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Autore: Adeia Di Elferas    08/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ma come facciamo a essere certi che siano usciti dalla rocca?” chiese Cesare, ancora con addosso il vestaglione da camera, aggirandosi come una furia nella saletta che Numai gli aveva indicato come l'angolo più tranquillo del palazzo.

Alcuni dei comandanti che sottostavano al Borja erano appena arrivati per fare rapporto riguardo quanto successo durante la notte. Il Valentino, dapprima, aveva pensato che quello che si era consumato in uno dei vicoli della città dovesse essere una sorta di rappresaglia di una parte del popolo, ma quando gli era stato fatto notare che i morti, tra i nemici, indossavano tutti armature in perfetto stato e avevano con loro armi pregiate, l'uomo aveva capito dove i suoi volessero arrivare.

Però non voleva ammettere che fosse possibile che la Sforza fosse riuscita a far uscire un contingente di soldati da Ravaldino senza che nessuno di loro se ne accorgesse.

“Lo sappiamo e basta.” tagliò corto Achille Tiberti, incrociando le braccia sul petto e facendo vibrare il grosso naso adunco: “Un paio di loro li conoscevo. Erano uomini della Tigre, stavano con lei alla rocca, su questo non ci piove.”

“Come ha osata, quella cagna...” ringhiò il Borja, perdendo infine la pazienza: “Ha attaccato lei! Ci ha attaccato! Invece di pregare e chiedersi come fare a ottenere la mia misericordia, ci ha attaccato!”

Nessuno osava fiatare. Solo l'Aubigny si permetteva di scoccare qualche occhiata in tralice a Cesare, come se trovasse patetico il modo in cui si arrabbiava.

“Dunque... Dunque... Prima di tutto, dobbiamo implementare i controlli – cominciò a dire il figlio del papa, annuendo tra sé, come se avesse appena avuto un'idea geniale – raddoppiando la guardia in quel punto di Forlì...”

“Ma se hanno già attaccato in quel quartiere – si permise di far notare Onorio Savelli – che senso ha rafforzare proprio quel punto? Fossi in quella donna, deciderei di colpire da tutt'altra parte per...”

“Non fate quella donna più sveglia di quel che è!” si arrabbiò il Duca di Valentinois, più per non essere stato il primo a pensarci che non perché ritenesse l'idea del condottiero campata per aria: “Se fosse un uomo come noi, forse, lo capirebbe... Ma di certo è ottusa e ostinata come tutte le donne e vedrete che, avendo avuto vita facile lì, colpirà di nuovo nella stessa zona!”

Ancora una volta, nessuno parve trovare il coraggio di smontare le personalissime teorie del Valentino.

Così, il ventiquattrenne, dopo aver deglutito un paio di volte e aver normalizzato il respiro, continuò a decretare: “Darete immediato ordine di bombardare la rocca e la cittadella. Voglio che le nostre bocche da fuoco li mettano in ginocchio. Guai a voi se sentirò anche solo un quarto d'ora di silenzio!”

“Ma non possiamo usare tutte le munizioni in un giorno..!” provò a opporsi Zitolo da Perugia, che, pur esagerando, non andava troppo lontano dalla realtà, con la sua previsione, dato che si era stimato che la polvere e le palle di cannone sarebbero bastate per al massimo una mezza dozzina di attacchi massicci, e sprecarle a quel modo, prima ancora di aver capito dove concentrare il fuoco, gli pareva una decisione sciocca.

“State zitto!” sbottò il Borja, guardando il soldato in cagnesco e poi rivolgendosi al Ligny e all'Aubigny che, con le loro espressioni immutabili, gli avevano dato l'illusione di essere completamente d'accordo con lui: “Mi raccomando. Voglio anche che ci siano strettissime sorveglianza e punizioni per tutti i forlivesi che non vorranno sottostare alle legge della croce.”

I due francesi si scambiarono un'occhiata strana e poi, senza dire nulla, fecero un cenno con il capo.

