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Autore: Adeia Di Elferas    05/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Voglio venire anche io.” una voce fece voltare la Sforza proprio mentre attraversava il porticato, al riparo dalla pioggia, per andare alle stalle.

“Chi siete?” chiese la donna, scrutando il soldato che l'aveva fatta fermare e trovando in lui qualcosa di familiare, per quanto non riuscisse a riconoscerlo.

“Mi chiamo Niccolò Marcobelli.” rispose l'uomo, improvvisamente guardingo: “Vengo da Forlimpopoli, sono arrivato qui qualche settimana fa assieme al banchiere Pietro Paolo Zuntine, Berto di Berto, e allo speziale Andrea di Marchino.”

Caterina ricordava, di tutto l'elenco, solo il banchiere e lo speziale, mandateli, in effetti, da suo fratello Piero proprio per aiutarla l'uno con i conti e l'altro con le medicine. Non era stata messa al corrente, però, che nel gruppetto giunto da Forlimpopoli ci fosse anche un Marcobelli.

Ignorando la consueta confusione che faceva pulsare il cortile di vita, la Tigre si ritrasse, in modo impercettibile, ma abbastanza da essere notata dal suo interlocutore. Una sorta di sottile e infida paura le attanagliò il petto, tanto da costringerla a respirare un paio di volte molto a fondo, prima di ritrovare la parola.

“Perché siete qui?” chiese la Contessa, non trovando di meglio per esprimere la sua perplessità, cercando, tuttavia, di non smascherare troppo la repentina ansia che l'aveva presa.

“Perché voglio combattere per voi e sdebitarmi.” rispose il giovane, sollevando il mento.

“Sdebitarvi?” la Leonessa restava a distanza di sicurezza, guardandolo alla luce malferma delle torce a mure come se avesse davanti un fantasma.

Finalmente capiva perché le era così familiare, pur non conoscendolo. Anche se più marcati e irregolari, quel Niccolò aveva più o meno gli stessi tratti di Ludovico Marcobelli, il ragazzo che lei stessa aveva ucciso a mani nude all'indomani della congiura in cui era stato assassinato il suo Giacomo.

“Io ho sterminato la vostra famiglia.” mise in chiaro la Tigre, rigida: “Il tuo posto non è qui.”

“Voglio ristabilire il nome della mia famiglia. Non deve restare legato a un atto spregevole come quello di cui si sono macchiati alcuni miei parenti.” si affrettò a dire l'uomo, seguendo la Sforza, che aveva ripreso a camminare per sottrarglisi: “Lasciatemi uscire in batteria con voi, stanotte!”

“Mi dispiace.” tagliò corto la Contessa, capendo che, senza maniere sbrigative, non si sarebbe scrollata di dosso quel Marcobelli tanto in fretta: “Questa notte ho deciso di portare con me solo dei forlivesi.”

“Ma io lo sono.” ribatté lui, mentre già erano all'entrata della stalla: “Prima di rifugiarmi a Forlimpopoli per sfuggire alle vostre repressioni io...”

“Basta.” lo interruppe imperiosa la donna, infilandosi l'elmo: “Avete detto che volete combattere per me. Mi sta bene. Ma per farlo, prima di tutto, dovete imparare a obbedire agli ordini. Ho detto che stanotte non uscirete e basta. Non osate discutere le mie decisioni.”

Solo a quel punto Niccolò Marcobelli desistette. Era come se quelle frasi secche l'avessero placato, dandogli una nuova sicurezza. In un certo senso, vedersi trattare con la stessa ruvidità con cui la Leonessa trattava tutti gli altri gli fece capire di essere stato accettato.

Caterina non gli rivolse più la parola, né lo guardò. Recuperò il suo cavallo e controllò che fosse bardato a dovere per la battaglia. Chiese a uno degli stallieri di tenerlo pronto e poi andò nella sala delle armi.

Gli uomini che aveva scelto per quella sortita erano già tutti pronti o quasi. Solo una mezza dozzina stava ancora decidendo che armi utilizzare per quello scontro.

