Capitolo
10°
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«Sicuro
di volerci andare?».
«Sì,
sicurissimo. Te l’ho già detto».
Il
silenzio ricadde pesante nell’abitacolo dell’auto e
l’unico rumore era il
sonnolento ronzio del motore e lo sfrecciare delle altre macchine
accanto alla
nostra. Dopo l’ennesima svolta della caotica statale a
quattro corsie che
stavamo percorrendo, ecco finalmente stagliarsi
sull’orizzonte il profilo di Chicago.
I numerosi grattacieli, che facevano a gara per raggiungere il cielo
tinto di
porpora del tramonto, assomigliavano agli alberi scuri di navi con vele
invisibili. Non me la ricordavo così la città,
anche se dall’ultima volta che
c’ero stato era ovvio che fossero cambiate parecchie cose.
Ora la Chicago del
ventunesimo secolo mi salutava con le sue luci colorate e i moderni
edifici di
vetro e acciaio.
«Anche
perché dopo quasi un secolo di latitanza è ormai
ora che il colpevole ritorni
sulla scena del delitto, no?».
Bella
mi gettò un breve sorriso scuotendo la testa, per poi
tornare a fissare la
strada davanti a sé ed ingranare la quarta.
Anch’io sorrisi, tirando un breve
sospiro e tornando a guardare fuori dal finestrino. E improvvisamente,
guardando quella città che un tempo era stata la mia casa ma
che ora mi
appariva così strana, un cumulo di ricordi mi sommerse quasi
con furore. Non
l’avevo mai detto a Bella, ma dopo quasi cento anni ero
contento di scoprire
che quello che avevo sempre classificato come un sogno in
realtà non fosse
tale. Inevitabilmente il mio sguardo tornò a lei, alla sua
fluente cascata di
capelli color cioccolato, il volto a forma di cuore e la carnagione
diafana. I
raggi del tramonto si riflettevano nelle iridi color ocra e per un
attimo
ricordai il loro colore scuro e vellutato di quando era ancora umana,
così
simile a quello degli occhi della ragazza del sogno. Ma che stavo a
dire? Bella
era la ragazza del sogno, che dopo
un
secolo di vagabondaggio avevo finalmente ritrovato
nell’uggiosa cittadina di
Froks. Non è da tutti i giorni che una dolce ed innocente
umana s’innamori di
un vampiro e, soprattutto, di un vampiro tormentato come me. Ma,
nonostante
tutti i pericoli e le difficoltà, i dolori e le ansie
attraverso cui eravamo
dovuti passare, la nostra storia d’amore non poteva che avere
un lieto fine.
Ora che anche lei era un vampiro, avrei avuto tutta
l’eternità per godermi
tutta quella felicità prevista da un sogno e già
assaggiata dagli altri
componenti della mia famiglia. Il tutto sarebbe stato assolutamente
perfetto se
non per un piccolo dettaglio. Come si dice, il passato prima o poi
torna a
bussare alla porta, no? Ed era proprio per quel motivo che ero tornato
a
Chicago con la mia compagna: per regolare i conti con il mio passato.
«Mi
starai vicina, vero?» sussurrai con lo sguardo basso e quasi
in imbarazzo.
La
risatina squillante di Bella mi giunse alle orecchie.
«Ma
certo! Cosa credi che sia venuta a fare? Io ti starò sempre vicina, Edward».
Mi
resi conto dell’insensatezza della mia domanda.
«Grazie per avermi
accompagnato. Ti amo».
Una
ciocca di capelli scuri le ricadde davanti al volto e, se fosse stata
ancora
umana, l’avrei sicuramente vista arrossire.
«Ti
amo anch’io» mormorò.
Arrivammo
al centro della città proprio all’orario di punta,
la sera quando dopo il
lavoro la gente tornava a casa o i ragazzi s’affollavano per
le strade in
attesa di imbucarsi in qualche locale alla moda. Così che
Chicago mi riaccolse
non solo con la sua modernità ma anche con la sua gente.
Ragazzi e ragazze che
ridevano a scherzavano in gruppo davanti a qualche bar, famiglie che
uscivano
dai grandi supermercati cariche di un’abbondante spesa,
negozi nei quali
s’attardavano gli ultimi clienti prima dell’ora di
chiusura, alcune donne
anziane tranquillamente sedute a chiacchierare su una panchina magari
in
compagnia di qualche tenero cagnolino e distinti signori e signore in
doppio
petto che uscivano di corsa dagli uffici dei grattacieli con
un’aria ancora tutta
indaffarata. E i rumori: i clacson, le urla, il chiacchiericcio
confuso, il
tubare di qualche piccione sul cornicione di un vecchio palazzo subito
interrotto dall’abbaiare di un cane, il rombo delle macchine
e lo sfilare degli
autobus, il ronzio sotterraneo della metropolitana… Erano
decisamente cambiate
parecchie cose, mi dissi mentre ci fermavamo davanti al semaforo rosso
di un
incrocio. Nulla di ciò che vedevo mi apparteneva: sarebbe
stato come mettere un
antico Romano nella Roma moderna. Però il mio cuore mi
diceva che in mezzo a
tutta quella novità qualcosa di vecchio come me era rimasto.
