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Autore: kissenlove    02/01/2020    0 recensioni
Lauren Castle a soli quindici anni era già una stella del lacrosse, sport che praticava fin da piccola, ma il suo sogno s'infrange alla vigilia di una partita importante. Scopre di avere la leucemia ed è costretta a rinunciare alla sua passione per stare costantemente sotto controllo, tra un ospedale e l'altro. Arresasi all'idea di essere un "malato terminale" e di non avere più speranze, trascorre le giornate nella sua stanza di degenza in compagnia di un soldato americano, ormai in congedo, a cui si lega molto. Sarebbe potuta continuare così, per sempre, ma a quanto pare il destino ha ben altri piani...
(ISPIRATO A UNA STORIA VERA.)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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- Questa storia fa parte della serie 'Le corde del cuore'
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~Le Corde del Cuore
ISPIRATA A UNA STORIA VERA
amare per vivere


Temere l'amore è temere la vita,
e chi ha paura della vita
è già morto per tre quarti.


                                                       (Bertrand Russel)



– capitulo 5 – 





Camminare per quei corridoi le dava l'impressione che nulla fosse cambiato. Il banco dell'accettazione alla sinistra, la schiera di sedie vuote stipate in fondo al muro, il via vai di infermieri, medici e barelle, gli sguardi vacui di chi non sa se resisterà alla prossima diagnosi. L'ala nord non piaceva a nessuno. La prima volta era stata scortata da un'infermiera molto gentile che, per tutto il tragitto, le aveva raccontato come una favola ciò che avrebbe trovato una volta dentro. Era solo una ragazzina e aveva così tanta paura che le si aggrappò al braccio implorandola di non lasciarla sola. Non aveva avuto il coraggio di dire a sua madre che quello era il primo giorno della terapia, già aveva faticato per accettare la sua malattia e non voleva peggiorare il suo stato emotivo. Per tutto il tragitto si era imposta di essere coraggiosa, ma trovarsi davanti a quella porta fece piombare nel vuoto tutte le sue certezze, e la paura s'impossessò di ogni fibra del suo corpo. Dora le accarezzò gentilmente i capelli e le regalò un sorriso cordiale, prima di prenderle la manina ed entrare. Tutto il suo corpo tremava quando si stese sul lettino, si mordicchiò il labbro e immaginò di trovarsi in mezzo al campo a giocare una delle partite più difficili. Respirò forte e chiuse gli occhi mentre l'ago penetrava più in profondità e quel liquido le scavava le viscere. "Se vuoi vomitare c'è una bacinella vicino a te, tesoro" le aveva ricordato Dora senza smettere di stringerle la mano. Una lacrima le scese giù per il collo. Pensò di aver fatto la cosa giusta, non avrebbe sopportato di vedere l'angoscia sul suo volto. Sua madre si era tranquillizzata quando il dottore le aveva spiegato che con un trattamento adeguato sarebbe potuta guarire e Lauren non voleva spegnere la speranza con quella visione.
Avete presente quando state combattendo contro un avversario più grande di noi e sentite il corpo tramortito?
Così si era sentita Lauren per tanti giorni: lacerata, distrutta fisicamente e mentalmente, anche se Dora aveva tentato di risollevarla (ma invano). Si era sottoposta a quattro cicli, e quello sarebbe stato il quinto, ma questa volta ad accompagnarla sarebbe stata suo padre. Non pensava che lui potesse tornare così presto e non poteva nascondere la sua felicità. 
" Che ne dici di prendere qualcosa?"
"Stai tentando di tranquilizzarmi come farebbe Dora?"
L'uomo negò con la testa e le strinse un braccio attorno alle spalle. "Ti ricordi cosa mi dicevi da piccola?"
Andrà tutto bene, ricordava queste parole, le ripeteva sempre quando qualcuno stava male. Quando il padre rischiò di morire cadendo a una piattaforma di tre metri mentre stava pitturando una parete o quando Alvin fu operato d'urgenza a causa di un'appendicite acuta. Quando tutto era nero e storto riusciva sempre a risollevare il morale a tutti coloro che le stavano vicino, e Peter sapeva benissimo da chi avesse ereditato quest'altruismo; era felice che la sua bambina gli ricordasse sua madre e che una parte di lei fosse rimasta per proteggerli, ma il pensiero di doverle dire addio non lo faceva dormire.
"Andrà tutto bene", e Peter annuì. "Come tutte le volte, papà. Non ti preoccupare."
La ragazza l'afferrò per il braccio costringendolo a fermarsi mentre già si poteva percepire odore di medicinali, ma soprattutto dolore. Altri malati erano seduti ad aspettare il proprio turno per entrare, e a Peter mancò quasi il respiro. L'uomo si scambiò un'occhiata ansiosa con sua figlia, che invece sembrava impassibile, o dava l'idea di esserlo.
"Però preferisco che mi aspetti fuori"
"Perché?"