“Roba leggera – suggerì la donna, rispondendo alle perplessità di alcuni di loro – ma prediligete armi lunghe, in modo da non dover smontare da cavallo. Dobbiamo essere veloci.”

La Sforza decise di prendere con sé unicamente lo spadone a due mani e un pugnale, nel caso fosse stata costretta al corpo a corpo. Una lama importante come quella che aveva scelto non sarebbe stata adatta al tipo di attacco che aveva pianificato, ma lei sapeva di essere in grado di maneggiarla usando un'unica mano, e quindi era certa di essere in grado di calare i fendenti e, allo stesso tempo, di tenere saldamente le redini del suo purosangue.

“Lo vedi quello?” sussurrò a suo fratello Alessandro, che era accorso nell'armeria solo per vedere come stavano andando i preparativi.

Lo Sforza occhieggiò verso Niccolò Marcobelli, in piedi vicino a una delle colonne del porticato, con l'aria di qualcuno che non sapeva cosa fare del proprio tempo.

“Tienilo d'occhio.” ordinò la Tigre: “Se fa o dice qualcosa che non ti torna, fammelo sapere subito o parlane con il castellano.”

Alessandro annuì e poi le chiese: “Credi davvero che riuscirete a portare un gran danno ai francesi?”

La donna scrollò le spalle e, proprio mentre il cielo veniva squarciato da un fulmine degni di un temporale estivo e non di un piovasco dicembrino, ribatté: “Pochi o tanti, stai tranquillo che stanotte moriranno più francesi che forlivesi.”

 

Bianca guardava in silenzio fuori dalla minuscola finestrella della cella da monaca che le era stata concessa. Fuori, Firenze era battuta da una pioggia fine e fittissima, simile a una coperta fatta d'acqua, che sembrava voler annegare l'intera città.

La Madre Superiora l'aveva accolta con molto calore, dimostrandosi estremamente pratica e sanguigna, per essere una donna votata alla clausura. Le aveva spiegato che avrebbe fatto vita ritirata anche all'interno del monastero, per non sollevare domande nelle monache più pettegole, e per minimizzare l'attenzione verso di lei.

Così le aveva fatto sapere che avrebbe consumato i pasti in camera, e che, in linea di massima, sarebbe uscita pochissimo dalla sua cella, almeno per i primi tempi. La Riario aveva accettato abbastanza di buon grado tutte quelle restrizioni, dato che si era preparata mentalmente a misure simili. Tuttavia aveva fatto una richiesta molto esplicita: oltre a Giovannino, voleva poter tenere con sé anche Cornelia.

“Se ne occupano senza problemi le nostre consorelle.” aveva fatto presente con un certo piglio Suor Elena, la Badessa: “Se dovessi togliere loro l'incarico, se ne chiederebbero il motivo.”

“Le monache non hanno fatto voto di ubbidienza?” aveva allora chiesto Bianca, cercando di convincerla: “Cornelia è mia nipote, la figlia di mio fratello. È qui senza sua madre e suo padre non è... Non sarebbe un buon padre, nemmeno se fosse qui con lei. Permettetemi di prendermene cura, vi prego.”

“E va bene...” aveva ceduto, abbastanza in fretta, l'altra: “Spero che suor Ubbidienza non se la prenda a male...”

E così la Riario si era vista recapitare direttamente alla cella la bambina, accompagnata dalla suddetta monaca che, nel lasciare Cornelia a Bianca, si sprecò in raccomandazioni di ogni tipo, quasi fosse lei la madre della piccola.

La nipote era parsa alla zia molto simile a Ottaviano. Aveva indubbiamente i suoi tratti e, anche se aveva più o meno l'età di Giovannino, si poteva già intravedere in lei la medesima espressione del padre. Solo i capelli, molto folti e scuri, dovevano essere stati ereditati spiccatamente dalla madre.

La piccola e lo zio quasi coetaneo si erano subito messi a fissarsi e poi, nel giro di un paio d'ore, sembravano aver già fraternizzato, benché alla loro età fosse impossibile vederli giocare assieme.