La nuova legge, istituita il giorno precedente, stabiliva che tutti i cittadini di Forlì dovessero portare una croce bianca di stoffa appuntata sul petto, e chi fosse stato scoperto a contravvenire suddetta regola, poteva essere liberamente bastonato e ferito da qualsiasi soldato francese. E questo imposizione riguardava anche i frati, i preti e gli ebrei, che, come tutti gli altri, se trovati sprovvisti di croce, sarebbero stati malmenati o peggio.

“L'Alégre sa ben come fare.” soggiunse il Borja, ripensando a un incidente del giorno precedente, quando alcuni cittadini, cercando soccorso presso San Domenico, per sottrarsi a quell'imposizione, si erano visti denunciare dagli stessi preti che avevano chiamato Yves D'Alégre per togliersi di torno i forlivesi in difficoltà.

Questi, con gran metodo e senza remore, li aveva fatti bastonare tutti, ne aveva ridotti certi in fin di vita e poi, con gran ferocia, ne aveva radunati certi, accusandoli di aver ucciso un francese, e li aveva chiusi in un palazzotto a cui aveva dato fuoco, ammazzandoli tutti. Un altro ancora, un paggio, sempre colpevole di aver reagito alle percosse francesi tagliando la gola a un soldato del Valentino, era stato impiccato e appeso fuori da una delle finestre del palazzo dei Riario.

“Questa cosa delle croci è inutile.” si permise di dire Tiberti: “Vi ripeto che l'attacco è arrivato dalla rocca. Individuare a prima vista i forlivesi che sono rimasti in città non serve a nulla. Non sono loro il problema.”

“Non ho chiesto il vostro parere.” fece il Borja, inclinando la testa di lato: “E, anzi, dato che siete ormai così insofferente a restare qui a Forlì, comincio a dubitare della vostra fedeltà...”

Achille si schiarì la voce e ribatté: “Se dubitate della mia fedeltà solo perché cerco di darvi dei buoni consigli allora...”

“Non peggiorate la vostra situazione.” tagliò corto il figlio del papa: “Partirete entro mezzogiorno per Cesena. È tempo di sistemare anche quella questione.”

Il condottiero rimase attonito. Aveva visto rimandare la sua partenza per Cesena così tante volte, che, ormai, si era convinto che il Valentino avesse – giustamente – deciso di concludere prima la conquista di Forlì e poi, solo in un secondo momento, destinare degli uomini a quella secondaria operazione.

“Non fate quella faccia.” rise Cesare, indicandolo con la mano aperta, e ridacchiando, affinché anche gli altri comandanti presenti lo fissassero, trovandolo ilare: “Siete un soldato, no? Siete qui per combattere e per ubbidire. Dunque, fatelo.” concluse, cambiando drasticamente tono.

Tiberti non trovò più modo di rimbeccare e anche gli altri, dopo aver ricevuto le ultime disposizioni dal comandante in capo, dovettero adeguarsi a quel che egli diceva.

Una volta congedati tutti, il Borja diede ordine al suo attendente di andare a chiamare Bernardi. Il soldato parve tentennare un momento, lo sguardo che correva alla finestra, oltre la quale il buio antelucano non gli rendeva molto gradito quel compito.

“Avanti!” lo incitò il Duca di Valentinois: “Almeno non piove più, no?! Sbrigati!”

Mentre il giovane usciva dalla saletta quasi di corsa, anche il figlio del papa si prese un momento per guardare fuori dall'ampia vetrata che aggettava sulla strada. Forlì, con quell'oscurità, sembrava quasi una città fantasma.

Grattandosi il mento, il ventiquattrenne si chiese se il Novacula avesse qualche buona idea da dargli. Di certo doveva conoscere bene non solo la geografia forlivese, ma anche la rocca di Ravaldino e la cittadella, nonché la mentalità della Sforza. Doveva chiedere a lui come fare per abbattere le mura delle prime e vincere le difese della seconda.

Per il momento, l'unica informazione vagamente utile che il barbiere si era lasciato scappare riguardava proprio i punti deboli della Contessa. Quando il Valentino gli aveva domandato chiaramente quale fosse, a suo parere, il tallone d'Achille della milanese, Bernardi era stato molto categorico nel rispondere.