Le prime volte stare sola le avrebbe pesato, ma adesso conosceva l'intera prassi e i sintomi e si sentiva abbastanza preparata per affrontare quelle due ore.
"Voglio cavarmela da sola."
"Sei sicura, tesoro? Non voglio che tu sia sola", continuò visibilmente preoccupato.
Lauren sorrise mentre il padre la fissava rammaricato. Per mesi aveva preso il largo credendo di potersi lasciare i problemi alle spalle e che l'oceano potesse lenire la sua sofferenza. Era stato egoista a scaricare le sue responsabilità su una bambina di quindici anni, che aveva avuto il fegato di sottoporsi al trattamento da sola, ma era stata l'unica cosa che gli era venuta in mente, anche se sbagliata. Non c'era ombra di quella quindicenne innocente e piena di sogni, ma di una diciassettenne matura e realista.
Le prese delicatamente le mani. "Mi dispiace, piccola. Sono così fiera di te. Hai solo diciassette anni, eppure stai affrontando questa situazione come nessun altro. Sei una donna ormai, e anche se mi hai chiesto di stare qui, io non riuscirei a farlo. Voglio entrare e stare con te, non m'importa di ciò che potrei vedere."
"Lo so che mi vuoi bene ed è proprio per questo che ti ho chiesto di non entrare. Non potrai fare niente per aiutarmi, al massimo potresti passarmi la bacinella quando darò di stomaco", ironizzò Lauren. 
"Lo farò! Ti passerò la bacinella tutto il tempo e sarò forte."
"Grazie papà, ma... non cambierò idea. Voglio affrontare questo da sola", gli lasciò una carezza sulla guancia mentre Peter chinava la testa fissandosi le scarpe.
Improvvisamente una voce maschile richiamò l'attenzione dei due. Appena Lauren si voltò vide una figura a lei familiare venirle incontro. Il suo amico John, un po' malconcio, mentre si trascinava dietro il lavaggio. La ragazza l'anticipò e gli buttò le braccia al collo. John l'accettò di buon grado non riuscendo a celare il tripudio di emozioni, che gli stava torturando lo stomaco. Era trascorsa una settimana da quando aveva lasciato l'ospedale, e nella stanza era rimasto solo John e un peluche, Billy. John era impaziente di poter parlare con la sua amica, l'unica che in tutti quegli anni era riuscita ad aprire il suo cuore, dopo anni di silenzio e sofferenza. E Lauren le somigliava molto in determinati atteggiamenti.
Appena si staccarono, John gli depose un bacio sulla fronte guardandola paternamente."Oggi hai la terapia?"
Lauren smise di sorridere. John ricordava perfettamente in che condizioni stesse il giorno dopo quando faceva il trattamento: o dormiva profondamente oppure vomitava l'anima, o si lamentava costringendolo a suonare il campanello. L'uomo si limitò ad abbracciarla, le parole erano superflue in quel caso, specie se si era un malato terminale.
"Tesoro, chi è quest'uomo?", esordì Peter avvicinandosi.
Lauren si girò nella sua direzione. "Papà, ti presento il signor John Foster. E' stato il mio compagno di stanza," poi si rivolse all'altro. "Signor John, le presento mio padre: Peter Castle."
"Piacere di conoscerla, Peter," si fece avanti John allungandogli una mano. Peter non esitò a stringerla, osservando gli occhi verdi dell'uomo con una punta di curiosità. "Sua figlia mi ha parlato molto di lei durante la degenza. Ero davvero curioso di conoscerla. E' un marinaio nei mari del Sud Carolina, vero?"
Lauren apparì molto stranita da quell'improvviso cambiamento: di solito non era molto espansivo con nessuno, e gli infermieri faticavano molto per farlo collaborare durante la medicazione. Ma con suo padre sembrava che quell'anziano avesse ritrovato la voglia di parlare su qualcosa che non fosse la malattia ai reni.
"Sì, ho solcato anche quelli," rispose. "Anche mia figlia mi ha parlato molto di lei, ed anch'io volevo incontrarla. Deve stimarla molto."
"Certo che lo stimo molto! Lui mi è stato vicino quando tu eri per mare." s'intromise la giovane.
"Tu esageri. Sono io a doverti ringrazire per questi due anni. Sono stato molto bene." 
"Sono io invece a doverla ringraziare. Lei ha sostenuto mia figlia, e io..." Peter aveva gli occhi completamente lucidi e per poco non scoppiò a piangere. "Potrei..." non terminò la frase e si lanciò nelle braccia di quell'uomo che, non sapeva il perché, ma aveva qualcosa di familiare.
L'uomo ebbe un fremito al cuore quando ebbe il viso di Peter a pochi centimetri dal suo viso. Il passato tornò a ondate nella sua testa: rivedeva quella persona passeggiare fra le bancarelle di un mercato durante il solito giro di ispezione. Ricordò che, da quel momento, l'unico dettaglio che avrebbe associato all'Irlanda sarebbero stati quegli occhi verdi. Ricordò di aver chiesto in giro notizie sul suo conto come un povero illuso, ma era troppo americano e poteva attirare l'attenzione dei nemici. John non avrebbe mai pensato che vedere il marinaio gli avrebbe risvegliato ricordi di un passato ormai morto.






