I
Alba
Alba
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Il Munster era famoso per due cose: la prima era il tempo, generalmente
piovoso e poco incline ad accettare sovente i raggi del sole; la
seconda era la Contea di Cork, che – a detta dei
più – era l’unica cosa per la quale
andar fieri d’esser nati nella zona sbagliata
d’Irlanda.
La contea di Cork, il cui nome faceva riferimento al meno celebre appellativo gaelico Corcaigh, era considerata una zona paludosa e inospitale, mangiata dal freddo e dalle cimici verdi, che imperversavano sulle piante come le locuste allorché Mosè assecondò la volontà del Signore[¹]. La triste nomea s’affiancava all’ingiusto pensiero che il capoluogo, sorgendo dalle rive del fiume Lee, non godesse affatto dei privilegi di un suolo ben drenato, e che quindi nulla, nei dintorni della città putrefatta dall’acqua stagnante, potesse crescervi di sano, all’infuori dell’erbaccia comunemente denominata carice.
La carice era una pianta insignificante e inodore, tuttavia famosa per la sua endemica presenza: non v’era luogo, nella contea di Cork, dove i suoi fusti non potessero nascere, schiusi nelle torbiere a far compagnia agli sfagni lacustri e all’erica selvatica, di gran lunga più avvenente e degna d’esser definita pianta, tanto da esser estirpata per divenir egregio decoro ai vasi in vetro delle tenute borghesi più raffinate. Ma per quanto bella e delicata, così alta coi suoi fusti robusti e ornata da piccoli germogli bianchi, l’erica non poteva vantarsi d’esser ovunque; la carice, seppur di natali floreali poco illustri, riposava placida sulle paludi, attorno ai ruscelli, spontanea sorgeva sui rivi silenziosi del Lee e s’assopiva sulle sponde dei laghetti campestri. Per quanto insulsa potesse risultare all’occhio della gente comune, il suo pregio era di poter nascere dove più le aggradava.
A poche miglia dal capoluogo della Contea, v’era un’immensa distesa della varietà brizoides[²], che s’intrecciava ai fusti più robusti della festuca. Lì vicino, divorata lentamente dalla pianta infestante, v’era una magione dai toni pastello che tutti solevano chiamare Sedge[³] Hall – il cui epiteto non avrebbe potuto essere più calzante. Era una vecchia tenuta di caccia dei marchesi del Downshire, che avevano ottenuto il titolo della nobiltà inglese della parìa d’Irlanda[⁴], acquisendo la magione ch’era appartenuta al nobile Florence MacCarthy[⁵] prima della Ribellione di Tyrone[⁶]. Con la segregazione a Londra, ogni suo possedimento fu spartito tra i capisaldi della nobiltà irlandese. Sedge Hall faceva parte di quella ristretta cerchia d’immobili che sobillava non poche controversie burocratiche, per non disquisire delle beghe catastali: sorgeva adiacente alle sponde d’un affluente del Lee, dunque era un edificio spesso oggetto di alluvioni e costretto a continue ristrutturazioni; essendo di proprietà d’un nobile irlandese, molti trovarono inammissibile che fosse stato concesso per privilegio ai marchesi del Downshire.
Nell’estate del 1838 la tenuta venne comprata dai conti Ó Súilleabháin[⁷], che bonificarono l’area intorno alle mura lateritiche e l’affidarono alle cure della famiglia Mór, uno dei rami cadetti del clan che governava la Contea di Cork, quello meno facoltoso e influente, e quindi per effetto meno incline a fomentare dispute d’alcuna sorta. In particolare, il conte era una persona schiva di carattere e poco avvezzo alla vita dei ricchi; sua moglie, certamente una gran brava donna, non poteva esser definita come l’immagine della bellezza eterea, a causa di quella folta capigliatura ruggine e del seno prosperoso che la rendevano, agli occhi degli altri nobili, una “tipica irlandese”. Nel loro matrimonio, uno dei pochi avvenuto per sincero affetto più che per interesse, v’era stata una sola figlia: Abaigeal[⁸].