Aveva provato a leggere loro qualcuno degli esperimenta scritti nel ricettario di sua madre, ma aveva dovuto smettere, non perché i bambini non ascoltassero rapiti, ma perché lei, nel vedere le parole vergate dalla Tigre, era stata assalita da una profonda nostalgia e non era più riuscita a spiccicare parola per quasi mezz'ora.

In quel momento, mentre la Riario guardava a tratti fuori dalla finestrella, cercando di intravedere quel poco che poteva del profilo altero e superbo di Firenze – una città che non aveva avuto modo di cogliere appieno nel tragitto tra palazzo Scali e il monastero di Santa Maria delle Murate – i due bambini dormivano beati in un lettuccio messo accanto al suo.

La Superiora si era scusata con lei per la semplicità dell'alloggio che poteva fornirle, ma Bianca era stata ben lieta di poterle assicurare che, dopo anni passati in una rocca da soldati, quella cella era perfetta per lei.

Sospirando, la ragazza smise di inseguire le ombre della notte tra la pioggia e il vetro appannato, e si mise a osservare il fratellino e la nipote alla luce incerta delle due candele che teneva sulla scrivania. Le faceva un effetto strano pensare che Cornelia fosse figlia di Ottaviano. Si sentiva legata a lei, benché la conoscesse veramente da pochissimo tempo, e aveva il presentimento che non si sarebbero mai più allontanate.

Con lentezza, la Riario si sedette sul letto e poi, tenendo le mani intrecciate sul ventre, si coricò, mettendosi a guardare il soffitto. Non riusciva a dormire. Era tesa, benché sapesse di aver davanti mesi o forse anni di immobilità. Non sapere che stesse accadendo a Forlì le dava la nausea e le faceva girare la testa.

Si sforzò di non pensarci, dato che, comunque, non poteva far nulla se non aspettare. Così si trovò subito attanagliata da altre domande e altri dubbi.

La presenza dei due bambini nella sua camera la portarono a chiedersi se mai avrebbe avuto una famiglia sua, dei figli suoi, una casa, una vita e un marito da amare, da amare davvero e non da usare solo come un mezzo per scoprire se stessa, com'era stato, invece, per il soldato con cui aveva passato la sua ultima notte a Ravaldino. Era sicura di volere tutte quelle cose.

Decisa a provare a dormire, la ragazza si alzò ancora un momento, spense con un soffio le due candele e poi si infilò sotto le coperte. Lasciò che i ricordi la cullassero per un po' e poi, quando si rese conto che non sarebbe riuscita a chiudere occhio, si mise a pregare. Per sua madre, prima di tutto, poi per i suoi fratelli e, infine, anche per il ragazzo che si era presa come amante l'ultima notte trascorsa a Forlì. Non sapeva se fosse ancora vivo o meno, ma sperava con tutta se stessa che, in ogni caso, il suo ricordo l'accompagnasse in quella notte.

 

La fila di soldati a cavalli guidata da Caterina aveva attraversato il ponticello con lentezza, per non far rumore, perfettamente mascherata dalle armature brunite e dalla pioggia, fitta e incessante.

La Sforza teneva le redini con fermezza, sentendo il peso dello spadone sulla schiena. Ogni suo senso era allerta, il cuore batteva rapido e i polmoni si riempivano di aria gelida, mentre ogni suo muscolo si tendeva, pronto all'azione.

Ricordava bene la prima volta che era scesa in battaglia, la fremente incoscienza che l'aveva portata a indossare l'armatura per supplire le mancanze di Girolamo e poi la sensazione di essere trascinata in una tempesta nel momento stesso in cui Virginio Orsini dava l'ordine di carica...

Ora la scossa che avvertiva lungo la schiena era molto diversa. Era lei a comandare, lei a decidere e lei a essere responsabile. Non era più una dei tanti che seguivano l'onda. Era lei a ordinare che si alzasse la marea.

Avevano concordato accuratamente prima che zone andare a colpire, tuttavia la Contessa sapeva quanto fosse importante guidare i suoi uomini mettendosi alla loro testa.