John, nonostante le raccomandazioni dei dottori decise di aspettare insieme a Peter la fine della terapia. Mentre Peter sedeva sulla sedia, quest'ultimo preferiva gironzolare continuando a trascinarsi dietro l'asta. Come ogni volta, Lauren entrò da sola nella sala con il corpo pervaso di ansia. Dal secondo ciclo a farle compagnia c'era sempre stata Megy, spinta probabilmente dal bisogno di aiutarla e darle conforto. La sera precedente l'aveva chiamata per chiedere dettagli sulla sessione di allenamento e l'aveva invitata alla partita di prova e la ragazza aveva accettato. Ormai era stata dimessa e, secondo Megy, doveva smetterla di autocommiserarsi e di chiudersi in camera per la paura di morire, anzi avrebbe dovuto uscire e godersi le giornate! E lei aveva deciso di seguire quel consiglio quello stesso pomeriggio.
Si sdraiò sul lettino e chiuse gli occhi, con le braccia sulla pancia, aspettando l'infermiera di turno. Dopo qualche istante vide il paravento muoversi e la figura di una donna farvi capolino con un sorriso di circostanza. Era molto giovane, probabilmente una tirocinante, che non sapeva ancora nulla di cosa succedeva in quella sala a giudicare dalla sua aria spensierata. 
Le mani della donna tremavano mentre trovava la vena, impresa complicata per una alle prime armi. Prima di allontanarsi fece la sfilza di raccomandazioni. Si avvicinò ad un altro paziente. Il primo lavaggio era quasi finito, quanto poteva essere passato? Trenta minuti o un'ora? Il suo braccio cominciò a gonfiarsi, probabilmente l'ago era fuoriuscito. Man mano che il trattamento procedeva, e il tempo passava, aveva cominciato a manifestare nausea e stanchezza a livello muscolare. Tutto nella norma, ovviamente. Quello che le sue vene stavano assorbendo ERA veleno, puro concentrato distruttivo, e lei doveva fare attenzione ai piccoli tagli per non scatenere emoraggie.
Il malessere si era intensificato quando fece il lavaggio di melfalan. I crampi allo stomaco e alla pancia si erano intensificati. Il suo corpo cominciò con gli spasmi, sempre più violenti, e strinse la presa sulla sbarra del letto, mentre afferrava la bacinella e vi buttava la faccia dentro. Una poltiglia amara uscì dalle sue labbra, e quando ebbe finito si lasciò cadere sullo schienale. Era quasi un miracolo se aveva resistito al quinto ciclo, solitamente un paziente non supera il terzo. Quella sensazione viscida restò nella gola. Chiuse gli occhi, immaginando di essere in una radura meravigliosa, dove sua nonna le teneva compagnia come l'altra volta. I suoi pensieri rosei furono interrotti da un'altra infermiera che aveva adagiato sull'altro lettino un altro paziente. Era la prima volta che condivideva le due ore peggiori della sua vita con un altro paziente e questo la rassicurava. Alzò la testa cercando di capire se fosse qualcuno che conosceva.
