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Autore: Adeia Di Elferas    11/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il corpo straziato di Juan Cervillon venne accuratamente nascosto agli sguardi dei curiosi, primo tra tutti ad Alfonso, che, per quanto avesse chiesto con insistenza di poter vedere il cadavere, aveva ricevuto un secco no dalle autorità pontificie che si stavano occupando della frettolosa tumulazione.

Su consiglio della moglie Lucrecia, il giovane Aragona non prese nemmeno parte ai funerali, tenuti in forma privatissima nella chiesa di Santa Maria in Trasportina, in Borgo Nuovo, dove, dopo la sbrigativa cerimonia, erano stati tumulati i resti mortali del prode soldato del Regno di Napoli.

Era una mattina fredda e fuori faceva ancora buio. Roma era percossa da un vento tagliente che trasportava con sé gli odori della Suburra fino al cuore dei palazzi vaticani. O, almeno, alla Borja dava quell'effetto straniante. Era come se, aprendo la finestra per prendere una boccata d'aria fresca, i miasmi dei quartieri bassi avessero invaso le sue stanze, dandole la nausea.

Lei e Alfonso non avevano chiuso occhio, quella notte. Dopo la notizia della morte di Cervillon, era stato tutto un susseguirsi di subbugli e paure. L'Aragona aveva cercato di fare la voce grossa per visionare il corpo di Cervillon, specie per capire se era stato ucciso a pugnalate o colpi di spada, come si erano lasciati scappare alcuni servi del palazzo di Santa Maria in Portico. Quando, però, era stato chiaro che nessuno si sarebbe potuto avvicinare al cadavere abbastanza da vedere alcunché, il giovane aveva preso il piccolo Rodrigo e Lucrecia e aveva deciso di restare con loro chiuso in camera, aspettando il da farsi.

“Chiudi.” disse Alfonso, guardando la moglie che restava alla finestra: “Entra freddo. Sveglierai nostro figlio...”

Il tono del ragazzo era tesissimo e cupo. La Borja quasi non lo riconosceva. Anche lei sapeva che Juan erano stato assassinato da qualcuno per conto del papa, ma non si sentiva in pericolo a sua volta. Alessandro VI aveva molti difetti, era un padre possessivo ai limiti della morbosità, ed era un uomo crudele. Però la giovane confidava nel fatto che Rodrigo non avrebbe mai reso vedova sua figlia.

“Perdonami.” fece Lucrecia, accomodante, chiudendo subito la finestra: “Non ci ho pensato.”

Alfonso le fece segno di tornare da lui, sul letto, e la Borja non si ribellò. Il marito la strinse forte a sé e, mentre lo faceva, la ragazza sentiva il cuore di lui battere così veloce da preoccuparla.

“Andrà tutto bene.” sussurrò la figlia del papa, accarezzando materna la schiena del ragazzo.

L'Aragona strinse le labbra, senza dire nulla, ma dall'espressione che fece la moglie comprese tutto il suo dissenso verso quell'ottimismo.

“Adesso dobbiamo prepararci al Giubileo Straordinario.” riprese la Borja, sperando di infondere un po' più di calma in Alfonso: “Mio padre sta pensando solo a quello, ormai. Dimentica Cervillon. So che lo conoscevi bene, ma...”

“Non riesco a fare come te.” disse, secco, il marito, usando un tono perentorio che Lucrecia non gli aveva mai sentito uscire dalla bocca, non rivolgendosi a lei, almeno: “Hanno ucciso tuo fratello, e hai fatto come nulla fosse. Hai perso un figlio, e hai fatto come nulla fosse. Hanno ammazzato come un cane il tuo amante...”

La voce di Alfonso rimase sospesa tra loro, mentre il fantasma di Perotto aleggiava nella stanza, presente come un individuo in carne e ossa.

“E hai fatto come nulla fosse.” riprese il napoletano: “Io non riesco a essere così.”

Lucrecia avrebbe voluto ribattere, avrebbe voluto difendersi e spiegare le sue ragioni. Però aveva capito che il marito aveva la mentre intrappolata in una gabbia di paura, e discutere con lui non sarebbe servito a nulla.