Osservando con attenzione dai camminamenti, avevano capito che una certa parte di francesi aveva preso possesso di un quartiere abbastanza vicino a Ravaldino. Molti, malgrado il clima avverso, avevano approntato addirittura dei bivacchi per strada. Sarebbe stato facile colpirli, e poi, una volta scatenato in loro il panico, sarebbero dilagati nelle case per qualche minuto, uccidendo tutti i soldati francesi che avessero trovato. Dopo di che, senza bisogno di un ordine preciso, si sarebbero radunati di nuovo in strada e sarebbero tornati di corsa alla rocca.

Mentre ripassava mentalmente il piano, Caterina si accorse di essere arrivata all'angolo della strada che avevano deciso di attaccare. Si calò la celata. Il ticchettare costante e ritmato della pioggia contro l'elmo copriva qualsiasi altro rumore.

Prese con cura lo spadone e lo strinse in pugno, tenendolo per il momento basso e poi, dopo un paio di respiri profondi, fece un cenno con la mano e diede un forte colpo di speroni al suo stallone.

Da quel momento, tutto divenne più confuso. I francesi vennero trovati del tutto impreparati. Molti di loro dormivano, la maggior parte erano anche ubriachi per gli eccessi che si erano permessi la sera prima, banchettando con tutto ciò che avevano trovato saccheggiando le case dei forlivesi.

Caterina colpiva quasi alla cieca, mulinando la spada e tenendo a bada il suo purosangue, che si alzava sulle zampe posteriori ogni volta in cui qualcuno cercava di reagire ai colpi della Sforza.

La strada si stava trasformando in una bolgia infernale. Le grida dei soldati si mescolavano, le imprecazioni in francese si univano agli incitamenti in romagnolo e tutti si agitavano come un sol uomo, lottando per la vita.

La Tigre sentiva il proprio corpo muoversi automaticamente, seguendo mosse che, in anni di allenamento, aveva perfezionato fino allo sfinimento. Capiva come non mai l'importanza, per un guerriero, dell'addestramento. In un momento concitato, non c'era tempo per pensare: le braccia, le gambe, il busto, la testa, ogni parte di lei doveva sapere a prescindere cosa fare.

La donna vedeva confusamente i suoi compagni. Riconosceva a stento, tra la pioggia e il buio, il profilo dell'elmo squadrato di Scipione Riario, e poteva vedere come il giovane stesse falcidiando come un Dio della morte una avversario dopo l'altro con la sua lunga lancia. Riconobbe anche Angelo Laziosi, e lo vide appiedato, ma ancora intento a battersi valorosamente.

A un certo punto, si trovò davanti Andriolo Stambacia e Roso da Zantale, entrambi muniti di mazza, perfettamente coordinati l'uno con l'altro nel colpire i pochi nemici che avevano fatto in tempo a trovare un'arma e contrattaccare.

L'attenzione della Contessa, però, si allontanò in fretta dai due forlivesi. Dovette scansare all'ultimo secondo un dardo che era stato scagliato in sua direzione e, nel farlo, rischiò di perdere l'equilibrio e venire sbalzata di sella.

Il suo cavallo si dimostrò un ottimo alleato, e mantenne la calma, ma dopo quel soffio mortale che le aveva sfiorato l'elmo, la Leonessa cominciò a sentirsi estranea alla realtà che la circondava e divenne tutt'uno con la confusione della battaglia.

La pioggia che batteva sull'armatura, il braccio che doleva ogni volta in cui il colpo sferrato trovava il bersaglio, il brivido nel vedere confusamente qualche compagno cadere da cavallo e non rialzarsi, l'ancestrale trionfo nel veder morire il nemico, gli schizzi roventi di sangue che riuscivano a passare anche attraverso la celata calata, gli zoccoli del suo stallone nero che scivolavano sulla via fangosa che iniziava a coprirsi di sangue, l'odore di terra bagnata e del sangue, il sangue sempre il sangue...

Trovandosi accecata da un improvviso schizzo caldo fuoriuscito dalla gola tagliata di un nemico che aveva appena cercato di disarcionarla, la Tigre fu costretta ad alzare la celata, per cercare di tornare a vedere e respirare. Sputò un paio di volte, per togliersi dalle labbra il sentore ferroso che ormai le riempiva le narici e l'anima e poi, vedendo come dal fondo della strada stesse arrivando qualche gruppo di uomini molto meglio organizzato rispetto ai francesi che avevano attaccato, decise che era tempo di chiamare il rientro.

