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Autore: Adeia Di Elferas    14/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il palazzo che era appartenuto al Conte Guido Guerra era stato anche troppo semplice da conquistare.

Mentre si affacciava alla finestra per guardare fuori, Achille Tiberti avvertì un senso di rabbia che poco si sposava con la facile vittoria ottenuta nel giro di nemmeno mezza giornata. In altri momenti, per un'impresa del genere, sarebbe stato fuori di sé dalla gioia: aveva preso quello che voleva prendere e non aveva quasi perso uomini.

In quel frangente, però, non riusciva a provare alcun tipo di euforia. I cesenati lo fissavano, mentre lui salutava militarmente dall'alto del suo nuovo quartier generale, ma non sembravano né spaventati né sollevati. Erano impassibili, come se per loro fosse indifferente avere questo o quel padrone.

Tiberti voleva imputere quella passività anche al fatto che lui, come i suoi fratelli, era un personaggio noto in città e, forse, molti avevano letto il suo arrivo non come il simbolo del giogo francese, ma, al contrario, come al ritorno di una sorta di tranquilla normalità.

Quello che lo infastidiva più di tutto, però, era l'essersi reso conto di avere con sé troppi soldati, per l'impresa che gli era stata affidata. Ne aveva avuto il sentore fin da subito, ma, arrivato a quella conferma pratica, si rammaricava ancor di più dei fatti.

Il Borja si era privato di un intero contingente di uomini, quando, a Forlì, la Sforza in una sola notte aveva dato prova di essere in grado di sterminarli tutti, se solo le si fosse dato il tempo di farlo. Sprecarne così tanti per conquistare Cesena era stato un vero azzardo.

E d'altronde, pensava Achille, mentre ancora agitava la mano, sotto al cielo grigio di quell'Antivigilia, non poteva nemmeno far di testa sua e far rientrare parte dei soldati... Il Valentino non gli avrebbe mai perdonato una simile intraprendenza e, alla fine, anche se si fosse dimostrato che era nel giusto, sarebbe stato punito.

Cercando di mettere a tacere tutte le proprie remore, Achille fece un ultimo saluto e poi, con un sospiro, richiuse la finestra e si voltò verso il suo attendente: “Fate giustiziare i soldati che abbiamo catturato. Che sia chiaro che il nuovo esercito che comanda su Cesena è il nostro e non più quello dei Guerra.”

 

Caterina aveva aspettato quasi fino a sera, prima di andare in camera sua, dove l'aspettava Pirovano. Era stata una giornata complicata, viziata dalla consapevolezza di aver lasciato in mano nemica armi e artiglieria – per fortuna il grosso era a Ravaldino – e si non poter rischiare andandosele a riprendere, perché ormai la zona della cittadella era troppo a rischio o, almeno, così valutavano i suoi Capitani.

Così aveva passato tutto il suo tempo a rimodulare la sua strategia, cercando disperatamente di tamponare all'errore madornale del suo amante, sprecandosi, nel frattempo, nel giustificarlo con chiunque.

Era passata dal dire che quella strategia era stata da tempo concordata tra loro, a giurare che era sinceramente contenta della prudenza dimostrata dal suo amante. Aveva parlato con quasi tutti i soldati che erano giunti alla rocca con Giovanni e aveva ben inteso che nessuno di loro aveva capito il reale motivo che aveva portato il loro comandante a decidere quella ritirata. Così anche con loro la donna aveva potuto cercare di difendere il milanese, lasciando intendere che non avesse fatto nulla di diverso da ciò che lei stessa aveva ordinato.

Gli unici con cui aveva parlato francamente erano stati Michele Marulli – che, a suo modo di vedere, meritava una totale trasparenza in virtù del servizio che le stava facendo aiutandola a nascondere i suoi figli – e Scipione Riario.

Era assurdo, pensava la Tigre, come quel ragazzo, seppur così simile a Girolamo nell'aspetto, le risultasse familiare e amichevole, tanto da indurla ad aprirsi come non era riuscita a fare nemmeno con Alessandro.

“Tutti noi a volte commettiamo errori di valutazione – l'aveva incoraggiata il ragazzo, quando la donna gli aveva detto quanto fosse furiosa con Pirovano per quello che aveva fatto – ma è anche vero che di qualcuno dobbiamo pure fidarci... E se a volte lo facciamo seguendo il cuore, chi ci può biasimare?”

La Leonessa l'aveva ringraziato per l'appoggio e Scipione l'aveva sostenuta di nuovo, dicendole che, comunque sarebbero andate le cose, su di lui avrebbe davvero potuto contare sempre.