Ed era proprio
quello che stavo cercando. Non sapevo con esattezza perché
dopo tanti anni,
dopo che mi ero creato una nuova vita altrove e dopo che avevo perso
del tutto
i legami con quel luogo, avessi deciso di ritornarvi. Be’,
forse… forse perché
dopo essermi finalmente riappacificato con la mia identità,
per completare del
tutto e al meglio questo processo avevo sentito il bisogno di ritornare
là dove
tutto era iniziato. Dovevo dimostrare di non stare più
fuggendo dal mio passato
e forse una volta che avessi accettato anche quella fetta della mia
vita avrei
potuto finalmente mettere i miei tormenti a tacere. E poi
c’era una cosa che
desideravo fare da tempo.
Fortunatamente
trovammo un comodo parcheggio nelle vicinanze. Bella scese rapida dalla
macchina, tutta eccitata da quella nuova
“avventura”. Per me invece…
be’, ci
volle un po’ più di tempo. Mi sembrava ancora
incredibile di ritrovarmi lì e di
sicuro negli anni passati non avevo mai immaginato che prima o poi vi
sarei
ritornato. Presi un profondo respiro cercando di calmarmi, mentre le
gambe
iniziavano a tremarmi, tradendo l’emozione. Mi sforzai di
darmi un tono, giusto
per non preoccupare Bella, e quasi con gesti meccanici presi una
singola rosa
rossa appoggiata delicatamente sui sedili posteriori della Volvo.
L’esaminai
con cura e con un certo sollievo notai che era ancora fresca e il suo
profumo
delicato e soave era pressoché intatto. A quel punto non
c’erano più ragioni
per indugiare. Raggiunsi Bella, che con uno sguardo affettuoso e
compassionevole che mi ricordò immediatamente Carlisle mi
strinse delicatamente
la mano, e insieme c’incamminammo sul marciapiede. Mentre
camminavamo vicini io
non potevo fare a meno di guardarmi attorno come un bambino curioso.
Tutti quei
ricordi ammonticchiati e disordinati che non avevo mai voluto prendermi
al
briga di rivedere, stavano pian piano ritornando al loro posto a ogni
singolo
respiro.
«Da
che parte è?». La domanda di Bella mi ricosse da
quella contemplazione.
Non
risposi subito, ma mi limitai a guardarmi attorno con sguardo perso.
Lessi il
nome della via, ma non mi diceva niente. Poi guardai in fondo alla
strada e
scorsi qualcosa che mi fece sobbalzare: un’alta cancellata di
ferro dalla quale
spuntavano le fronde verdi di alcuni platani. Quel parco…
Ero più che sicuro
che se avessi avuto ancora un cuore vivo, questo si sarebbe messo a
battere
all’impazzata. E come un sogno ad occhi aperti rivedevo le
tenebre inghiottire
due figure pallide e sottili come ombre che si aggiravano davanti
all’entrata.
La prima che saltava senza alcuna difficoltà oltre il
cancello e la seconda che
la guardava allibita e in difficoltà.
«Edward?
Tutto bene…?».
La
stretta di Bella si fece più forte sulla mia mano, mentre
lei alzava su di me
uno sguardo preoccupato. Il fremito che poco prima mi aveva colto
impreparato,
ricomparve, estendendosi a tutto il resto del corpo fino alle mani.
«Edward!
Ecco, lo sapevo, avremmo fatto bene a non venire.
Io…». Il tono di Bella
sembrava allarmato.
Senza
dire una parola, le posi due dita sulle labbra per zittirla e con uno
sguardo
eloquente le assicurai che avevo la situazione sotto controllo. Il suo
sguardo
interrogativo incontrò il mio ancora perso nel vuoto, ma non
le lasciai il
tempo di proferire una singola parola. Le tessere del puzzle stavano
pian piano
tornando al loro posto.
«Da
questa parte» sussurrai e senza tanti complimenti la
trascinai lungo la strada.
Percorremmo
a passo spedito, ma non troppo veloce per non dare
nell’occhio, i vialetti del
parco, a quell’ora ancora affollati di gente. Se non altro,
notai con sollievo,
almeno quel parco non era cambiato affatto dall’ultima volta
che c’ero venuto.
Girai per un po’ in lungo e in largo, cercando di orientarmi.
Anche se quel
parco era pressoché identico a come l’avevo
conosciuto, c’era una bella
differenza a girarlo alla luce del giorno e con la mente lucida. Dopo
che
avemmo ripercorso lo stesso vialetto per la terza volta, scorsi da
lontano due
grossi cespugli di biancospino in fiore, che assomigliavano a un paio
di giganteschi
pupazzi di neve, e una panchina che faceva timidamente capolino. Mi si
formò un
nodo alla gola nel rivedere quella famosa scena di tanto tempo prima,
l’ora
della rivelazione, ed accelerai il passo. Bella continuava a seguirmi
in
silenzio, anche se la sua espressione era sempre più
perplessa.
«Si
può sapere cosa diavolo stiamo cercando?»
sbottò alla fine incorniciando le
braccia sul petto.
«Un
cancello… con dei cipressi… O qualcosa che ci
somigli» risposi ancora
sovrappensiero.
Lei
sbuffò ancora e seguì i miei passi, anche se ora
stavo andando quasi di corsa.
Ero eccitato, preso da una frenesia inarrestabile, un dolore quasi
fisico, come
un cane che ha fiutato la sua preda ma non riesce ancora a scorgerla.
Il tutto
mi procurava una terribile frustrazione.
«Dev’essere
qui… Sì, qui, ne sono
certo…» borbottai più a me stesso che
alla mia compagna. «Magari…».