Così, con lentezza, gli accarezzò la guancia e, invece di parlare, gli si aggrappò, abbracciandolo più forte che poteva, aspettando che passasse la buriana.

 

Il risveglio improvviso dovuto al fragore dei colpi di cannone dei nemici che impattavano con le mura della rocca alla Tigre parve quasi già diventato una consuetudine.

La donna aprì gli occhi a fatica, sentendo dolori in tutto il corpo. Malgrado il costante allenamento portato avanti negli anni, quella seconda sortita, a così breve distanza dalla prima, l'aveva messa a dura prova.

Ci mise un po' prima di capire che cose le impedisse di muoversi liberamente. Aveva quasi dimenticato com'era andata a finire, quella notte, dopo il suo ritorno a Ravaldino e solo in quel momento si rendevano conto che nel letto con lei c'erano due dei soldati che erano stati in spedizione al suo fianco.

Anche loro erano stati strappati al sonno per colpa del fracasso e, esattamente come lei, sembravano non trovare più tanto traumatico quel genere di risveglio.

Caterina guardò un momento prima l'uno e poi l'altro, senza dire nulla. Anche loro, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, la fissavano, senza trovare alcunché di intelligente da dire.

All'improvviso, alla Contessa sembro che quella stanza fosse troppo affollata.

Mentre un secondo colpo di cannone faceva rimbombare l'intera rocca, la donna sgusciò via da loro e ordinò: “Prendete le vostre cose e andatevene. Ho da fare.”

I due giovani non se lo fecero ripetere e nell'arco di cinque minuti avevano entrambi recuperato i propri effetti personali, rimasti sparsi nella camera, ed erano andati alla porta, andandosene senza dire nemmeno mezza parola.

Rimasta sola, la Tigre cercò di ricostruire quello che era successo la sera e la notte prima. Per quanto trovasse poco edificante farlo, voleva impegnare la mente per qualche minuto, mentre si ripuliva e si vestiva.

Immergendo una mano nella bacinella d'acqua che dal giorno prima Argentina era stata esortata a lasciarle in camera ogni pomeriggio, in modo che poi lei potesse usufruirne al rientro a Ravaldino dopo le sortite notturne, la Leonessa si sforzò di ricostruire i pezzi di quelle ore confuse.

Le tornarono in mente le battute un po' secche fatte da Baccino, mentre l'aiutava a infilarsi l'armatura, il modo in cui, con una evidente aggressività passiva, il giovane cercava di capire se la notte prima fosse solo stato usato come un oggetto o se per la Contessa fosse stato più di un incontro occasionale.

Alla fine, mentre il soldato le stava sistemando l'ultima rotella, la donna, per farlo tacere, aveva sbottato: “Non credere che tra noi sia cambiato qualcosa. Io cercavo un uomo, tu mi volevi. Ci siamo presi quello che volevamo. Ma la questione è finita lì.”

Baccino si era bloccato per qualche istante e poi, stringendole gli ultimi lacci con più forza del dovuto, si era congedato con un cenno del capo e se n'era andato.

La Sforza aveva fatto del suo meglio per non pensarvi più. Si era dedicata anima e corpo alla battaglia che, rispetto alla notte prima, era stata molto più complicata, perché l'attacco era stato sferrato in un quartiere più lontano da Ravaldino e dove alloggiavano alcune delle truppe meglio armate dell'esercito del Valentino.

Per fortuna l'effetto sorpresa si era conservato e per la prima parte dello scontro gli uomini della Tigre avevano potuto imporsi senza fatica su soldati mezzi addormentati o ubriachi, ma poi quegli stessi soldati, più addestrati e pronti dei loro compagni caduti la notte prima, avevano iniziato a rispondere.

Fisicamente, era stato tutto molto più impegnativo. La Leonessa aveva dato fondo a tutte le sue energie, arrivando a combattere senza elmo, per vedere meglio al buio. Si era anche sfilata la cuffietta di cotta di maglia perché il fastidio che le causava la sua presenza le toglieva lucidità.