“Gli uomini – aveva sentenziato, con una nota ben percettibile di veleno – le piacciono troppo.”

 

Quando Caterina si era svegliata, si era resa conto che non pioveva più. Si era alzata in silenzio dal letto, sfuggendo a un braccio di Baccino che, anche nel sonno, continuava a cercarla.

Doveva essere riuscita a chiudere occhi per non più di un paio d'ore, e aveva tutti i muscoli doloranti. Il buon senso le avrebbe detto di rimettersi coricata e sfruttare ancora un po' di tempo per riposarsi, prima dell'inizio di un'altra giornata infinita e infernale.

Invece l'unica cosa che voleva era sottrarsi alla vicinanza con il corpo caldo del cremonese e riordinare le idee.

Nel momento stesso in cui lasciò il suo giaciglio, la Tigre avvertì un brivido di freddo che la portò immediatamente a fare due cose. Innanzitutto, recuperò una vestaglia da notte che non infilava da diverso tempo e se la lasciò scivolare sulla pelle accapponata, apprezzandone il tepore. In secondo luogo, si avvicinò al camino e ravvivò le fiamme, nella speranza di scaldare un po' la stanza per intero.

Dopodiché, la donna rimase in piedi, davanti al fuoco, e si mise a pensare. Cercava di ricordare le immagini ormai confuse della notte che era passata, mescolando ciò che era successo per le vie di Forlì, il sangue, la pioggia, la fatica e la paura, con ciò che poi aveva fatto con Baccino una volta tornata alla rocca, il modo in cui l'aveva preteso, l'aveva morso, graffiato, e, a un certo, era certa di avergli addirittura fatto paura.

Poi era passato tutto, il furore della battaglia e quello del letto, e si era addormentata. Il risveglio aveva portato con sé solo una confusione diversa, ma altrettanto persistente.

Stringendosi le braccia al petto, la Contessa lanciò uno sguardo al giovane che ancora sognava beato. Era difficile dargli un'età precisa, ma a occhio e croce alla Leonessa sembrava avere più o meno l'età di Ottaviano. Era molto più massiccio, però. Era una presenza invadente, anche solo il suo respiro era impossibile da ignorare. A modo suo, era come se non volesse mai farsi scordare.

Guardando meglio, la Sforza si accorse che sulle lenzuola e anche sul cuscino aveva lasciato qualche macchia di sporco. Si passò una mano sul volto e si rese conto che, nella concitazione del momento, non aveva nemmeno chiesto un po' di acqua per pulirsi il viso e le mani. Nella penombra, si diede anche un'occhiata alo specchio e in effetti, benché mitigati dal rigirarsi nel letto e dal contatto con Baccino, i segni della recente battaglia erano ancora ben visibili sulla sua pelle.

Le venne quasi da ridere, pensando a cosa avrebbe detto sua madre, se l'avesse vista conciata a quel modo. L'avrebbe rimproverata, dicendole che non doveva fare il soldataccio, ma mantenere un decoro, come aveva sempre fatto suo padre Galeazzo Maria, che, pur essendo un guerriero volenteroso e abbastanza capace, aveva sempre addosso abiti in ordine, il volto ben rasato e pulito, e le mani curate come quelle di una fanciulla.

Caterina, con un sospiro pesante, abbassò lo sguardo verso le proprie, di mani. Sotto le unghie c'era ancora qualche residuo della battaglia, e, forse, dello scontro amoroso che aveva avuto con il cremonese.

Indecisa sul da farsi, se andare a cercare Argentina affinché le portasse un po' di acqua calda, o tornare a letto e sforzarsi di dormire ancora un po', la Sforza tentennò qualche minuto ancora in piedi in mezzo alla stanza.

Aveva quasi preso una decisione quando un boato che sembrò scuotere Ravaldino fin nelle fondamenta, le strappò una bestemmia improvvisa e la portò a uscire dalla stanza di corsa, ignorando perfino Baccino che, risvegliatosi di colpo, aveva esclamato: “Che accidenti è stato?!”