Mi
fermai di botto e lasciai la frase a metà, mentre tutto il
fiato che avevo nei
polmoni mi abbandonava in un colpo. Il piccolo cancello attraverso il
quale ero
passato quella notte non esisteva più, infatti era stato
sostituito da un
imponente arco di granito pieno di targhe commemorative
dall’aria solenne; ma
riconobbi ugualmente da una parte i due cipressi. Allora erano
rinsecchiti e
morenti, ma adesso, invece, parevano rinvigoriti nonché
accresciuti: sfioravano
quasi la cima dell’arco, abbracciandolo da una parte con le
fronde verde cupo.
Dovevo essermi come pietrificato, perché quando sentii la
mano di Bella posarsi
sulla mia spalla sobbalzai.
«Qui»
annunciai con fermezza. «Sono sicuro che sia qui».
Lasciai
vagare lo sguardo oltre la soglia dell’arco, evitando di
incrociare
l’espressione probabilmente afflitta di Bella: il poco
coraggio che ero
riuscito a racimolare bastava a stento e non potevo permettermi di
farmi
vincere maggiormente dall’emozione. Intanto la mano di lei
aveva preso ad
accarezzarmi la schiena, quasi come per incoraggiarmi.
«Allora
vai» sentii sussurrarmi all’orecchio. «Lei
ti aspetta».
Mi
voltai di scatto verso di lei, allarmato dalle sue parole.
«Tu
non vieni?» chiesi con un tono sgomento. «Bella,
ma… Ma mi avevi promesso…».
Bella
scosse la testa ed abbassò gli occhi.
«Sì, ti avevo promesso che ti sarei stata
vicina. Ma devi andare da lei da
solo, io sarei di troppo. Avrete sicuramente un sacco di cose da dirvi
e… ce la
devi fare da solo. Io ti aspetterò qui».
Rimasi
senza parole per un minuto buono, mentre tra quella matassa disordinata
di
ricordi venivano a galla le parole di Carlisle: “Vai da solo. È meglio che ti aspetti qui”.
Un altro abbandono, un
altro taglio così drastico…
«Io…
non credo di riuscirci. È passato così tanto
tempo…».
Bella
mi prese il mento con forza e mi costrinse a guardarla dritto negli
occhi. «Ce
la farai, lo so».
E
detto ciò mi sfiorò le labbra con un
baciò sfuggente e mi circondò le spalle
con le braccia, per poi spingermi delicatamente verso la mia frontiera.
Rimase
lì immobile, mentre io mi avviavo con passo traballante ed
insicuro. Ma alla
fine mi decisi a raccogliere tutte le mie forze e, con la rosa rossa
talmente
stretta tra le mani che per poco le spine non mi avrebbero trafitto la
pelle,
raddrizzai le spalle e accelerai.
Non
ci misi molto a trovarla, come l’altra volta del resto: i
miei piedi sapevano
benissimo dove condurmi. Seconda fila
terza da destra… Tutt’attorno a me
potevo scorgere monumenti e lapidi
commemorative adorne con fiori e ghirlande che ricordavano tutte le
vittime
della spaventosa epidemia di spagnola che aveva colpito la
città all’inizio del
Novecento. E facevano sembrare quella cosa ancora più
lontana nel tempo, tanto
che mi sembrò incredibile che io, che avevo vissuto
direttamente quello
sterminio, non solo fossi ancora lì ma non fossi cambiato di
una virgola. Come
le tombe, del resto. Attorno il cimitero era stato reso monumentale e
solenne,
un vero gioiello, ma quelle tombe rimanevano le stesse povere, spoglie
e fredde
lastre di pietra che avevo visto nel 1918. Tutte uguali e allineate,
quasi
spettrali alla debole luce del crepuscolo, senza neanche un fiore: ma
d’altronde chi era rimasto che vi potesse portare dei fiori?
Solo io. Con la
coda dell’occhio scorsi sulla sinistra una piccola cappella
chiara dall’aria
triste e spoglia e per un nanosecondo mi sembrò di scorgere
accucciata sugli
scalini dell’entrata una sagoma scura, con le mani incrociate
e gli occhi
chiusi raccolta in preghiera. Peccato che Carlisle non fosse
lì ancora una
volta a sostenermi, pensai. Ma alla fine, dopo numerosi tentennamenti,
arrivai
alla meta.
«E
così rieccoci qua. Proprio come ai vecchi tempi,
pare». Mi guardai attorno: non
c’era nessuno.
Quindi
tornai a rivolgermi alla piccola tomba davanti a me: non me la
ricordavo così
piccola, mi venne da pensare istintivamente. Gli ultimi raggi del sole
giungevano obliqui, disegnando piccole ombre allungate davanti a ogni
lapide. E
quelle poche lettere che tanto tempo prima mi avevano così
tanto spaventato e
sconvolto erano ancora lì, anonime e disadorne.