Rincuorata da quello scambio di battute, mentre fuori già c'era buio, e solo dopo aver scelto la squadra di costruttori che avrebbero risistemato i danni causati dai bombardamenti francesi di quel giorno e il manipolo di uomini da portare in spedizione con sé, la Contessa si era preparata ad affrontare Giovanni da Casale.

Arrivò davanti alla porta della sua stanza e si rese conto di non sapere ancora cosa dirgli. Avrebbe voluto essere capace di concentrare in due o tre frasi al massimo tutta la sua delusione e la sua rabbia, fargli capire che quello era stato un errore ai limiti dell'imperdonabile e che se non aveva lasciato che gli altri lo linciassero era stato solo per una debolezza del momento, per non riconoscere il proprio fallimento, il proprio errore nello scegliere uno come lui da mettere a capo della cittadella.

Quando l'uscio si aprì, richiudendosi di scatto alle spalle della Tigre, Pirovano si alzò immediatamente dal letto su cui era seduto e si mise a fissarla, le labbra serrate così strettamente da sembrare un sottile filo biancastro. I suoi occhi tradivano l'impazienza di chiarirsi, ma, allo stesso tempo, il terrore di quello che la sua amante avrebbe detto se solo ci avesse provato.

Il mutismo della Tigre colpì l'uomo come un pugno. Lei non lo guardava nemmeno. Era entrata in stanza e gli era passata accanto, cupa, senza degnarlo di uno sguardo. Si era messa a cercare degli abiti nella cassapanca e poi era andata all'armatura, sistemata con cura, sul suo sostegno di legno.

A poca distanza, in terra, c'erano i pezzi dell'armatura di Pirovano, che, arrivato lì con ancora tutto addosso, non osando lasciare la camera, non aveva saputo dove altro sistemarli.

“Non mi parli?” chiese lui, con un filo di voce, dopo che il silenzio si protrasse per quasi dieci minuti.

“Cosa dovrei dirti?” ribatté lei, stringendo poi i denti, mentre iniziava a cambiarsi.

Il milanese deglutì e, sollevando le sopracciglia, balbettò: “Io... Io... Tu non... Tu non sai com'è stato... Ci hanno... I pezzi di mura non...”

“Hanno usato i cannoni anche contro questa rocca.” gli fece presente lei, tenendogli le spalle: “Ma nessuno, nemmeno i bambini, hanno fatto come te.”

Pirovano deglutì un paio di volte, la gola che si seccava sempre di più, capendo che, forse, stava incappando nella peggiore delle reazioni che poteva avere la sua amante: l'indifferenza, la stessa gelida indifferenza che Caterina aveva sempre riservato a quelli che disprezzava.

“Avrei dovuto ragionarci di più, ma...” riprese a dire il giovane, impacciato, desideroso di far scattare, nel bene e nel male, qualcosa nel petto della Sforza.

“Avevi giurato.” disse lei, restando apparentemente impassibile, ma lasciando i vestiti appena presi sul letto.

Giovanni comprese di essere vicino al punto di rottura. Doveva sfruttare il momento. La Tigre era fatta così: se esplodeva, poi si calmava, ragionava e, a volte, perdonava perfino. L'importante era darle uno sfogo, prima che la rabbia si tramutasse in odio.

“Avrei dovuto morire là? Senza di te? Per una guerra che... Che diamine, non dirmi che credi davvero che serva, a questo punto...” insistette lui, allerta, sapendo che presto sarebbe arrivata la deflagrazione.

“Avevi giurato!” gridò, infatti, la Leonessa, avventandoglisi contro e prendendolo per il collo, cogliendolo alla sprovvista.

Mentre l'uomo sentiva il fiato venirgli meno e la vista appannarsi, cercava disperatamente di staccarsi le mani dell'amante dalla gola, ma quella morsa sembrava fatta d'acciaio. La proverbiale forza sovrumana della Contessa si stava mostrando in tutta la sua potenza.

“Che razza di uomo sei?!” continuò Caterina, stringendo ancora di più, non riuscendo a valutare l'intensità della propria presa: “Spergiuro! Vile! Meschino! E io che mi sono anche fidata!”

Solo quando vide il volto di Pirovano cambiare colore, la donna comprese e lo lasciò di colpo. Tra colpi di tosse e respiri spezzati, Giovanni, in ginocchio in terra, tentò di tornare a dar aria ai polmoni, mentre la Tigre faceva del suo meglio per calmarsi, non riuscendoci.

“Avrei dovuto lasciarti in pasto ai soldati!” esclamò: “Ti avrebbero fatto a pezzi! Hai regalato ai francesi la nostra miglior possibilità di sopravvivere!”