 

Giovanni da Casale li aveva visti, mentre armeggiavano con le bocche da fuoco, eppure, malgrado quel vantaggio che gli avrebbe permesso di dar voce ai suoi e colpire prima che lo facesse il nemico, l'uomo non era riuscito a far altro se non fissare i francesi affaccendarsi con i cannoni e le munizioni.

Quando la prima palla aveva solcato l'aria fredda dell'alba, Pirovano si era aggrappato con maggior forza alla merlatura dietro cui stava e aveva aspettato l'impatto. Non era arrivato. I calcoli dei nemici non erano stati precisi e così, di tutti i cannoni che spararono uno dopo l'altro, solo alcuni trovarono le mura della cittadella.

Solo a quel punto, dopo aver visto un angolo di pietra staccarsi dal profilo altero del Paradiso, Giovanni era riuscito a ritrovare la voce. Come un forsennato, aveva dato ordini, aveva orchestrato tutto, ma la sua mente continuava a sfuggire altrove, in un angolo buio fatto di paura e risentimento.

La prima era dovuta alle contingenze del momento, alla consapevolezza che avrebbe potuto cadere sotto i colpi nemici da un momento all'altro, come, d'altro canto, stava capitando ad alcuni dei suoi soldati.

Il secondo, invece, risaliva a quella notte. Non era riuscito a riposare nemmeno un momento perché li aveva visti: aveva visto i soldati di Caterina uscire da Ravaldino, inoltrarsi in città e tornare dopo qualche ora, in numero minore, inseguiti da qualche francese.

Aveva riconosciuto la Tigre. E come non avrebbe potuto... La sua armatura, come quella di tutti gli altri, era stata brunita, diventando quasi un tutt'uno con le tenebre di quella notte di pioggia, eppure Pirovano l'avrebbe riconosciuta tra mille. Gliel'aveva vista indosso più volte e in certe circostanze gliel'aveva anche sfilata. Non poteva scordarla.

Nel vederli rientrare, era stato certo che sarebbero passati dalla cittadella. Lei glielo aveva promesso: gli aveva detto che, in caso avessero fatto delle sortite di quel tipo, sarebbero entrati al Paradiso, prima di tornare alla rocca, per spezzare l'inseguimento dei nemici. E invece erano filati dritti, passando oltre e sparendo di nuovo nelle viscere di Ravaldino.

L'unico messaggio che l'uomo aveva estrapolato da quel fatto era stato per lui molto chiaro: la Leonessa non ci teneva a rivederlo. Non veramente, almeno. Non abbastanza da fare quella deviazione.

Giovanni poteva vederla, mentre rientrava alla rocca, vantarsi della propria impresa e scegliersi il soldato più giovane e prestante che le capitava a tiro, portandolo nello stesso letto dove fino a poco prima era stato lui a fare da padrone.

“Le palle incatenate!” gridò Pirovano, cercando invano di scacciare quell'immagine dalla sua mente: “Prendete quelle!”

E così, mentre lui continuava a gridare ordini in modo più o meno logico, i suoi artiglieri recuperavano quelle speciali munizioni ideate dalla Sforza in persona, così letali proprio perché sconosciute al nemico: due palle di cannone legate assieme da un tratto di catena. Con un colpo si poteva fare un danno doppio se non triplo.

“Avanti!” gridava Giovanni, mentre un altro pezzo di muro crollava poco lontano da lui, causando un danno più estetico, che non strutturale, alla cittadella: “Caricate quei cannoni! Avanti!”

 

Caterina, dopo essere stata sulle merlature per capire cosa stesse succedendo, aveva dato ordine di iniziare a rispondere ai colpi di artiglieria, e convocato d'urgenza un Consiglio di Guerra.