“Alla rocca! Alla rocca!” iniziò a gridare, facendo voltare il purosangue e sollevando lo spadone per farsi notare: “Alla rocca!”

In breve, sentì anche altri ripetere il suo ordine e capì di essere stata ascoltata. Si permise, quindi, di abbassare il braccio della spada, ormai così indolenzito da essere diventato quasi insensibile, e si concentrò sul tracciare per i suoi uomini la strada più breve e sicura per tornare a Ravaldino.

Non era ancora in vista dell'uscita del quartiere in cui avevano attaccato, quando rivide Laziosi che, strenuamente, continuava a dar grandi colpi di spada a tutti, ma, essendo senza cavallo, non sapeva come fare a scappare.

“Angelo!” gridò Caterina, facendo rallentare il purosangue.

L'uomo, rimasto anche senza elmo, sentendosi chiamare, cominciò a guardarsi attorno. Quando vide la Contessa, cominciò a correre verso di lei.

Senza lasciare le redini, la Leonessa tese un braccio verso di lui e l'uomo riuscì ad afferrarlo. Per tirarsi in sella a quella velocità e con il peso dell'armatura a gravargli addosso, Laziosi dovette fare uno sforzo enorme, così come dovette farlo anche la Tigre per non venir trascinata a terra da lui.

Quando Angelo riuscì a sistemarsi alle sue spalle, precario, ma in salvo, le gridò nell'orecchio: “Io vi devo la vita!”

“La guerra sarà ancora lunga – ribatté la Sforza, battendo i talloni sui fianchi della bestia, che correva già tanto da perdere aderenza sul terreno scivoloso – avrete tempo di sdebitarvi, ma ora badate solo a tenervi!”

L'uomo le diede silenziosamente ragione e, aggrappandosi senza remore a lei, non disse più nulla.

 

Galeazzo si svegliò di soprassalto. Era stato come se qualcosa gli fosse passato veloce accanto all'orecchio, sibilando. Un dardo o una freccia...

Si mise a sedere sul letto e scoprì di avere il camicione da notte fradicio di sudore. Aveva il cuore che batteva veloce e il respiro un po' affannoso. Con difficoltà, cominciò a ricordare cosa avesse sognato. Era in mezzo a una battaglia, con indosso l'armatura, e sua madre combatteva assieme a lui.

Si era svegliato solo quando aveva visto qualcuno puntarlo e cercare di colpirlo. La paura lo aveva strappato al sonno.

Cominciando lentamente a calmarsi, il ragazzino tese l'orecchio. Fuori pioveva ancora e la stanza che Alessandra Scali gli aveva dedicato era avvolta dalle tenebre. Il baldacchino del suo letto, un orpello a cui non era abituato, gli sembrava quasi il coperchio di una catacomba.

Sapeva che, chiudendo gli spessi tendaggi, avrebbe potuto avere un po' più caldo, ma, quando aveva provato a farlo, si era sentito così in trappola da decidere di non farlo mai più. Aveva passato troppi anni a dormire su un lettuccio da popolano, per abituarsi a un lusso simile.

Mettendosi a sedere sul letto, pensando che forse bere un po' d'acqua l'avrebbe aiutato a tranquillizzarsi una volta per tutte, il Riario intravide i suoi pochissimi averi ammonticchiati sul tavolo contro la parete. La Scali gli aveva donato degli abiti che erano stati di suo fratello e gli aveva promesso che, quando i tempi fossero stati più maturi, gli avrebbe anche permesso di continuare il suo addestramento militare. Tuttavia, per il momento, ciò che Galeazzo portava con sé erano qualche vestito, un paio di piccole armi, e i guanti che un tempo erano appartenuti a Giovanni.