“Ti prego... Ti prego...” gracchiò lui, la voce ancora incerta e una mano a sfiorarsi il collo rosso fuoco: “Ti prego...”

“A me serve un uomo. Non un bambino.” mise in chiaro la Sforza, fissandolo con aperto disgusto, e spostandosi indietro di mezzo passo, in modo che il braccio teso di lui non potesse raggiungerla in alcun modo: “Se solo invece di te mi fosse rimasto Manfredi...”

Quell'inciso fece a Pirovano più male di qualsiasi altra cosa. Sapeva già di essere una seconda scelta, e aveva imparato a conviverci, ma sentir evocare il fantasma del faentino proprio in quel momento, lo fece crollare.

Scoppiando a piangere come mai in vita sua, Giovanni rimase in terra, il volto quasi contro il pavimento, le parole che si rincorrevano senza senso, insieme ai singhiozzi. In quel momento, il disprezzo della Tigre si tramutò in pietà. In colui che aveva davanti, prostrato ai suoi piedi, non vedeva più un giovane soldato, aitante e coraggioso, abilissimo con la spada e a cavallo, ma un ragazzino terrorizzato, incapace di gestire il carico emotivo di una guerra, figurarsi di un assedio tanto disperato.

Sfinita, la donna si sedette sul letto e si prese la testa tra le mani. Pirovano, troppo concentrato su se stesso, si accorse di quel gesto solo in seconda battuta. Quando la vide in quello stato, si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Tirò su con il naso un paio di volte e poi, schiarendosi la voce, si rialzò a fatica.

Circospetto, le si avvicinò e si inginocchiò davanti a lei: “Perdonami.”

“Quello che farai da oggi in poi sarà una prova continua.” lo redarguì lei: “Al primo errore, per me tu sei morto.”

L'uomo deglutì, annuendo piano. Quando sentì la mano della sua amante passare tra i suoi capelli corvini, sollevò gli occhi verso di lei e, per la prima volta da che la Sforza era arrivata, incrociò le sue iridi verdi. Anche lei sembrava vicina alle lacrime, ma quando parlò lo fece di nuovo con la stessa freddezza di poco prima.

“L'unica cosa che ti chiedo, per ora, è di non fare altri danni.” gli disse: “Segui gli ordini e basta.”

“Se... Se posso... Se posso, voglio rendermi utile.” provò a dire lui.

Caterina lo guardò in tralice, sorpresa dalla sfacciataggine che il milanese stava dimostrando nel continuare a parlare. La cosa che la fece soffrire di più, però, fu scoprirsi di nuovo debole nei suoi confronti. Lo trovava ancora bello come la prima volta in cui l'aveva visto. Anche se non c'era quasi più nulla del condottiero fiero e altero che l'aveva catturata quel lontano giorno, il suo volto era lo stesso che la Sforza aveva guardato quando non aveva trovato nessuno con cui condividere le notti insonni, le sue mani erano le stesse che aveva cercato quando si era sentita sola, le sue spalle erano quelle cui si era aggrappata nel tentativo di sentirsi ancora viva dopo tutte le beffe del destino. Le sue labbra erano le stesse che aveva baciato già centinaia di volte, e ora le voleva di nuovo.

“Se vuoi renderti utile – gli sussurrò, dopo aver dato un rapido bacio – ci sono due cose che puoi fare per me, oggi. E per domani se ne parlerà.”

“Tutto quello che vuoi.” si offrì all'istante lui, ricadendo di nuovo nella trappola delle promesse facili, ma, stavolta, con maggior convinzione di riuscire a essere fedele alle proprie proposizioni.

“Prima di tutto, mi aiuterai a mettermi l'armatura.” iniziò la Leonessa, mentre lui annuiva: “E poi...”

La voce della Contessa esitò un solo istante, mentre il soldato cercava un contatto più deciso, allungando una mano verso la gamba di lei. Giovanni era ancora inginocchiato, e la fissava, con il volto rivolto verso di lei e gli occhi pieni di attesa.

“E poi...” la Contessa si lasciò scappare un profondo sospiro, prima di concludere: “E poi ti farai trovare pronto, per quando tornerò.”

Siccome Pirovano aveva stretto un po' le palpebre, come quando si chiedeva se avesse o meno compreso bene qualcosa, Caterina si sentì in dovere di specificare meglio.

“Visto che dici di aver abbandonato la cittadella solo per poter stare con me, almeno mi eviterai di cercare qualcuno con cui passare il resto della notte, voglio sperare.” il tono della donna si era fatto sbrigativo, quasi scorbutico, dando al milanese la sensazione che, in un modo o nell'altro, le cose tra loro fossero tornate alla consueta normalità.