ELIZABETH
MASEN
? – 2-8-1918
Avevano
perfino dimenticato di mettere la data di nascita della
mamma… Ma d’altronde in
quel periodo i morti erano così tanti e frequenti che era
già tanto che le avessero
dato una sepoltura almeno decorosa. E dopotutto a chi importava chi
era, cosa
aveva fatto, chi aveva amato? Era soltanto un’altra delle
vittime
dell’influenza. L’ennesima. La mia rosa, che
appoggiai con gesti calcolati alla
superficie liscia della lapide, era un piccolo punto color sangue,
quasi
abbagliante, in mezzo a quell’abisso fatto di sfumature di
grigi smorti. Strinsi
i pugni fino a farmi affondare le unghie nelle palme delle mani; avrei
voluto
strappare quella lapide così anonima, buttare
all’aria quella terra dura e
senza un filo d’erba e costruire al loro posto un mausoleo
bellissimo. Ma tutta
questa rabbia per quella noncuranza e pressapochismo svanì
all’istante quando,
sforzandomi di ricordare, scoprii che nemmeno io ricordavo
più la data di
nascita di mia madre. Ne fui disgustato. Ero dunque giunto a quel
punto? Avevo
represso la mia prima vita fino ad iniziare a dimenticarla? Le unghie
affondarono ancora di più nella carne. E per la seconda
volta in cento anni
provai l’impulso di piangere ma, per la seconda volta, non ci
riuscii: le
lacrime s’attardavano sempre lì sotto le palpebre,
ma era come se una barriera
invisibile impedisse loro di scorrere sul mio volto. Per
l’ennesima volta nei
fui frustrato.
«Scusa»
mormorai alla tomba. «Io… mi dispiace».
Alzai
gli occhi al cielo, con un groppo alla gola che frenava i singhiozzi e
le
lacrime che mi appannavano la vista ma si rifiutavano ancora di
scendere. Il
cielo verso ovest si era fatto roseo, segno che ormai il sole era
tramontato
quasi del tutto e dalla parte opposta, dove già avanzavano
le tenebre della
notte, erano spuntate le prime timide stelle, la cui debole luce bianca
riluceva contro quelle sfumature infuocate di arancioni. Socchiusi gli
occhi
fino a non vedere altro che uno strano miscuglio di colori caldi.
«Mi
dispiace di essere stato via così tanto tempo»
continuai a bassa voce. «Mi
dispiace di non essere tornato prima. Mi dispiace di essere stato
così vile. Mi
dispiace di aver cercato di dimenticare. Ma…
vedi… no, non posso affatto essere
scusato per questo… però, credo di non aver avuto
il coraggio di affrontare tutto
quello che mi è capitato. È accaduto tutto
così velocemente… Be’, almeno adesso
sai che Carlisle ha mantenuto la promessa che ti aveva fatto:
è un amico fedele
e si è sempre preso cura di me, proprio come avresti fatto
tu».
Feci
una breve pausa e le miei parole furono interrotte da quel piccolo
singulto che
finalmente aveva avuto il coraggio di risalire la gola.
«Io…
sono ancora qui. E vorrei che anche tu lo fossi. Io, te e il
papà. Mi mancate
tanto. In tutti questi anni mi ero convinto di non sentire la mancanza
di
quello che c’era stato prima. Prima della trasformazione e
tutto il resto. Ma
mi sbagliavo. Come mi sono sbagliato riguardo a molte cose,
d’altronde. Ma
anche se è passato ormai quasi un secolo e mi sono dovuto
ricredere su molte
cose… be’, puoi vedermi anche te: sono rimasto
sempre il tuo bambino, il
ragazzo di diciassette anni che hai amato. Però credo di
essere cambiato almeno
un po’: abbiamo viaggiato tanto, sai, io e Carlisle; e non
solo noi due. Adesso
abbiamo una grande famiglia: ci sono Esme, Rosalie, Emmett, Alice,
Jasper… e
Bella. È proprio lei che mi ha accompagnato qui e, anche se
tu rimarrai per
sempre unica nel tuo genere, credo di aver finalmente trovato qualcuno
che mi
ama come mi hai amato tu. Non saprei davvero come fare senza Bella:
è la luce
che aspettavo di vedere da un secolo».
Quasi
senza accorgermene, come se la mia volontà fosse staccata
dal mio corpo, mi ritrovai
seduto per terra, sulla terra dura del tumulo. Era strano stare
lì a parlare
con una lastra di pietra e mi sembrava ancora più strano che
sotto ai miei
piedi ci fossero le ossa della prima donna della mia vita.
Però non mi
importava di essere in un cimitero a parlare con il vuoto; per me era
come
essere a casa e, anche se lei non mi poteva rispondere, ero certo che
mia madre
stesse ascoltando le mie parole malferme e sussurrate. E magari stava
pure
sorridendo e piangendo di gioia nel vedere da lassù, dove
brillavano le stelle
e bruciava la luce del sole, che suo figlio era finalmente ritornato da
lei.
Improvvisamente mi avvolse un soporifero senso di pace, anche se
sentivo che
mancava qualcosa; ebbi nostalgia del suo abbraccio caldo, della musica
della
sua voce, del profumo dei suoi capelli. Ma non potevo riavere tutte
queste
cose, perché un secolo ci separava: potevo ritrovarle solo
nei miei ricordi,
che dovevo salvaguardare con estrema cura.
«Ti
prometto che non ti dimenticherò mai. Ti prometto che
tornerò sempre, sempre
qui. Lo giuro».
L’ultimo
raggio di sole baluginò oltre gli alberi e il rosso cupo
della rosa si accese
per un attimo come una fiammata.
«Anch’io
ti voglio bene, mamma».
L’orologio
segnava ormai le dieci e mezza di sera quando ritornammo alla macchina.