Lasciando il suo giaciglio, il Riario si infilò le brache e i calzari e andò alla porta. Non voleva essere visto da nessuno, mentre andava nelle cucine, perché non aveva idea di come comportarsi in una casa del genere. Alla rocca, non ci sarebbe stato nulla di strano, per lui, nell'andare di notte a cercare qualcosa nella dispensa della cuoca, ma in quel palazzo vigevano regole diverse da quelle che avevano governato per anni Ravaldino.

Non trovò nessuno, e i suoi suoi passi suonavano ovattati sugli spessi tappeti che coprivano i pavimenti. Solo quando arrivò al piano di sotto, più o meno all'altezza delle scale di servizio che portavano nelle cucine, avvertì dei rumori sospetti.

Con attenzione, seguì quei suoni e alla fine, nella penombra buia della saletta da cui provenivano, intravide il profilo di suo fratello Bernardino. Capì subito che stava frugando in uno dei mobili e, per quanto fosse curioso di saperne il motivo, l'unica cosa che gli premeva fare in quel momento era farlo smettere.

“Non devi farlo.” disse, quando gli fu abbastanza vicino da farsi sentire senza dover alzare la voce.

Il Feo, colto alla sprovvista, fece un mezzo salto sul posto e si voltò di scatto, brandendo un pugnale che il fratello, prima, non aveva visto.

“Scusa...” disse quasi subito Bernardino, riconoscendo immediatamente Galeazzo e abbassando l'arma.

“Questo è il coltello di nostra madre.” fece il Riario, senza alcuna inflessione interrogativa, indicando la lama.

“Sì.” ammise l'altro, rimettendolo subito a posto.

“Te lo ha dato lei?” si informò Galeazzo.

“Sì.” rispose di nuovo il Feo.

Il maggiore deglutì. Suo malgrado, aveva sentito una fitta di gelosia pungergli il cuore. Sapeva che anche Bernardino aveva il diritto di avere qualcosa della madre, sapeva che la Tigre amava molto anche lui, tuttavia... Pensare che la Contessa avesse dato un oggetto tanto personale a settimogenito e non lui lo infastidiva.

“Torniamo a dormire...” decise, alla fine, non volendo dare in alcun modo voce ai suoi sentimenti.

“Non so se ci riesco...” borbottò il più piccolo, abbassando lo sguardo.

“Preferisci restare qui a frugare tra cose non tue?” lo rimproverò Galeazzo, mostrandosi con lui duro per la prima volta: “Devi fare quello che ti dico. Non è il momento di...”

“Ho fatto un brutto sogno.” spiegò il Feo, non lasciando continuare il fratello: “C'era una battaglia e c'era nostra madre e qualcuno mi lanciava addosso dei dardi e...”

Rivendendo, anche se in modo molto vago, ciò che lui stesso aveva da poco vissuto in sogno, il Riario si irrigidì e ordinò, questa volta senza ammettere repliche: “Ti ho detto che dobbiamo tornare a dormire.”

“Posso restare in stanza con te?” chiese allora Bernardino, le guance che prendevano colore nell'avanzare quella proposta che denunciava la sua puerile paura di restare solo di notte.

Galeazzo ci pensò sopra un istante e poi, pensando che anche lui avrebbe trovato giovamento dalla compagnia del fratello, accettò: “E va bene, ma solo per stanotte.”

 

Il manipolo di uomini uscito assieme alla Tigre era riuscito a ritornare a Ravaldino prima che i francesi riuscissero a seguirne la scia. Quei pochi nemici che avevano avuto l'ardire di avvicinarsi troppo alla rocca avevano ricevuto in cambio un paio di colpi di cannoncino e così si erano ritirati in fretta e furia.

I reduci si erano radunati sotto il porticato del cortile, per sfuggire alla pioggia che li aveva vessati per tutto il tempo dello scontro. Il bilancio era difficile da valutare. Avevano lasciato sul campo una ventina di compagni, ma, facendo una rapida valutazione, dovevano aver mandato all'altro mondo almeno il quintuplo dei francesi, se non di più.

Caterina era stanchissima, si sentiva sporca e aveva sete. Mentre valutava una mezza dozzina di feriti, tutti non gravi, rimettendoli alle cure dei cerusici, chiese di Monsignani.