Alcuni nemici, quando le si erano malauguratamente sciolti i capelli, l'avevano riconosciuta e l'effetto che aveva fatto la sua visione era stato lo stesso di una gragnola di colpi di cannone. Certi erano addirittura scappati, credendo di trovarsi davanti una specie di strega.

Per il resto, Caterina si era quasi abituata a tutto il resto: agli zoccoli del cavallo che scivolavano sul terreno viscido, agli schizzi di sangue rovente sul volto, al vedere i compagni cadere sapendo che non si sarebbe mai riusciti a recuperare i loro resti, al sudore che, malgrado fosse dicembre, le impregnava i vestiti, al rumore metallico dell'armatura in movimento e, perfino, alla sensazione costante di essere vicini alla morte.

Malgrado quell'avvezzarsi in fretta di nuovo alla guerra, però, quando erano rientrati a Ravaldino, fare il conto dei caduti era stato un dolore.

Erano più della sera prima e i feriti che erano riusciti a farsi riportare alla rocca erano in condizioni abbastanza critiche. La Sforza aveva dato disposizioni ai cerusici affinché facessero il possibile, disponendo che usassero anche la sua pozione per dormire, in modo da poter operare su un corpo incosciente.

Tra quelli che non erano tornati, c'era anche il ragazzo che la Contessa aveva visto a volte assieme a Bianca. La donna poteva solo sperare che fosse rimasto ferito e fosse stato capace, chissà come, di farsi passare per un forlivese qualunque capitato lì per caso, oppure, che, in qualche modo, fosse riuscito a nascondersi e scappare.

Aveva provato un profondo senso di sconforto, ma non aveva potuto fare nulla. Quel ragazzo si era offerto volontario per uscire assieme a lei quella notte: sapeva a cosa andava incontro.

Dopo la conta dei caduti e dei feriti, Caterina si era fatta portare del vino, per attenuare sia la sete sia la fatica e, come altri sopravvissuti, aveva cercato compagnia. Monsignani l'aveva schivata, dicendole che anche lui doveva fare la sua parte, ma curando l'anima dei feriti e non passando il resto della notte a razzolarsi con lei a letto.

Baccino, invece, non si era fatto trovare da nessuna parte.

Così la Leonessa aveva scelto a caso, proprio tra i soldati che erano usciti con lei. Anche loro stavano cercando qualcuno e quando lei aveva fatto loro la sua proposta, entrambi avevano accettato all'istante.

E così, quella mattina, si erano svegliati tutti a tre nello stesso letto.

Finendo di sciacquarsi il volto, la Sforza avvertì una stretta allo stomaco. Era stranita dal modo in cui stava passando quelli che potevano essere i suoi ultimi giorni. Stava facendo una vita davvero degna di un soldato, ma non aveva nemmeno il tempo e la forza si rendersene conto. Stava prendendo, con una velocità allucinante, delle abitudini che aveva sentito ataviche in molti condottieri, e le era risultato tanto semplice che si stupiva di aver vissuto diversamente fino a quel momento.

Infilandosi le brache da uomo che ormai portava costantemente, si lasciò scappare un mezzo sorriso ironico. A ben pensarci, infatti, sapeva perché si stava adattando tanto rapidamente: anche se in modo mitigato, aveva vissuto a quel modo per anni.

 

Giovanni da Casale guardava attonito i pezzi di muro che si staccavano a ogni colpo di cannone, sgretolandosi come creta.

Non riusciva a ragionare con lucidità, altrimenti si sarebbe accorto che non si trattava di danno strutturali, ma di semplici sbeccature, brecce aggiustabili, cose, in fondo, da nulla rispetto a quello che avrebbe potuto fare un'artiglieria potente come quella del Borja.

Era passato da poco il mezzogiorno e al Paradiso si cominciavano anche a contare i morti. Per contrastare i colpi nemici, Pirovano aveva dato ordine non solo di usare le proprie bocche da fuoco, ma anche di provare con frecce e dardi. Chiaramente quella decisione, dettata dalla paura e non dal buon senso, aveva fatto più danno a loro che non ai francesi.

Le ore passavano, dall'alba si erano susseguite senza sosta, una dopo l'altra, facendo precipitare la mente di Giovanni in un dirupo impervio e senza fine.