Il
caldo torrido che ci aveva accompagnato in una di quelle prime giornate
d’agosto a quell’ora si era finalmente attenuato e
la fresca rugiada della sera
mi accarezzava la pelle insieme alla brezza frizzante. Mi sentivo
leggero e
decisamente sollevato, felice nonostante il fondo di malinconia che
quei luoghi
avevano rievocato tra i miei ricordi. Ero certo che ormai nel mio cuore
erano
del tutto sparite quelle cupe zone oscure che avevo sempre cercato di
evitare.
Però, a guardare bene, mi accorsi che c’era ancora
un piccolo neo. Stavo per
aprire la portiera dell’auto quando mi bloccai: mi ero appena
ricordato di una
cosa piccola ma importante. Chissà se forse… no,
era passato troppo tempo e di
certo non l’avrei più ritrovato.
Però…
«Bella»
dissi attirando l’attenzione della mia compagna.
«Non è che potremmo fermarci
da una parte prima di tornare a casa?».
Lei
mi guardò inarcando un sopracciglio. «Che cosa hai
in mente?».
Io
non risposi, bensì mi limitai a rivolgerle un sorriso
sghembo dei miei,
cercando di apparire il più convincente possibile.
«E
va bene» s’arrese lei alla fine ed alzò
gli occhi al cielo. «Sali in macchina».
«Oh,
no, è qui vicino, possiamo benissimo arrivarci a
piedi».
Il
Northwestern Memorial Hospital era un’imponente struttura di
vetro e acciaio,
chiara e luminosa anche di notte perché rifletteva le luci
dell’intera città.
Di certo uno degli edifici più moderni e sofisticati di
Chicago, nonostante
tutto si poteva classificare come ospedale senza molte
difficoltà. Il tipo di
ospedale ben diverso da quello che avevo conosciuto io però,
pensai. E se quel
grande palazzo a dieci o più piani era il manifesto delle
più avanzate
tecnologie mediche, quello che vi stava dietro era, invece, la
testimonianza di
una terribile realtà passata. Aggirando il Northwestern
Memorial Hospital si
potevano scorgere le rovine di un palazzo ben più vecchio,
quasi cadente e dai
colori sbiaditi, che dava proprio sul parco dove eravamo appena stati.
Di certo
non ci entrava più nessuno da anni… E la polvere
accumulata negli angoli delle
numerose stanze vuote, il ticchettio delle zampette dei topi e i
viluppi di
ragnatele non facevano altro che avvalorare questa tesi. I letti e
tutto il
resto del mobilio erano spariti, se non si teneva conto di qualche
tavolo ormai
del tutto rosicchiato dai tarli e un paio di armadi pieni zeppi di
vecchi
incartamenti, di cui molti fogli giacevano ora sparpagliati e
ingialliti sul
pavimento. Non sembrava essere rimasto più alcun segno della
frenesia, dell’ansia,
dei pianti, delle urla e delle preghiere di cui un tempo erano stati
testimoni
quei muri.
«Questo
è…?» disse Bella. Mi gettò
una veloce occhiata e si chinò a raccogliere alcuni
fogli stropicciati.
«Sì,
il mio vecchio ospedale». Lo dissi con una naturalezza quasi
sorprendente, come
se stessi parlando della casa dove ero nato. Ma dopotutto era vero: era
lì che
avevo incontrato Carlisle, lì dove ero rinato.
«Oh».
Il suo bisbiglio mezzo dispiaciuto e mezzo imbarazzato mi giunse da
lontano. E
io, invece, come prima, continuavo a guardarmi attorno come un bambino
curioso,
in cerca di qualcosa che stuzzicasse la mia memoria.
«Doveva
essere un posto molto triste».
Una
smorfia mi sorse alle labbra e risposi: «Non immagini quanto.
Vedere ogni
giorno gente morire di fianco a te… intere famiglie
distrutte… e tu non potevi
farci niente. Potevi solo stare a guardare».
Non
mi ero quasi accorto del tono basso e quasi lamentevole che aveva
acquisito la
mia voce, mentre Bella mi cingeva da dietro e posava un leggero bacio
vicino al
mio orecchio sinistro. Il suo respiro regolare mi sfiorò la
guancia, calmandomi
come una tisana.
«Tanti
giorni tutti uguali, passati aspettando qualcosa che nessuno sapeva
bene cosa
fosse. E la paura… e l’ansia… e la
disperazione…».
Chiusi
gli occhi e mi morsi violentemente il labbro inferiore, cercando di
contenere
quella valanga di emozioni. La stretta di Bella di fece più
forte; sentivo il
suo petto premuto contro la mia schiena, il suo mento delicatamente
appoggiato
contro l’incavo del mio collo. E intanto potevo sentire, come
dal fondo di un
tunnel, le eco dei pianti e delle preghiere sussurrate dai malati, il
bianco
ingrigito dei letti che rifletteva la luce di un sole pallido, una
lunga corsia
lungo la quale d’affaccendavano medici e infermiere. Scossi
la testa nel
tentativo di allontanare quelle sgradevoli diapositive.
«Ma
tu hai conosciuto Carlisle. Sei passato attraverso tutto
questo». Il sussurro
di Bella mi ghermì come un’ancora di salvezza.
«E ora sei qui».
«Sì,
sono qui» ripetei meccanicamente.
Presi
un profondo respiro e mi staccai dal suo abbraccio. Ero
lì… per fare qualcosa.