Mentre radunava i suoi, la Contessa, aiutata dai fratelli e da Scipione Riario, tranquillizzava gli abitanti della rocca, pregandoli di stare nelle zone più lontane dal fuoco nemico e di aspettare ordini. Tutti risposero con coscienza al suo accorato appello e nel giro di meno di dieci minuti, tutti i civili e buona parte dei soldati erano nelle parti più riparate, attendendo che la raffica di colpi si diradasse.

Era ancora in vestaglia da notte, ma nessuno ci aveva fatto caso. Non era l'unica in abiti da camera, e non era nemmeno l'unica ad avere addosso ancora i segni della battaglia di quella notte.

Si era deciso di far fuoco verso il nemico, ma con parsimonia. Non potevano sprecare tutte le munizioni in una mattina. In più, e di questo la Tigre era stata molto felice, sembrava che gli artiglieri francesi non avessero preso bene le misure e così molte delle loro palle di cannone finivano o fuori bersaglio, o nel fossato.

“Quello che andrà distrutto – decretò la donna, mentre un altro colpo ramingo colpiva Ravaldino, facendo rimbombare anche la Sala della Guerra – lo ricostruiremo notte tempo.”

“Sempre che non continuino a bombardare anche di notte...” soppesò Alessandro, corrucciato.

“Non lo faranno.” scosse il capo la Sforza: “Non ne hanno i mezzi. E poi i francesi sono superstiziosi. Di notte non vorranno fare proprio nulla, specie dopo quello che gli abbiamo fatto noi l'ultima volta.”

“La cittadella resisterà?” la domanda era arrivata dal bolognese Giovanni Testadoro, e non aveva un tono d'accusa, quanto più quello di una richiesta a meri fini conoscitivi.

In effetti, dal tempo che il Paradiso avrebbe passato a resistere, poteva dipendere grandemente anche la sopravvivenza di Ravaldino.

“La cittadella è sotto il comando di Giovanni da Casale.” fece presente la Leonessa, non riuscendo a evitare un piccolo moto di preoccupazione, che andò a farle tremare appena la voce: “Si tratta di un soldato molto valido, coraggioso e che ha giurato di combattere fino alla morte.”

Cupido quod dicit amanti, in vento et in rapida scribere oportet aqua.” disse a voce bassa Marulli, guardandola con un sopracciglio alzato e un'espressione triste in volto.

Caterina capì esattamente cosa significasse quella citazione di Catullo. Il bizantino la metteva in guardia dalla promessa di Pirovano, perché le promesse fatte agli amanti non avevano valore, erano così labili da poter essere scritte sul vento e sulle acque correnti di un fiume.

Per fortuna, però, nessun altro dei presenti colse l'allusione e, anzi, la maggior parte degli uomini radunati nella sala non capivano nemmeno il latino, figurarsi una citazione così colta.

“Ci aggiorniamo di nuovo più tardi.” decretò la donna, sollevando le mani e poi chiamando a sé Costantino Bolognese, bombardiere di riferimento nel plotone che stava contrattaccando dalla cima del mastio: “Vi devo chiedere un favore.”

L'uomo, mentre gli altri cominciavano a defluire, parlottando tra loro, chinò il capo e disse, compito: “Tutto quello che la mia signora desidera.”

La Contessa, che aveva quell'idea che le frullava per la testa fin da quando aveva capito cosa stesse accadendo, sospirò e chiese: “Si potrebbe far incidere qualcosa sulle palle di cannone che lanciate ai francesi?”

Costantino fu stupito da quella richiesta, ma annuì: “Se si tratta di cose brevi, sì. Posso far preparare le munizioni in qualche manciata di minuti.”

“Ebbene, ecco una lista delle cose che dovete farvi scrivere...” iniziò a dire Caterina e da lì fece seguire una serie lunga e colorita di epiteti e ingiurie, quasi tutte volte a far vergognare i francesi per la loro inettitudine e codardia.

Il bolognese, nel sentire quelle parole uscire dalle labbra della Tigre, aveva ritrovato il sorriso e fu con vero piacere che ribatté: “Sarà fatto, non temete. Quella feccia capirà chi ha davanti!”