Aveva la testa pelata, rivolta a destra, e una garza le fasciava il seno sinistro. Il suo respiro era così flebile che a stento lo sterno si sollevava. "Tumore al seno" fu il pensiero penoso che balzò nella testa della castana. Osservandola attentamente si rese conto che doveva stare malissimo, non aveva neppure aperto gli occhi. Lauren cercò di muoversi, stando attenta al tubo del lavaggio.
"Ciao...", era così sottile quella vocina. La ragazza bendata spalancò a fatica gli occhi, a causa anche della luce asettica che troneggiava sulle loro teste. 
"Ciao. Scusami, ti ho svegliato?" L'altra annuì. Lauren la fissò ancora, nella speranza di poterla scrollare da quella posizione. "Numero fortunato? 5."
"Due." mormorò la piccola.
"Come ti chiami?"
"Anna."
Che bel nome, pensò Lauren, sorridendo. "Il piacere è mio. Sono Lauren."
Era incredibile che fosse così semplice per dei malati chiacchierare senza pensare ai tanti modi di porsi. Probabilmente essere malati dava una spinta in più per conoscere persone che, da sani, non noteresti neppure. 
"Che cos'hai?" 
"Tumore al seno negativo. Mi hanno operato un mese fa." 
"Leucemia a cellule capellute."
La piccola regalò l'accenno di un sorriso. "Non possiamo... di certo lamentarci."
"Hai ragione! Sono due malattie veramente toste, ma sai... io non ho paura."
Ed era vero, lei non aveva paura del male. Lei lo voleva affrontare e sconfiggere. Lei voleva vivere, avere un futuro, ed essere normale.
"Quanti..." tossì Anna.
"Anni ho?" terminò per lei Lauren. "Diciassette quasi diciotto, ma ho scoperto la malattia a quindici."
"Io ho quattordici anni." replicò quando la tosse si attenuò.
"Cosa?!" esclamò portandosi una mano alla bocca stupita. Sentire che una piccola vita, come quella di Anna, stava combattendo per sopravvivere le stringeva il cuore in una morsa dolorosa. Pensava ai familiari, cosa stavano provando quando capivano che la terapia non stava dando buoni esiti. Lei lo vedeva lontano un miglio, Anna era debole, incapace di sorridere o parlare, e le faceva tenerezza. Immaginò Alvin, suo fratello, probabilmente se ci fosse stato lui a quel posto lei non avrebbe retto quel peso. Strinse i pugni mordendosi il labbro.
Possibile che non ci fosse nessuna cura in grado di guarire tutte quelle persone! Eppure la medicina aveva trovato una soluzione efficace: le cellule staminili negli embrioni, ma qualcuno aveva pensato bene di tagliare i fondi e reputare pazzo chi avesse pensato fosse questo che avrebbe salvato le vite dei malati di tumore. Che rabbia. Mentre le vite si spegnevano una dopo l'altra, questi grand'uomini pensavano solo a se stessi e alle loro finanze, certo.