Con fare ora più determinato e un cipiglio risoluto, mi misi
a frugare tra
tutte quelle carte in disordine: ordini di medicinali, cartelle
cliniche, elenco
dei nuovi pazienti e di quelli deceduti. Ero sicuro che in
quest’ultimo avrei
trovato il mio nome e quello dei miei genitori, ma preferii non
controllare. Comunque
lì non c’era niente che potesse interessarmi, solo
vecchie cartacce. Con
l’aiuto di Bella scandagliai quasi tutto
l’edificio, ma trovai solo polvere e
calcinacci. Ma alla fine, quando ormai stavamo per gettare la spugna,
giungemmo
nell’ala est e una vecchia porta a due battenti fece scattare
qualcosa nella
mia mente. Si apriva su un’ampia e lunga sala del tutto vuota
e in decadenza,
anonima, ma appena la vidi il respiro mi si fece corto e un tremito
s’impossessò delle mie mani, mentre correvo verso
la penultima finestra.
Mi
ci affacciai (ormai i vetri e le imposte erano spariti) e
l’aria della sera mi
portò alle narici l’odore dell’erba
appena tagliata e della rugiada proveniente
dal parco. Era lì. Una strana eccitazione
s’impossessò delle mie membra, quasi
fossi sotto l’effetto di qualche oppiaceo. Mi guardai attorno
con occhi che
dovevano apparire come spiritati e senza calcolare Bella. Ecco,
lì, sì, proprio
lì di fianco doveva esserci il mio letto! E il comodino! Si
poteva ancora
distinguere la sagoma più chiara sull’intonaco
pieno di crepe. Dall’altra
parte, a meno di un metro, doveva esserci, invece, il letto della
mamma. Quindi
anche il mio diario doveva essere lì… Ma non
vedevo niente. Magari l’avevo
messo in uno dei cassetti del comodino ed era andato al macero insieme
a
quello. Emisi un sospiro di sconforto e mi passai una mano sulla
fronte. Ovvio,
Edward, che ti aspettavi dopo cento anni, eh? Bella si era appartata in
un
angolo per non intralciare la mia ricerca e mi scrutava dalla penombra.
Tornai
ad appoggiarmi al davanzale, strizzando gli occhi contro il bagliore
lunare,
con molto sconforto e disillusione nel cuore. Che speranza vana, pensai
prima
di urtare qualcosa col gomito. Scattai indietro colto alla sprovvista e
con il
cuore in gola per la sorpresa. Lì, in un angolo del
davanzale, stava quello che
un tempo lo si sarebbe potuto chiamare libro. La copertina di pelle era
strappata e come corrosa, le pagine ingiallite dal tempo ed avvizzite
dalle
ultime piogge. Di certo appena l’avessi toccato si sarebbe
sbriciolato, pensai.
Ma sfogliandolo scoprii che non era affatto un banale libro,
bensì quel che
cercavo: il mio vecchio diario. Che dopo un secolo era ancora
lì ad aspettarmi.
Un sorriso m’illuminò il viso: era come se avessi
appena ritrovato una parte di
me.
«Trovato?»
mi domandò Bella da lontano.
Io
ebbi a malapena il tempo di annuire distrattamente che già
ero immerso nella
lettura di quelle poche pagine coperte da una scrittura sottile e
lineare, il cui
inchiostro un po’ sbavato le faceva assomigliare ad un
prezioso documento
antico. Uno strano calore mi invase mentre il mio sguardo scorreva
sulle
parole, assaporandone il suono e il significato. E ogni lettera, ogni
virgola,
ogni spazio faceva fiorire nella mia mente immagini su immagini,
ricordi su
ricordi, emozioni su emozioni in un complesso caleidoscopio. I suoni e
le
parole udite mi rimbombavano nelle orecchie, fondendosi in un unico
chiacchiericcio confuso e quasi fastidioso. Era come aprire una
finestra su un
altro mondo. Stavo rivivendo il tutto come in un lungo flashback
mandato avanti
veloce e ne rimasi quasi frastornato, come sorpreso da una ventata di
aria
gelida che aveva minacciato di spazzarmi via.
Mi
chiedo come sta proseguendo la vita al di fuori di queste mura,
perché di certo
sta andando avanti.… Una volta che riuscirò a
rivoltare l’animo di quell’uomo
come un calzino sono sicuro che vi scoprirò qualcosa di
molto più grandioso o
terribile di quanto mi fossi mai aspettato o immaginato… Ma
di certo non avrei
mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato dall’altra
parte, a guardare da
questa finestra… La mamma sta sempre più
male… Ci dicono che dobbiamo accettare
i dolori e gli ostacoli che la vita ci propone ogni giorno: ma a che
scopo?...