Quando una palla di cannone tranciò di netto la testa del soldato che stava accanto a lui sulle merlature, l'uomo prese la decisione più grave che avesse mai preso in vita sua.

“Ci ritiriamo!” iniziò a gridare, pulendosi il volto coperto dal sangue dell'uomo che gli era appena morto accanto: “Alla rocca! Alla rocca!”

“Ma che dite?!” fece un soldato che aiutava gli artiglieri a caricare: “La Tigre non lo accetterà! Non siamo ancora a quel punto! Dobbiamo combattere! Alla Tigre serviamo tutti qui! Alla Tigre voi servite qui!”

“Non le servirei a nulla da morto!” gridò di rimando Pirovano, dando uno spintone al soldato e completando, solo nella sua mente, il pensiero con un lirico: 'Caterina crollerebbe, sapendomi morto'.

Mentre il bombardamento proseguiva, Giovanni da Casale continuò a ripetere il suo ordine, senza nemmeno valutare l'ipotesi di provare a spostare l'artiglieria o le armi a Ravaldino. Gli importava solo di riabbracciare Caterina. Ormai non vedeva più altro che lei. Non poteva morire prima di averla rivista.

Per concertare la fuga, al milanese servì quasi mezzora. Gli uomini non erano pronti a una simile direttiva e, addirittura, qualcuno provò a opporsi. Tutta quell'incertezza, però, causò solo più confusione, che si tradusse in un maggior numero di caduti, dato che certi, nella frenesia di continuare a combattere, era meno attento e finiva vittima del fuoco nemico.

Dopo aver gridato molto e sudato ancor di più, però, Pirovano riuscì a radunare tutti e si diresse al portone secondario, l'unico che avesse ancora un collegamento diretto con l'esterno.

 

“Mia signora! Mia signora!” Battista di Masu Zughe entrò nel laboratorio della Tigre a gran velocità, rischiando quasi di travolgerla.

La donna si era ritirata lì, ignorando il rimbombare continuo delle artiglierie, per mettere a punto ancora qualche dose di pozione per far dormire. I suoi cerusici, pur rischiando, avevano provato a usarla sui feriti, la sera prima, e i buoni risultati ottenuti avevano indotto la Contessa a produrne quanto più poteva con le scorte che aveva ancora in dispensa.

Prima di mettersi all'opera aveva anche controllato se vi fosse o meno il necessario anche per la pozione che usava da tempo per evitare gravidanze indesiderate, ma, come aveva già avuto modo di vedere, purtroppo ormai le mancavano quasi tutti gli ingredienti necessari.

“Che succede?” chiese la Sforza, accigliandosi e guardando il volto trafelato di Battista.

“Non lo stiamo capendo... Venite sui camminamenti!” la incitò lui.

Caterina guardò un momento i suoi alambicchi che ribollivano sulla fiamma e si disse che tutto quel prezioso liquido sarebbe andato perduto, se l'avesse lasciato al proprio destino. Così, decidendo in due secondi, ordinò al soldato di cercare Argentina, l'unica con cui avesse davvero condiviso qualche segreto della sua arte, esclusa Bianca, e che la pregasse di seguire alla lettera le istruzioni che avrebbe trovato scritto sulla pagina lasciata sul tavolo.

L'uomo annuì e poi, uscendo dal laboratorio assieme alla Leonessa per andare a cercare la serva, sottolineò: “Correte, mia signora! Di sopra si stanno spaventando!”

Domandandosi che mai potesse essere accaduto, la Tigre lo prese in parola e nel giro di pochissimo era già sulle scale che portavano ai camminamenti. In effetti dalle merlature arrivava una discreta confusione, con tanti che proponevano di attaccare e altri che chiedevano di aspettare la Contessa.

“Eccoti!” esclamò Alessandro, con addosso corazza ed elmo, quando la vide: “Cosa dobbiamo fare?”

La donna, che ancora non sapeva cosa stesse accadendo, gli chiese di spiegarle e lo Sforza le indicò una colonna di soldati che si stava avvicinando alla rocca. Arrivavano, apparentemente, dal Paradiso.