La donna si disse soddisfatta di tutto quell'entusiasmo e poi, vedendo che Marulli era ancora nella Sala della Guerra, al contrario di tutti gli altri, congedò Costantino e si avvicinò a Michele.

“Vi vedo preoccupato.” gli disse.

Sapeva che quel bizantino aveva molti più motivi degli altri per essere teso. Oltre a essere un soldato di stanza in una rocca sotto assedio, era il marito della donna che aveva deciso di ospitare sei, tra bambini e ragazzi, fuggiaschi, rischiando non solo di avere dei guai con i francesi, ma anche con Lorenzo Medici.

“Siete certa che Giovanni da Casale sia stato l'uomo giusto da mettere alla cittadella?” chiese Marulli, guardandola con attenzione, cercando di vedere oltre il viso pallido e la vestaglia da camera della sua signora: “Siete sicura di avergli dato quell'incarico solo per merito e non perché...”

“E non perché ha scaldato il mio letto per mesi?” l'anticipò la Leonessa, sollevando il mento con atteggiamento di sfida.

In realtà se l'era chiesto più volte anche lei. Si era fidata di Pirovano, ma perché l'aveva fatto? A voler essere sincera, lei per prima aveva avuto spesso dubbi sulla solidità della sua mente, in momenti critici. Perché gli aveva affidato il Paradiso? Per un ragionamento logico o perché voleva creare tra loro una distanza, ma dandogli l'importanza di cui lo credeva meritevole?

Cosa era pesato di più, nella sua scelta? Le effettive doti da soldato del suo amante, o le qualità che le aveva dimostrato a letto? La cosa che più l'angosciava non era non avere una risposta chiara, ma sentire di propendere di più per l'ipotesi meno onorevole.

“Spero che il suo animo non vacilli.” tagliò corto Caterina, evitando lo sguardo penetrante e intelligente di Michele: “Perché in fondo – lo difese – a chiunque potrebbe capitare, in un momento simile.”

“Certo.” convenne il bizantino, trovando, però, in parte conferma dei suoi sospetti.

“In ogni caso...” soffiò la Tigre, posando una mano sulla spalla del soldato poeta: “Se credete in Dio, pregate, perché ne abbiamo tutti tanto bisogno.”

 

“È vero?” la voce di Semiramide arrivò alle orecchi di Lorenzo tagliente come la punta di una freccia.

“Che cosa?” domandò lui, senza scomporsi, prendendo con lentezza il calice che aveva sul tavolinetto davanti a sé.

Era da qualche giorno che, contravvenendo alle abitudini che avevano conservato fin dal matrimonio, il Medici voleva pranzare da solo. L'Appiani non aveva protestato per quella sua decisione, anzi, aveva commentato a voce alta che si trattava di una scelta giusta, così almeno lei e i suoi figli avrebbero potuto mangiare in pace, senza aver davanti la sua faccia cupa.

Fino a quel momento, quindi, il Popolano aveva perseguito quel nuovo costume senza essere mai infastidito. Quel giorno, perciò, vedendosi entrare in stanza la moglie a quel modo, era rimasto abbastanza stupito.

“Lo sai di cosa sto parlando.” fece lei, non tollerando più i modi fintamente ingenui del marito.

Lorenzo, però, sembrava deciso a non cambiare atteggiamento, anzi, scrollando le spalle, disse anche, borbottando: “Se non vuoi dire che hai, come posso rispondere?”

“Voglio sapere – si piegò lei, non volendo andar oltre in quello sterile scambio di battute – se è vero che i ragazzi sono tutti qui a Firenze.”

“I ragazzi?” ribatté l'uomo, sbattendo le palpebre, dopo aver bevuto un sorso di vino.

“I figli della Sforza.” parafrasò la donna, trovando inutile tutta quella schermaglia.

Il Medici sporse in fuori le labbra e poi, tornando a puntare gli occhi tondi sul piatto di carne e verdure che aveva davanti, rispose: “Non vedo perché dovrebbe interessarti.”

Il modo in cui Lorenzo si era atteggiato prima e aveva parlato poi lasciò intendere all'Appiani che i figli della Tigre fossero davvero in città, come Pierfrancesco aveva suggerito mentre mangiavano.