Abaigeal era nata podalica, il che aveva reso il parto più complicato del previsto; ci impiegò un’intera notte per venire alla luce, e quando la madre la sentì piangere si sentì sollevata, salvo poi scoprire l’orrore riflesso negli occhi dell’ostetrica, nel momento in cui si rese conto delle gambe necrotiche della piccola bebè. La diagnosi venne confermata a qualche giorno dalla nascita: la bambina aveva la spina bifida[⁹], che le avrebbe reso impossibile potersi alzare e camminare. Come conseguenza venne sin da piccola relegata su una sedia a rotelle, che le limitava la maggior parte dei movimenti, ma sulla quale riusciva facilmente a gironzolare per Sedge Hall senza l’ausilio di qualche domestico.
I coniugi Mór non ebbero mai altri figli, carnefici e vittime di quella bambina che, per quanto potessero amare, ritenevano fosse il loro errore più grande. Abaigeal era una donna che non sarebbe mai diventata la sposa di nessun uomo di buoni natali, poiché era storpia e incapace d’esser una brava moglie. Non poteva imparare i mestieri, né tantomeno metterli in pratica. Riusciva a suonare il piano e a intonare l’aria, ma lo stomaco non si riempiva di suoni, né tantomeno la polvere si puliva con le ballate. Ben presto, alle soglie dei suoi sedici anni, s’accorse di quanto in realtà fosse odiata dai genitori: il padre vagabondava per le contee tra un viaggio burocratico ed uno di diletto; la madre, che non poteva addurre la scusa d’essere altrove, l’affidò alle cure di Lady Sadhbh[¹⁰], limitandosi a passare con lei le ore dei pasti, che considerava come le più lunghe della sua giornata.
Abaigeal, per quanto inabile e con la sola compagnia dell’austera balia, crebbe con un’intelligenza davvero singolare. Aveva attitudine per la musica e le arti, mostrando il suo talento nella resa sopraffine della pittura ad olio e dello schizzo a carboncino. Della prima si faceva gran vanto, poiché con essa creava quadri dall’incredibile fascino, che raccontavano storie ben più avvincenti di quelle scritte sui libri; del secondo, invece, ne faceva un semplice hobby, mentre guardava fuori dalla finestra della sua grande camera al piano terra, dove ogni tanto poteva permettersi di uscire fuori al giardino, al limite del sentiero acciottolato. Oltre quel confine scandito da cinque grandi sassi di pietra sedimentaria, la ragazza non era mai andata.
Il mondo, per lei, si riduceva a Sedge Hall e a quello che, nelle belle giornate limpide, riusciva a scorgere da dietro le tende: un mondo affascinante e meraviglioso, che non l’era permesso di conoscere. Di fronte all’ineluttabilità di quello scherzo che il dio Fato s’era tanto dilettato a giocarle, Abaigeal non s’intristiva più del semplice dovuto, finendo quasi sempre per adoprare con crescente entusiasmo l’immaginazione, che certo non le mancava. Attraverso i libri apprendeva, e con la pittura andava lontana, tanto più lontana di Sedge Hall e del prato di carice brizoide, a incrociare il cammino di popoli oriundi, a cavallo d’un frisone dal crine ondulato che la conduceva in luoghi mistici e sconosciuti, alla ricerca di tesori, principesse, fate.
Nello spazio che intercorreva tra la mano che stringeva il pennello e la tela, Abaigeal era davvero libera.
La contea di Cork, il cui nome faceva riferimento al meno celebre appellativo gaelico Corcaigh, era considerata una zona paludosa e inospitale, mangiata dal freddo e dalle cimici verdi, che imperversavano sulle piante come le locuste allorché Mosè assecondò la volontà del Signore[¹]. La triste nomea s’affiancava all’ingiusto pensiero che il capoluogo, sorgendo dalle rive del fiume Lee, non godesse affatto dei privilegi di un suolo ben drenato, e che quindi nulla, nei dintorni della città putrefatta dall’acqua stagnante, potesse crescervi di sano, all’infuori dell’erbaccia comunemente denominata carice.
La carice era una pianta insignificante e inodore, tuttavia famosa per la sua endemica presenza: non v’era luogo, nella contea di Cork, dove i suoi fusti non potessero nascere, schiusi nelle torbiere a far compagnia agli sfagni lacustri e all’erica selvatica, di gran lunga più avvenente e degna d’esser definita pianta, tanto da esser estirpata per divenir egregio decoro ai vasi in vetro delle tenute borghesi più raffinate. Ma per quanto bella e delicata, così alta coi suoi fusti robusti e ornata da piccoli germogli bianchi, l’erica non poteva vantarsi d’esser ovunque; la carice, seppur di natali floreali poco illustri, riposava placida sulle paludi, attorno ai ruscelli, spontanea sorgeva sui rivi silenziosi del Lee e s’assopiva sulle sponde dei laghetti campestri. Per quanto insulsa potesse risultare all’occhio della gente comune, il suo pregio era di poter nascere dove più le aggradava.