“Cosa facciamo?” chiese di nuovo Alessandro, mentre la sorella stringeva gli occhi per capire chi fossero realmente gli uomini che stavano correndo verso Ravaldino.

Caterina ci mise qualche secondo, ma poi riconobbe alla perfezione colui che era alla guida di quella colonna di disperati. Il colpo fu così forte che la donna sbiancò e dovette appoggiarsi un momento alla pietra fredda della rocca.

“Abbassati!” gridò lo Sforza, risvegliandola di colpo e facendola accucciare a terra, mentre una palla di cannone partita dalle bocche da fuoco mai sazie dei francesi volava sopra le loro teste.

“Dobbiamo lasciarli passare.” sussurrò la Tigre, ancora abbassata: “Sono Giovanni da Casale e i suoi.”

Alessandro sgranò gli occhi: “E perché diamine hanno lasciato la cittadella.”

“Come posso saperlo, secondo te?!” sbottò la Contessa, sempre senza alzare la voce per evitare che anche altri sentissero la sua tensione: “Dai l'ordine.”

Il fratello, pur molto contrariato, annuì e poi si mise a gridare a chi di dovere affinché abbassassero il ponticello di servizio, l'ultimo collegamento della rocca all'esterno.

Mentre, lentamente, appurato che non stavano arrivando altri proiettili nemici, la Tigre e tutti gli altri si rimettevano in piedi, la Sforza avvertì una rabbia profonda e incontrollabile montarle in petto.

Pirovano le aveva promesso che avrebbe difeso la cittadella fino alla morte e, invece, dopo appena due giorni di bombardamenti, stava già battendo in ritirata. Improvvisamente tutte le domande che si era fatta riguardo le reali qualità che l'avevano portata a sceglierlo per un compito tanto importante ebbero una risposta. Una risposta che non le piaceva affatto.

“Guardate qui!” esclamò Rolando della Niccolosa, recuperando la palla di cannone che li aveva raggiunti poco prima: “Hanno del talento, questi guasconi...”

Molti dei presenti guardarono la munizione che il giovane teneva tra le braccia e vi scorsero un disegno molto volgare riferito in modo abbastanza chiaro alla loro signora, dato che l'autore di tale opera si era preso anche il disturbo di scrivere 'Tygre' e collegare il nome alla figura con una freccia.

Caterina registrò solo di sfuggita quella provocazione, liquidando la questione con un freddo: “Io, invece, li trovo molto poveri d'inventiva.” e poi, mentre raggiungeva le scale, precisò: “Noi, almeno, scriviamo insulti riguardo la loro codardia e incapacità. Loro non trovano di meglio che dire di me che sono una meretrice.”

Lasciando i suoi sui camminamenti, la donna scese in fretta, pensando freneticamente a come gestire quella situazione. Una volta che gli abitanti della rocca si fossero accorti che era Pirovano, quello che stava arrivando, come avrebbero reagito?

Dato il clima che si respirava in quei giorni a Ravaldino, era molto probabile che la reazione sarebbe stata dura. Di fatto, Giovanni sarebbe parso un traditore e un codardo agli occhi di tutti. Gli ordini erano gli stessi per ciascuno: combattere fino alla morte e non lasciare mai la propria posizione. Lui, invece, aveva abbandonato una fortificazione piena zeppa di armi e artiglieria. Non appena i francesi si fossero fidati a entrarvi, sarebbero diventati ancora più impossibili da sconfiggere.

La Leonessa era arrivata in nel cortile da pochi minuti, quando i reduci della cittadella entrarono come un piccolo fiume in piena. Il ponte era già stato risollevato, per paura che qualche francese troppo intraprendente ne approfittasse.

Per fortuna, però, sembrava che i nemici non avessero capito quella mossa e, quindi, non avessero fatto in tempo ad approfittarne.

Pirovano, rosso in viso, sudato e con gli occhi spersi, guardò tutti i presenti con un'espressione sperduta. Nel cortile e dalle finestre che vi si affacciavano, si potevano scorgere quasi tutti gli abitanti della rocca, accorsi per capire che stesse accadendo.