Il fatto che perfino un ragazzino che non si interessava né della politica della città, né di quello che succedeva oltre le mura di Firenze, avesse sentito girare quella voce e vi avesse dato peso, metteva in ansia Semiramide, perché significava che, di certo, c'erano molte persone che ne stavano già discutendo.

Così, facendo finta che il marito le avesse detto un semplice 'sì', la donna tornò all'attacco: “Lo farai sapere al figlio del papa?”

Il Medici, smettendo finalmente di mangiare, spostò il piatto con un gesto secco e rumoroso e poi picchiò una mano aperta sul tavolinetto, facendo sobbalzare la moglie: “Lo vedi che non capisci nulla?! Che me ne verrebbe a dirlo a lui?!”

L'Appiani, pur mortificata da quello scatto di rabbia, rimase al suo posto, desiderosa di sentire cosa pensasse di fare Lorenzo. Solo quando era così alterato si lasciava scappare davvero ciò che gli passava per la mente.

“Il bambino serve molto di più a me che non a lui!” continuò a gridare il Medici, alzandosi e avvicinandosi a lei con fare minaccioso: “Lui lo vuole, come vuole tutti gli altri, solo per eseguire un ordine di suo padre, mentre a me serve per riavere le mie cose! Quel neonato...”

“Non è più un neonato.” gli ricordò lei, a voce bassa, ma decisa, riuscendo ad arginare il suo tono roboante.

Quel dettaglio parve bloccare per qualche secondo il Popolano. In effetti, si trovò a pensare, ormai il piccolo aveva più di un anno e mezzo...

“Sai quanto me ne importa! Neonato, lattante, bambino..! Tante storie per il figlio di una sgualdrina!” sbottò l'uomo, non volendo nemmeno provare a pensare a come potesse essere quel nipote che non aveva mai nemmeno visto.

“È il figlio di una sgualdrina e di tuo fratello.” gli ricordò Semiramide, facendo mezzo passo verso di lui: “Non dimenticarti che erano in due, quando l'hanno fatto, quel bambino!”

La donna fissava il volto del marito e, per qualche secondo, le parve che le sue parole fossero andate a segno. Malgrado Lorenzo si ostinasse da sempre a gettare ombre sulla reale paternità del piccolo Giovanni, di fatto l'Appiani era certa che anche lui sapesse, intimamente, che quello era davvero il loro unico nipotino.

“Vattene.” disse piano l'uomo, indicando la porta: “Ho deciso di mangiare da solo per un motivo: non essere importunato, per non rovinarmi la digestione.”

La donna annuì e poi, andando in fretta alla porta, concluse, fredda: “Stai attento, Lorenzo, perché in città si parla già dei figli della sgualdrina. Se non vuoi che il figlio del papa ci arrivi prima di te, farai bene a mettere tutto sotto silenzio.”

 

“Ti stai preparando a uscire di nuovo?” chiese Alessandro, raggiungendo la sorella nelle stalle.

“Sì.” rispose lei, secca, mentre indicava a uno degli stallieri di prepararle il suo stallone.

I cannoneggiamenti erano finiti da qualche ora e la Tigre aveva dato subito ordine di ricostruire le parti della rocca – per fortuna solo qualche cornicione e un paio di crepe sul davanti – che erano state danneggiate, in modo che entro il sorgere del sole Ravaldino fosse come nuova. Dopodiché aveva chiamato a sé Scipione Riario e Angelo Laziosi e aveva chiesto loro di selezionare un manipolo di soldati che l'affiancasse quella notte, per una nuova sortita in una zona diversa dell'accampamento francese.

“Perché non ne hai parlato anche con me?” chiese Alessandro, incrociando le braccia sul petto: “Io credevo di essere il secondo in carica, ma se non mi dici nemmeno...”

“Pensavo lo ritenessi scontato.” tagliò corto lei, andando verso l'uscita della stalla: “E comunque, te ne saresti accorto quando fossimo usciti.”