Erano trascorse le due ore e anche il terzo lavaggio era finito. Aveva ancora la nausea, del tutto normale dopo tutto quel medicinale che le avevano sommistrato. Anna, intanto, dopo un breve solliloquio con sè stessa aveva finito per addormentarsi, combattendo in silenzio i disturbi della terapia. Chiamò la tirocinante per il lavaggio e si alzò, accompagnata dalla solita stanchezza e tensioni ai muscoli delle gambe e del torace, sintomi normali con cui ci conviveva ogni volta. Prima di uscire, però, si fermò a guardare Anna, la piccola paziente che l'aveva tenuta compagnia. Aveva gli occhi chiusi e il viso rilassato. Forse stava sognando di stare in un altro posto, o in un'altra dimensione. Le si avvicinò, stando attenta a non disturbarla, e le accarezzò la guancia che considerò tremendamente fredda. 
"Anna, ehi, io ho finito e volevo salutarti."
Nessuna risposta. Le toccò la spalla, scuotendola leggermente, ma il suo corpo era freddo; comprensibile visto che aveva solo un pantalocino che le copriva le gambe e il torace era nudo. "Anna, ehi..." le parlò vicino all'orecchio per poi sollevarsi e scorrere gli occhi sul corpo minuto della bambina, fermandosi all'altezza del petto. Una consapevolezza agghiacciante la colpì come un pugno.
"Anna, svegliati. Non è il momento di scherzare." continuò a scuoterla fino a che non la sollevò addirittura dal lettino, ma la testa ricadde all'indietro. "Anna! Anna, mi senti! Dì qualcosa!?"
Forse le stava facendo uno scherzo, provò a convincersi, presto avrebbe aperto gli occhi e avrebbe gridato "bu" mentre lei sarebbe ricaduta sulla sedia ridendo. Forse stava solo dormendo profondamente. Ma tutti quei "forse" furono ben presto cancellati quando le sue urla attirarono il personale medico. I dottori entrarono uno dopo l'altro, con il defribrillatore, occupando gran parte dello spazio mentre Dora si era avvicinata a Lauren per condurla fuori dalla stanza, il più lontano possibile da quella scena drammatica.
"Che cosa succede!? Io le stavo parlando, Dora! E lei mi aveva pure risposto!" urlò più forte la ragazza, mentre la dolce infermiera le faceva da scudo col suo corpo. 
"Lauren, stai calma per favore. Hai finito la terapia?"
"Ma cosa importa della terapia adesso!", tuonò la ragazza perdendo la sua pazienza. "Io voglio sapere come sta!"
"Lauren... tu sai cosa succede in questi casi. I dottori stanno facendo il possibile."
Nonostante la barriera umana di Dora, Lauren riusciva a vedere come i medici stessero praticando il massaggio cardiaco su quel corpo inerme, e alla ragazza colta dagli spalmi venne quasi voglia di piangere. Davanti a lei, stava morendo una persona.
Dora l'afferrò per le spalle. "Andiamo fuori, non è piacevole vedere questo."
Lauren aveva gli occhi puntati sul dottor Tognetti, accorso con la sua equipé per salvare Anna, ma quando l'infermierà posò il debrillatore e il dottore portò gli occhi sull'orario, alla ragazza cedettero le gambe sul pavimento. 
"Ora del decesso. 14:15."
Lauren si tappò le orecchie scuotendo la testa con violenza, mentre la voce della caporeparto era ovattata. Al suo posto, la vocina dolce e infantile della piccola Anna con cui poco prima in quella stessa sala aveva addirittura scherzato. E ora non rimaneva che un cadavere, un corpo ormai privo di vita, a cui bisognava dare sepoltura. 
"E' morta." Fu la prima parola della castana, quando tornò alla realtà e le voci ripresero ad essere nitide. "Perché?"
"Arresto cardiaco, Lauren." spiegò Dora. "Nei pazienti in stadio avanzato la malattia è più aggressiva, e nel caso di Anna già non c'era più nulla da fare." Confessò.
"Ed io? Anch'io farò la sua fine?"
"No, tu no. Tu sei più forte e la leucemia è tenuta sotto controllo." disse accarezzandola sulla spalla mentre la sosteneva col suo corpo per condurla fuori da quella stanza. Lauren si voltò un ultimo volto per fissare il lenzuolo verde posto sul corpo della bambina, e una lacrima scivolò sul suo viso.

Riposa in pace, piccola Anna.











L'esperienza di veder morire una persona avrà effetti devastanti sulla mentalità della protagonista, e mi dispiace molto per aver sacrificato la piccola Anna - che riposi in pace - ma era necessario. Come potete capire, adesso Lauren verrà travolta dai dubbi, e sarò peggio per lei fare tutto ciò che faceva prima della malattia. Riuscirà a superare le proprie paure sulla morte? Nel frattempo, l'incontro è quasi alle porte, e Adam potrebbe essere la soluzione a parecchi tarli mentali...







 

 
   
 
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