Gli occhi di Giovanni ritrovarono un barlume di lucidità solo quando, in mezzo alla folla, riconobbe Caterina.

Tuttavia, il suo sollievo durò appena un istante. Anche se il volto della donna non tradiva alcuna emozione, le sue iridi erano gelide, implacabili come ogni volta in cui la collera aveva la meglio su qualsiasi altro sentimento che l'animava.

L'uomo deglutì, rendendosi conto solo in quel momento che anche gli altri lo stavano fissando con un misto di odio e rancore. Ebbe la sensazione, tremendamente concreta, che di lì a breve i soldati della Tigre si sarebbero avventati su di lui e sui suoi, uccidendoli come i traditori che in effetti erano.

Perciò rimase di sasso, quando, invece, la Sforza gli si avvicinò e, con un gesto così plateale da suscitare un'esplosione di commenti, lo baciò sulle labbra.

Pirovano comprese all'istante che non si trattava di un bacio sincero. Era qualcosa di meccanico, più adatto a far scena che non a fargli intendere che lei fosse felice di vederlo. E capì anche il perché di quell'atteggiamento così inatteso.

“Sono felice che Giovanni da Casale sia qui.” disse la donna, alzando la voce abbastanza da farsi sentire da tutti o quasi: “Perché io mi preoccupo molto di più della sua salute, che non della mia! E, se non fossimo in questa guerra, farei benedire il mio amore, e Giovanni da Casale sarebbe il mio quarto marito!”

Pur abbastanza sgomenti, i soldati e gli altri non se la sentirono di mettere in dubbio le sue parole.

Era risaputo che avesse una relazione con quell'uomo e, imprevedibile come si era sempre dimostrata, era anche plausibile che le sue dichiarazioni fossero sincere.

Resasi conto che l'effetto voluto era stato ottenuto e che, lentamente, ognuno tornava alle sue occupazioni, mentre si sentivano ancora un paio di colpi di cannone dei francesi, Caterina abbracciò con forza il milanese, inducendolo a piegarsi un po' verso di lei e, quando l'ebbe abbastanza vicino, gli ringhiò all'orecchio: “Perché?!”

Giovanni ebbe conferma di tutti i suoi timori. Quella domanda era stata fatta con una collera immensa e insanabile. Ma non gli importava. L'unica cosa che voleva era starle accanto.

“Non potevo sopportare di non rivederti più.” sussurrò lui, sperando che bastasse.

“Adesso vattene in camera mia e fammi il piacere di non uscirne fino a che non ti dirò di farlo. Ora devo fare del mio meglio per non farti passare per uno spergiuro.” disse lei, tenendoselo ancora vicino: “Ma sappi che lo faccio solo perché, in caso contrario, dovrei applicare la legge non solo verso di te, ma anche verso tutti gli uomini che ti hanno seguito, e non posso permettermi di perdere decine e decine di soldati per un motivo così stupido.”

Pirovano deglutì e annuì, mentre la sua amante si allontanava da lui e, senza guardarlo più, prendeva da parte Scipione Riario e Alessandro Sforza, iniziando a parlottare con loro.

 

“No, non è possibile.” disse, categorico, il Borja: “Voi che ne dite, Bernardi?”

Il barbiere si guardò la punta delle scarpe e poi osservò di sottecchi il portavoce che era appena venuto a dire al Valentino che, forse, gli uomini della Sforza avevano abbandonato 'la fortificazione di Porta Schiavonia'.

“Allora?” lo incalzò il figlio del papa, il viso che si tendeva, come se dal responso del Novacula dipendesse tutto quanto.

Andrea si stropicciò le mani e poi, cauto, rispose: “La cittadella è nelle mani di Giovanni da Casale.”

“Questo lo so anche io!” perse la pazienza il Duca di Valentinois, versandosi da bere e maledicendo in silenzio Luffo Numai, che sembrava avere in dispensa solo del pessimo vino bianco: “Io voglio sapere se credete possibile che la cittadella sia stata abbandonata o meno!”

