fermo.
Poi un
passo. Vide Joshua avvicinarsi lentamente a suo padre
fino ad accostare le labbra al suo orecchio, la mano destra portata a sfiorare
appena la guancia dell’uomo. Un tocco così effimero da non sembrare nemmeno
reale, ma Trent vi si ritirò come se quelle dita
fossero fatte di braci ardenti.
« Vattene,
Eric » sentì poi dire al suo orecchio, la voce di Timoty calma ma guardinga: «
Vai da qualche amico a dormire; sparisci, per stasera » concluse.
Nel caos
che si era scatenato nel suo cervello, quella gli sembrò la soluzione migliore.
Anzi, l’unica.
Non si
diede nemmeno peso di parlare, o dire qualcosa. Annuì, un gesto appena
accennato, uscendo a passo svelto.
All’aria
aperta, avvertì subito il famigliare nodo allo stomaco attorcigliargli le
viscere. Gli mancò il fiato e, per istinto, si portò una mano alla bocca. Gli
occhi presero a bruciare, e un insano bisogno di piangere lo invase
improvvisamente e con una violenza inaudita.
Boccheggiante,
iniziò a correre.
Ormai era
buio e del parco si poteva vedere solo fin dove la luce dell’edificio riusciva
ad illuminare.
Fu appena
oltre questo ventaglio luminoso che si fermò, attaccandosi con la schiena al
tronco di un ippocastano particolarmente grosso.
Cercò di
resistere. Si disse di doverlo fare per i suoi diciannove anni compiuti, di non
poter scoppiare in lacrime come un moccioso in preda ad una crisi post-litigata
con i genitori, quando si sente che la vita è ingiusta a prescindere e le
persone che si vorrebbero più vicine sono in realtà
quelle che ti fanno più male.
Ma la
vita era veramente ingiusta. Sul serio le persone che avrebbe voluto vicine non
c’erano, o erano quelle che gli procuravano le ferite
più profonde.
Si sentiva
esattamente così.
E
stava per esplodere e mandare a fanculo il poco
orgoglio che sopravviveva in lui.
Scivolò
con la schiena contro la corteccia ruvida, che sfregò contro la pelle al di sotto della felpa nonostante lo spessore del tessuto.
Si lascò andare finché non fu seduto a terra e,
piegando le ginocchia, poté appoggiarci le braccia e nascondere il volto in esse.
Si morse
il labbro, resistendo all’impulso. Non voleva frignare come un fottuto moccioso.
Nel
silenzio, udì dei passi. Erano lievi, attutiti dall’erba, e si avvicinavano.
Non li
ignorò, ma nemmeno diede segno dell’opposto. Non aveva la forza di fare né
l’uno, né l’altro.
Rimase in
silenzio, ascoltandoli, fino a che il rumore non fu così vicino che fu chiara
la presenza di un’altra persona al suo fianco. Sentì una mano appoggiarsi
appena sulla sua spalla sinistra, stringerla lievemente, prima che una voce
gradita come non mai riempisse il silenzio.
« Puoi
piangere, se vuoi. Va tutto bene... io non guardo ».
Trattenne
il respiro in un singhiozzo; e le parole di Joshua
divennero realtà.
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Finito.
Correggerlo è stata un’agonia peggiore dello scriverlo, davvero.
Faccio
alcune precisazioni prima dei ringraziamenti. La parte su Lewis Carrol mi è stata ispirata da un’altra fic,
lo ammetto, ma giuro che non è un cortese tentativo di plagio. La persona che
l’ha utilizzata legger la fic (anzi, è quella a cui è
dedicata) dunque vuole essere solo un tributo XD.
E ora,
ringraziamenti. Ovviamente ringrazio tutti coloro che
leggono e commentano. In particolare Shichan, che mi ha
commentato il precedente capitolo. Spero che stavolta le descrizioni
siano meno pesanti e, ehi, ci vorrebbe un santo per sopportare Trent Everald.
Dopo
questo capitolo sono sicura che lo odieranno tutti in
massa.
Saluto
tutti gli intrepidi che sono arrivati fino a qui <3
Alla
prossima!