“Voglio venire anche io.” si offrì lo Sforza, trovando mortificante, per lui, quel ruolo al momento molto passivo.

“Verrà anche quel momento.” deglutì Caterina e poi, prendendogli un momento la mano, sussurrò, con maggior calore: “Per il momento, combatto meglio se so tu e gli altri nostri fratelli al sicuro. Ci penseremo più avanti, a tutto il resto.”

Il milanese sembrò recepire il concetto e poi chiese: “Ti devo venire ad aiutare con l'armatura?”

Sapeva che sua sorella la sera prima si era fatta vestire in camera, e lo trovava giusto, perché mescolarsi eccessivamente con l'esercito si sarebbe potuto dimostrare un passo falso. Anche se condivideva coi suoi uomini i pasti e la vita quotidiana, era necessario che si tenesse almeno un briciolo di distanza tra loro.

“No, no...” rifiutò la donna, sollevando una mano: “Ho già chi mi aiuta.”

Alessandro ci ragionò un momento e poi chiese: “Vangelista Monsignani o Baccino?”

La Contessa si accigliò, scrutando il viso del fratello e trovandolo più sveglio di quanto egli stesso non volesse farsi credere: “Monsignani è un frate.” ribatté: “Non è pratico di armature.”

“Ci avrei scommesso che alla fine ti saresti stancata, di tutti i suoi pater noster...” scherzò lo Sforza.

La Leonessa ricambiò il sorriso, apprezzando quel momento di effimera leggerezza e poi, con un cenno della mano salutò il fratello e andò verso le scale, per raggiungere la sua camera e prepararsi per la battaglia.

 

Cervillon si sentiva leggero, la sera di quel 22 dicembre. Aveva finalmente ottenuto il permesso ufficiale di lasciare Roma e il giorno dopo sarebbe stato già in viaggio per Napoli.

Si sarebbe lasciato alle spalle gli intrighi della sporca corte dei Borja e anche quell'ingrato di Alfonso d'Aragona, che non era stato capace di dargli man forte, anteponendo il benessere della moglie – una Borja anche lei, in fondo, e perciò biasimevole e meritevole di ogni disgrazia possibile al mondo – a quelli dello Stato che gli aveva dato i natali.

Quando suo nipote, Don Teseo Pugnatelli, l'aveva invitato a cena, il napoletano aveva storto il naso. Non aveva voglia di partecipare a un lungo convitto, com'era d'uso a Roma, né di svegliarsi rintronato il mattino dopo per il troppo bere e per il poco sonno.

Tuttavia il nipote aveva insistito parecchio, adducendo ogni tipo di scusa, arrivando anche a dire che, se la guerra fosse continuata, probabilmente loro due non si sarebbero potuti rivedere mai più.

Così, più per non dargli un dispiacere che non perché ci tenesse a cenare con lui, alla fine Cervillon aveva accettato.

Teseo gli aveva promesso un pasto leggero e veloce e, in effetti, era stato abbastanza di parola. Solo i beveraggi si erano dimostrati molto più pesanti del previsto, tanto che, pur avendo bevuto appena un paio di calici, quando venne il momento di lasciare la tavola, l'ospite si sentiva appesantito e rallentato come se ne avesse bevuti quattro volte tanto.

A fatica, si accomiatò dal nipote, gli augurò una buona vita e uscì in strada, sperando che qualche passo lo aiutasse a smaltire la sbornia più in fretta.

Aveva lasciato il palazzo di Pugnatelli da poco, però, quando vide delle figure nascoste nell'ombra avvicinarglisi. Reso impacciato e fiducioso dal vino, chiese ridendo che volessero, domandando a più riprese se cercassero davvero lui.

Quando, per puro caso, intravide le lame delle sciabole riflettersi alla luce della luna, il napoletano provò a estrarre la propria spada dal fodero, ma i suoi movimenti goffi non gli diedero scampo e il suo cadavere giacque in terra, in una pozza di sangue, quando l'arma era sfoderata solo per metà.

 

 

 
   
 
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