Per la prima volta, mentre ancora aveva indosso l'armatura e sentiva la puzza della morte appiccicata alla pelle e i capelli intrisi del sangue dei nemici, avvertiva la frenesia di cui aveva sentito spesso discutere i soldati. Era una voglia irrefrenabile di vita e di calore, qualcosa che andava oltre ogni remora e ogni ragionamento.

Probabilmente, si disse, da ragazza non le era capitato perché ai tempi c'era Girolamo a oscurare tutto quanto, mortificando qualsiasi suo bisogno e qualsiasi istinto. Adesso, però, che sapeva da anni cosa cercare e come, avvertiva una fame insaziabile e feroce che andava placata il prima possibile.

“Mi hai cercato?” chiese, concitato, il frate, quando arrivò al fianco della Sforza, ancora china su uno dei feriti.

“Voglio che vieni in camera mia. Subito.” disse lei, senza nemmeno guardarlo.

Vangelista parve combattuto, ma poi, giungendo le mani sul crocifisso che portava al collo, ribatté, abbastanza categorico: “Non posso. Io e i miei confratelli dobbiamo portare sostegno morale ai feriti e confessare chi...”

La Tigre, incredula davanti a quelle parole, sollevò finalmente gli occhi verdi verso di lui: “Ma che conforto morale vuoi dare? Non vedi che la metà di quelli che stanno bene sono già andati a cercarsi una donna e l'altra metà il vino? Quello è il conforto che vogliono! Non le tue parole da prete!”

Monsignani, spaventato dalla rabbia che trapelava dalle parole della Contessa, rimase in silenzio, fissandone il volto sporco di sangue e fango.

La Sforza avrebbe voluto prenderlo a pugni, punirlo per quel rifiuto che le suonava assurdo, ma poi, decisa a non farsi deridere dai suoi soldati, si trattenne e disse solo: “Ora devo andare.”

Camminò decisa verso le scale, l'armatura e gli abiti fradici che rendevano ogni passo un supplizio.

Fece mezza rampa, borbottando tra sé ingiurie di ogni tipo, arrovellandosi su come dar sfogo al fuoco che sentiva dentro di sé. Quando arrivò al piano di sopra, nel mezzo del corridoio, oltre ad alcuni degli uomini che avevano combattuto fianco a fianco con lei, vide Baccino.

Era ovvio che la stesse aspettando. La fissava, con un'espressione indecifrabile in volto. Anche se fino a quel momento gli aveva resistito, temendo che potesse diventare solo un ulteriore intralcio, come spesso si erano rivelati essere altri suoi amanti, la donna avanzò verso di lui e lo prese per mano.

Sapeva che, nelle ore che li separavano, molti dei soldati che erano usciti con lei si sarebbero trovati un angolo tranquillo, non necessariamente molto nascosto, dove riappacificarsi con la vita assieme a una moglie, a un'innamorata o a una serva scelta a caso. Lei non sarebbe stata da meno, anche se si sarebbe concessa una maggior privatezza.

Baccino la seguiva senza opporsi, chiedendosi se davvero lo stesse portando in camera. Aveva aspettato così a lungo quel momento che, ora, vedendosi trascinare via da una donna più simile a una erinni che a un essere umano, aveva quasi paura.

Arrivati nella camera della Tigre, la donna serrò la porta e poi gli ordinò: “Levami l'armatura.”

Il cremonese fece come gli veniva ordinato di fare, ma trovò il compito molto arduo, perché man mano che staccava un pezzo di ferro dal corpo della Contessa, la donna cercava di aiutarlo per far prima, andando solo a intralciarlo.

Quando la Leonessa rimase con addosso solo la cotta di maglia e i vestiti, però, tutto divenne più semplice. Cominciando a spogliarla con maggior sicurezza, il giovane si lasciò trascinare dalla sua furia, faticando a tenere con lei il passo e riconoscendo nella sua ferocia e nella sua fretta la stessa ferocia e la stessa fretta che aveva avuto anche lui, da adolescente, quando dopo le sue prime battaglie sul campo si concedeva una battaglia di tipo diverso.

 
   
 
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