“A capo della cittadella – ribadì Bernardi, mantenendo la calma – c'è Giovanni da Casale. È un uomo che non stimo, ma lo conosco comunque come un soldato ubbidiente. Se la Sforza gli ha ordinato di non lasciare il Paradiso, dubito che l'abbia fatto.”

“E allora come si spiega quella colonna di soldati?” chiese il Borja, cercando di scardinare la teoria del barbiere.

“Io non sono un soldato, né uno stratega.” rispose il Novacula, abbassando il capo: “Lascio a voi questo genere di valutazioni.”

Innervosito, Cesare agitò una mano in aria per farlo tacere e bevve qualche sorso di vino. Si ripulì le labbra con il dorso della mano e poi, congedando il portavoce mantadogli dai comandanti sul campo, si lasciò scivolare un po' sopra la sedia.

“Lo capiremo nelle prossime ore – chiuse la questione – e se davvero vedremo che la cittadella è stata abbandonata, troveremo il modo di approfittarne.”

Andrea si sentì mancare, dilaniato tra il senso di colpa per l'aiuto che stava fornendo all'invasore e la voglia di emergere grazie alle grandi promesse fatte dal Valentino. Non voleva essere ricordato come un traditore, ma il Duca gli aveva prospettato una carriera da storiografo, molti soldi, fama e la possibilità di dedicarsi solo a quello che amava. Inoltre, gli aveva anche fatto capire che, tra i vari benefici, ci sarebbe stata per lui anche una moglie giovane e disponibile...

“Torniamo a noi.” borbottò il figlio del papa, premendosi la punta delle dita sulle tempie: “Vi stavo chiedendo dei figli della Sforza. Siete sicuro che siano ancora con lei?”

“Se con non fosse, me ne stupirei.” ammise l'uomo, cominciando a sudare freddo, sperando che quella sua ultima vena di lealtà bastasse a cancellare tutti gli atti spregevoli che si accingeva a fare.

“E quella donna avrebbe tenuto sette figli al suo fianco in un momento simile?” domandò il Borja, poco convinto.

“Sei, mio signore – lo corresse Bernardi – messer Cesare è a Pisa da tempo.”

“Giusto, giusto...” sospirò il Duca di Valentinois, arrovellandosi ancora su quel punto: “E come fate a dire che i figli non sono stati messi al sicuro da qualche parte?”

“Io so osservare e conosco la Sforza.” ribatté Andrea, sperando di chiudere a quel modo l'argomento: “Se li avesse fatti andare da qualche parte, lo saprei. E, comunque, i primi figli non li ha mai amati. Credo che non le interessi se vivono o meno.”

Cesare si accigliò. Aveva sentito dire più volte degli scontri tra la Leonessa e il figlio maggiore, ma nulla di più. Si chiese quanto il barbiere stesse esagerando e quanto, invece, fosse nel giusto.

“Ma i due più piccoli? Quelli li ama?” chiese il Valentino, cercando di capire meglio.

“Può una donna del genere amare?” domandò di rimando il Novacula.

“Voi parlate troppo come un filosofo.” sbuffò il Duca, bevendo ancora un po', mentre dalle finestre di palazzo Numai filtrava la luce del mezzogiorno: “Ditemi solo sì o no.”

“No.” rispose allora il forlivese, deglutendo.

“Quindi probabilmente saranno tutti con lei.” concluse il Borja: “Preferisce vederli morire al suo fianco che lasciarli a mio padre... Per me cambia poco. Ma devo avere le loro teste, o mio padre non mi crederà.”

“Sono sicuro che le avrete.” lo incoraggiò, rigido, Bernardi.

Cesare lo fissò per un po', trovando curioso il volto del Novacula. Poi, stanco di quel discorso, e sapendo, suo malgrado di dover ancora dare udienza ad alcuni membri del Consiglio dei Venti, lo congedò.

“Iniziate a scrivere di me, mi raccomando – gli disse, mentre lo accompagnava alla porta – di come sono diventato signore di questa città e di come sto battendo la Tigre di Forlì. Sono curioso di vedere cosa ne tirerete fuori...”

“Come il mio signore comanda.” annuì il barbiere.

 
   
 
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