E finalmente attraverserò quel mare e saprò cosa
c’è oltre l’orizzonte… Mi ha
riconciliato con ciò che sono e mi ha rassicurato su
ciò che sarò e per questo
non riuscirò mai a ringraziarlo abbastanza…
…
Un’altra cosa che rimpiango è di non aver mai
conosciuto il vero Amore…
Non
seppi con precisione quanto tempo passai in contemplazione di quel
prezioso
manoscritto, poteva essere un’ora come soltanto cinque
minuti. E mentre le mie
mani frementi sfogliavano le pagine scritte come quelle in bianco per
carpire
ogni singolo dettaglio, assetato di un passato che avevo scordato per
troppo
tempo, un tremito mi aveva rapito il cuore, facendomi venire la pelle
d’oca e
il fiato corto. In particolare quell’ultima frase mi aveva
colpito come il
rintocco assordante di decine di campane. Quasi non riuscivo a credere
di
essere la stessa persona che tempo addietro aveva scritto quelle
parole, che
aveva riversato il suo cuore e quelli che credeva sarebbero stati i
suoi ultimi
pensieri in quel diario. Com’era diverso l’Edward
Masen umano dall’Edward
Cullen vampiro… Il primo così fragile e
sensibile, apparentemente disilluso ma
in fondo ancora il ragazzino ingenuo a cui piace sognare ad occhi
aperti, che
crede di conoscere i mali del mondo ma si sbaglia. Il secondo ben
più duro e
grezzo, levigato dagli anni, dai pensieri e dalle esperienze, ben
più realista
e attaccato all’oggettività della vita, disilluso
sul serio, decisamente meno
ingenuo e sognatore, ma forse anche più pessimista. Si
poteva facilmente notare
quanto l’apparente tono severo di quelle parole nascondesse,
invece, ancora
tutta la freschezza della giovane età, quella stessa
freschezza che mancava
alle pagine più recenti del mio nuovo diario.
Però quella frase, quella
speranza poteva costituire un punto d’incontro tra il prima e
il dopo. Speranza
che alla fine, anche se dopo parecchio tempo, si era finalmente
concretizzata
nella ragazza che avevo davanti: quelle parole non potevano che
riferirsi a
Bella. Pian piano, ancora tutto preso da quei pensieri, la raggiunsi
con il
diario aperto tra le mani.
«Ascolta»
le dissi sedendomi accanto a lei sul pavimento polveroso e prendendole
una
mano. «”Non
mi manca l’essere stato amato, bensì
l’amare, il dare
la propria vita per l’unica persona che la merita. Se potessi
vivere per altri
cento anni… ma che dico, anche per un giorno
soltanto… Ho ricevuto, ma non sono
riuscito a dare niente in cambio e per questo mi sento in colpa. Ma
sono sicuro
che se mai avessi incontrato una persona del genere, essa sarebbe stata
la mia
aria, la mia acqua, la mia luce e il battito stesso del mio cuore.
Avrei
attraversato mari e monti per lei, rischiato pericoli inimmaginabili. E
questi
ultimi pensieri li dedico a te, stella mai nata e mai incontrata. Sono
certo
che un giorno o l’altro il mondo conoscerà
qualcuno come te, ma io purtroppo
non sarò lì a stringerti la mano e a sussurrarti
dolci parole all’orecchio. Ma
non importa, perché almeno sarò sicuro che
qualcun altro potrà godere della tua
luce.
Di
certo la più bella e luminosa di
questo universo.” Che
ne pensi?».
Lei
rimase un attimo in silenzio, corrugando la fronte. «Sono
delle belle parole…»
disse alla fine.
«E…?».
«Le
parole che non credo
tu saresti capace
di dire».
«Come
mai? Le ho scritte io».
«Sì,
hai ragione». I suoi occhi brillarono come stelle.
«Però le ha scritte l’Edward
umano del 1918: c’è una bella
differenza».
«Ah!
Sembra che tu stia parlando di un’altra persona!
L’Edward del 1918 è anche
l’Edward che hai davanti, l’hai forse dimenticato?
Ma dico, sono venuto fin qui
per “riconciliarmi con il mio passato”, per
così dire, e tu cosa mi vieni a
dire? Sostieni forse la teoria separatista?».
Così
dicendo riuscii a far spuntare un piccolo sorriso sul suo volto a forma
di
cuore, il cui calore si diffuse anche alle iridi color topazio.
«No, Edward.
Intendevo “ le parole che tu non saresti capace di dire in questo momento”. Tu non hai
rimpianti, non devi sognare qualcosa
che non hai e pensare a come sarebbe stato se ce l’avessi
avuta. Io sono qui:
lo vedi anche tu… Sempre ammesso che io possa vantarmi di
essere… com’era?...
ah, sì, “la stella più bella e luminosa
dell’universo”». E rise ancora, questa
volta come per schernirsi.
Senza
pensarci l’abbracciai con slanciò e con una risata
feci per morderle una
guancia, prima che lei si discostasse dandomi un leggero schiaffo sulla
guancia
e continuando a ridere come una matta.
«Ma
certo che si riferivano a te quelle parole. E a chi altri
sennò?». Le posai un
baciò sull’incavo del collo.
«Wow.
Allora mi aspettavi con largo anticipo!».
Assunsi
un’espressione più seria ed alzai su di lei uno
sguardo pieno di significato,
sussurrando la mia riposta a un centimetro dalle sue labbra.
«Certo. Ti ho
sempre aspettata, ho sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivata
qualcuna
come te. È come se avessi vissuto un secolo intero in attesa
di te… e ci sono
pure varie testimonianze. Oddio, non posso prevedere il futuro come
Alice,
quindi magari non pensavo a te come persona in carne ed ossa, ma
diciamo pure a
un tuo prototipo».
Lei
non disse niente ma si limitò a baciarmi con dolcezza,
mentre io aspiravo a
pieni polmoni il suo profumo vellutato. Alla fine si staccò
da me di qualche
centimetro per guardarmi dritto negli occhi e disse: «Il
signor Edward Masen
classe 1901 poteva scrivere quelle parole con una certa rassegnazione,
mentre
tu non hai ragione di rimpiangere un amore mai trovato. Però
questo non vuol
dire che siate due identità completamente distinte. Sei
cambiato molto è vero,
ma chi non cambierebbe in un secolo? Cambiamo tutti i giorni, tutti. Ma
nonostante tutto posso rivedere in Edward Cullen molti aspetti di
Edward
Masen».