A poche miglia dal capoluogo della Contea, v’era un’immensa distesa della varietà brizoides[²], che s’intrecciava ai fusti più robusti della festuca. Lì vicino, divorata lentamente dalla pianta infestante, v’era una magione dai toni pastello che tutti solevano chiamare Sedge[³] Hall – il cui epiteto non avrebbe potuto essere più calzante. Era una vecchia tenuta di caccia dei marchesi del Downshire, che avevano ottenuto il titolo della nobiltà inglese della parìa d’Irlanda[⁴], acquisendo la magione ch’era appartenuta al nobile Florence MacCarthy[⁵] prima della Ribellione di Tyrone[⁶]. Con la segregazione a Londra, ogni suo possedimento fu spartito tra i capisaldi della nobiltà irlandese. Sedge Hall faceva parte di quella ristretta cerchia d’immobili che sobillava non poche controversie burocratiche, per non disquisire delle beghe catastali: sorgeva adiacente alle sponde d’un affluente del Lee, dunque era un edificio spesso oggetto di alluvioni e costretto a continue ristrutturazioni; essendo di proprietà d’un nobile irlandese, molti trovarono inammissibile che fosse stato concesso per privilegio ai marchesi del Downshire.
Nell’estate del 1838 la tenuta venne comprata dai conti Ó Súilleabháin[⁷], che bonificarono l’area intorno alle mura lateritiche e l’affidarono alle cure della famiglia Mór, uno dei rami cadetti del clan che governava la Contea di Cork, quello meno facoltoso e influente, e quindi per effetto meno incline a fomentare dispute d’alcuna sorta. In particolare, il conte era una persona schiva di carattere e poco avvezzo alla vita dei ricchi; sua moglie, certamente una gran brava donna, non poteva esser definita come l’immagine della bellezza eterea, a causa di quella folta capigliatura ruggine e del seno prosperoso che la rendevano, agli occhi degli altri nobili, una “tipica irlandese”. Nel loro matrimonio, uno dei pochi avvenuto per sincero affetto più che per interesse, v’era stata una sola figlia: Abaigeal[⁸].
Abaigeal era nata podalica, il che aveva reso il parto più complicato del previsto; ci impiegò un’intera notte per venire alla luce, e quando la madre la sentì piangere si sentì sollevata, salvo poi scoprire l’orrore riflesso negli occhi dell’ostetrica, nel momento in cui si rese conto delle gambe necrotiche della piccola bebè. La diagnosi venne confermata a qualche giorno dalla nascita: la bambina aveva la spina bifida[⁹], che le avrebbe reso impossibile potersi alzare e camminare. Come conseguenza venne sin da piccola relegata su una sedia a rotelle, che le limitava la maggior parte dei movimenti, ma sulla quale riusciva facilmente a gironzolare per Sedge Hall senza l’ausilio di qualche domestico.
I coniugi Mór non ebbero mai altri figli, carnefici e vittime di quella bambina che, per quanto potessero amare, ritenevano fosse il loro errore più grande. Abaigeal era una donna che non sarebbe mai diventata la sposa di nessun uomo di buoni natali, poiché era storpia e incapace d’esser una brava moglie. Non poteva imparare i mestieri, né tantomeno metterli in pratica. Riusciva a suonare il piano e a intonare l’aria, ma lo stomaco non si riempiva di suoni, né tantomeno la polvere si puliva con le ballate. Ben presto, alle soglie dei suoi sedici anni, s’accorse di quanto in realtà fosse odiata dai genitori: il padre vagabondava per le contee tra un viaggio burocratico ed uno di diletto; la madre, che non poteva addurre la scusa d’essere altrove, l’affidò alle cure di Lady Sadhbh[¹⁰], limitandosi a passare con lei le ore dei pasti, che considerava come le più lunghe della sua giornata.