«Del
tipo?» sussurrai mettendole a posto una ciocca di capelli
dietro l’orecchio.
«La
stessa incredibile e disarmante sensibilità,
l’amore tenace per le persone che
ami, i pensieri sempre proiettati verso il futuro e magari intrappolati
un po’
troppo nell’ansia che accada qualcosa di brutto. Sei lo
stesso ragazzo che ha
toccato il cuore di Carlisle, Edward, e ora il mio. Non hai niente con
cui
riconciliarti: hai già tutto qui dentro».
E
così dicendo il suo palmo niveo sfiorò il mio
petto sul lato sinistro, dove
doveva esserci il cuore, che un tempo batteva sonoro ma ormai era stato
zittito
da forze superiori.
«Lo
credi davvero?».
«Sì.
Avevi paura che l’essere diventato un vampiro avesse cambiato
non solo la tua
natura ma la tua intera personalità. E avevi paura di
tornare qui o di
rivangare vecchi ricordi per renderti conto del terribile cambiamento
che
credevi fosse avvenuto. Ma ami ancora tua madre come un tempo, ti
ritrovi in
questi luoghi e riporvi le stesse emozioni di allora: non è
mai cambiato niente
e venendo qui l’hai potuto costatare di persona».
«Hai
ragione» convenni alla fine. «Non Masen
nè Cullen, non umano né vampiro. Sono
semplicemente l’Edward che per tanto tempo ha aspettato la
sua Bella».
La
baciai di nuovo, ma questa volta con più trasporto,
affondando le mani nei suoi
capelli folti e assaporando a pieno lo zucchero delle sue labbra,
magari
sperando che il tempo si fermasse per rimanere in eterno
così. Quanto avevo
sognato, vagheggiato, desiderato quel momento.
«E
alla fine sembra proprio che l’abbia trovata la sua
Bella»
Non c’era nient’altro da aggiungere.
Eh,
sì, con questo abbiamo proprio finito *sigh* Probabilmente
avrete notato che quest'ultimo capitolo è più
lungo degli altri, un po' perchè c'erano molte cose da dire
e volevo che la cosa non avesse un ritmo troppo veloce per permettere a
Edward di "riscoprirsi" (sperando di non risultare troppo noiosa), un
po' perchè continuavo a dirmi che mancava qualcosa e un po'
perchè almeno vi consolerete visto che con questo capitolo
la storia finisce. Ho voluto che fosse Bella ad accompagnare Edward
invece che Carlisle per due motivi: lei rappresenta il "dopo"
là dove Carlisle era stato il "prima" (before) e poi,
diciamocelo, come poteva mancare lei? Per il resto come sempre mi
auguro che anche quest'ultima puntata sia stata di vostro gradimento e
che non vi abbia fatto piangere troppo :) Inoltre se avete domande o
considerazioni da fare eventualmente vi risponderò sulla mia
altra ff su Twilight, ovvero Daddy Eddy (poi magari mi recensite pure
quella ^^). E prima di salutarvi un'ultima cosa: anche se è
l'ultimo capitolo non siete esonerati dal recensire!!!!!
Quindi ringrazio, oltre a tutti quelli che hanno seguito questo ff e
l'hanno messa tra i loro preferiti:
Elfa sognatrice: grazie dello splendido ed originale paragone! Per me è anche molto importante sapere di non risultare troppo noiosa nelle mie numerose divagazioni. Grazie ancora!
Jadis96: eccomi alla fine con l'ultimo chap, perchè, come hai detto anche tu, prima o poi tutte le ff finiscono e prolungarla oltre al dovuto non mi sembrava affatto il caso. Dopotutto anche io devo finire di godermi le vacanze e dedicarmi ad altri progetti! XDXDXD Comunque sono felice di essere arrivata a questo punto. Grazie anche a te!
fields: a dir la verità all'inizio per la parte dei "cento anni di diari" avevo pensato a due chap, perchè credevo che in un solo chap non riuscissi a rinchiudere tutto quello che volevo metterci senza creare confusione: invece alla fine ci sono riuscita ed è meglio così. Anche perchè questa ff, anche per rispondere alla tua domanda, è basata sulla trasformazione di Edward e non tanto sulla sua vita prima di incontrare Bella e dopo averla incontrata. Quel chap mi serviva per coprire la notevole distanza di tempo dalla presa coscienza di essere un vampiro a quando lo accetterà del tutto e ritroverà se stesso (diciamo che ho voluto spiegare anche come mai Ed non parla mai della sua vita da umano in Twilight). Per il resto, be', Bella c'è e mi aspetto un'altra tua bella recensione! Grazie per il sostegno!
Nirva: sì, diciamo che Alice rompe un po' il clima serio e a volte un po' triste che sono stata costretta ad assumere in questa ff... Mi sarebbe davvero piaciuto vedere la faccia di Edward quando aveva scoperto l'intrusione. Grazie e goditi questo ultimo chap!
E per
finire un grazie grandissimo a tutti voi, che avete permesso la nascita
e lo sviluppo di questa ff! GRAZIE!