Abaigeal, per quanto inabile e con la sola compagnia dell’austera balia, crebbe con un’intelligenza davvero singolare. Aveva attitudine per la musica e le arti, mostrando il suo talento nella resa sopraffine della pittura ad olio e dello schizzo a carboncino. Della prima si faceva gran vanto, poiché con essa creava quadri dall’incredibile fascino, che raccontavano storie ben più avvincenti di quelle scritte sui libri; del secondo, invece, ne faceva un semplice hobby, mentre guardava fuori dalla finestra della sua grande camera al piano terra, dove ogni tanto poteva permettersi di uscire fuori al giardino, al limite del sentiero acciottolato. Oltre quel confine scandito da cinque grandi sassi di pietra sedimentaria, la ragazza non era mai andata.
Il mondo, per lei, si riduceva a Sedge Hall e a quello che, nelle belle giornate limpide, riusciva a scorgere da dietro le tende: un mondo affascinante e meraviglioso, che non l’era permesso di conoscere. Di fronte all’ineluttabilità di quello scherzo che il dio Fato s’era tanto dilettato a giocarle, Abaigeal non s’intristiva più del semplice dovuto, finendo quasi sempre per adoprare con crescente entusiasmo l’immaginazione, che certo non le mancava. Attraverso i libri apprendeva, e con la pittura andava lontana, tanto più lontana di Sedge Hall e del prato di carice brizoide, a incrociare il cammino di popoli oriundi, a cavallo d’un frisone dal crine ondulato che la conduceva in luoghi mistici e sconosciuti, alla ricerca di tesori, principesse, fate.
Nello spazio che intercorreva tra la mano che stringeva il pennello e la tela, Abaigeal era davvero libera.
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NOTE:
[¹] Riferimento all'ottava piaga d'Egitto.
[²] Varietà del genere Carex (Linneo, 1753).
[³] Il corrispettivo inglese di carice. Ho preferito lasciare il nome inglese ai fini della storia.
[⁴] La creazione di una nobiltà sorta durante la monarchia irlandese, ma sotto la giurisdizione formale del re d’Inghilterra, che ne faceva da garante.
[⁵] Fu un nobile irlandese del XVI secolo fu l'ultimo uomo a reclamare, con un certo diritto, il titolo di capo del Clan MacCarthy prima che gli inglesi lo sopprimessero (Wikipedia).
[⁶] Conosciuta come la “Guerra dei nove anni” (1594-1603), fu combattuta tra le forze gaeliche dei capostipiti irlandesi e il governo inglese di Elisabetta I d’Inghilterra. L’apice del conflitto fu nell’Ulster, ma molti dei possedimenti dei capi che vi avevano preso parte erano nella zona sud-occidentale dell’isola.
[⁷] Pronuncia: O’Sullivan. Ho preferito lasciare in scrittura la dicitura in irlandese, così come i nomi.
[⁸] Pronuncia: Abigail.
[⁹] È una malformazione neonatale dovuta alla chiusura incompleta di una o più vertebre, che quindi porta ad una compromissione del midollo spinale.
[¹⁰] Pronuncia: Saiv.
[¹¹] In realtà, l’ultimo sovrano indipendente del clan degli Ó Súilleabháin fu Donal Cam O'Sullivan Beare, morto nel 1618. Da quella data in poi, il clan degli Ó Súilleabháin aveva legami con gli esponenti della monarchia inglese.
[¹²] Riferimento alla Divina Commedia di Dante.
[¹³] Più famosa come “berretta del prete”. I suoi rami servivano – e servono tuttora – per la realizzazione del carboncino.
[¹⁴] Riferimento agli Oneiroi: Morfeo, Fobetore e Fantaso. Erano i figli d’Ipno, dio del sonno, e della Notte. Avevano il compito di plasmare i sogni dei mortali nell’Antica Grecia.
[¹⁵] I Celti d’Irlanda.
[¹⁶] L’attuale Cavehill, una collina d’origine basaltica che s’affaccia su Belfast.
[¹⁷] Popolazione dell’Irlanda nord-orientale, diede il proprio nome alla provincia dell’Ulster.
[¹⁸] Composizione basaltica sulla costa nord-orientale dell’Irlanda.
[¹⁹] Erano i dialetti irlandesi, che molti consideravano promiscui con quelli inglesi.
[²⁰] Ho scelto consapevolmente di far parlare il personaggio in questo modo, proprio perché non ha avuto alcun tipo d’istruzione, quindi s’affida a frasi del volgo.
❝ Lo sclero di ℰver❞