“Mi troverai pronto.” assicurò lui.

“Magari fatti anche un bagno.” propose lei, scorgendo sul suo volto ancora i segni dell'ultimo scontro, quello che l'aveva visto fuggire come un codardo.

Pirovano non recriminò, chiedendosi però tra sé come fare una simile richiesta alla serva personale della Leonessa senza suscitare commenti inopportuni. Anche se la Sforza promuoveva l'igiene tra le truppe, l'uomo pensava che non fosse proprio il momento di sprecare acqua e forze per concedere a lui un bagno...

“Avanti. Comincia a prendere le piastre...” lo incitò la Leonessa, iniziando a cambiarsi: “La sortita parte tra non molto, ormai, e io voglio essere pronta prima dei miei soldati. È così che deve fare chi comanda: il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene.”

Quella stoccata, chiaramente riferita alla defezione di Giovanni, turbò ancora per qualche secondo il milanese, che, però, cercò di non pensarvi più concentrandosi sulla vestizione della sua amante.

“Stai attenta.” le sussurrò, mentre finiva di prepararla: “Non farti uccidere.”

“Non preoccuparti.” tagliò corto lei, controllandosi allo specchio: “Non ho intenzione di andarmene così presto...”

“Vuoi legarti i capelli, prima di mettere la cuffietta..?” chiese l'uomo, prendendo sia la cottina di maglia, sia l'elmo.

Caterina ci pensò un solo istante e poi, scuotendo il capo, ribatté: “No. Combatterò a volto scoperto e coi capelli sciolti.”

“Ma...” provò a opporsi Pirovano, che vedeva in quella decisione un chiaro controsenso rispetto a tutte le regole del buon combattere che la stessa Sforza aveva sempre patrocinato con i suoi soldati, primo tra tutti non fare dei propri capelli un facile appiglio per il nemico.

“I francesi si sono spaventati, la scorsa notte, quando mi hanno riconosciuta.” spiegò lei, non ammettendo più repliche: “Che mi vedano di nuovo. Che vedano che io scendo in prima linea, al contrario del loro Duca di Valentinois. Che si spaventino. Che mi credano una strega. In guerra è tutto lecito.”

Giovanni non fece commenti, stringendosi un po' nelle spalle, come se si stesse trattenendo dall'esprimere il proprio dissenso. La Contessa lo capì e così preferì chiudere la questione, prima che il suo amante la facesse innervosire una volta di troppo.

Sfiorandogli il viso ispido di barba nera, gli diede un altro bacio, questa volta con un calore diverso, a simboleggiare una sorta di armistizio, fortemente voluto, per quanto difficile da concedere.

“Mi raccomando.” concluse lei e poi, senza aggiungere altro, andò alla porta e uscì.

 

Cesare si rigirò tra le mani la lettera che gli era appena stata consegnata. Giungeva da Firenze, e ci aveva messo un'eternità, per arrivare.

Il ragazzo sospirò, indeciso sul da farsi. Era in piedi in mezzo alla sua stanza e i suoi occhi continuavano a correre un po' alle fiamme morenti nel camino e un po' alla grafia nervosa e scostante del fratello.

Ottaviano aveva rischiato moltissimo per fargli avere quel messaggio. Se fosse stato intercettato, o anche solo se uno dei servi del palazzo vescovile avesse allungato l'occhio e sbirciato le sue parole, tutta la copertura finemente intessuta dalla Tigre negli ultimi mesi sarebbe crollata di colpo.

Il Riario non sapeva come muoversi. Da un lato, avrebbe voluto distaccarsi da tutta quella questione: la sua famiglia, ormai, era la Chiesa, quella stessa Chiesa che aveva dichiarato illegittima la Contessa e che aveva deciso per una guerra, pur di riprendersi la Romagna.

Dall'altro, però, Cesare era ben cosciente del peso che avrebbe potuto avere, proprio essendo parte di Santa Madre Chiesa, e non tendere la mano ai fratelli e alla madre gli pareva un gesto troppo egoista, per un uomo che aspirava alla santità, o, quanto meno, a una vita con pochi peccati.

Avrebbe dovuto, in quella Santissima Antivigilia, pensare solo a mondarsi l'anima, a pregare per i peccatori e ad adoperarsi come meglio poteva per i fedeli. Alle porte c'era il Giubileo Straordinario, che sarebbe iniziato di lì a due giorni, proprio mercoledì, in corrispondenza del Santo Natale, e dunque era a quel meraviglioso evento che doveva pensare.

E invece la sua mente continuava a riportarlo a Forlì. Gli sembrava quasi di vedere le battaglie, di sentire sua madre gridare e dare ordini ai soldati. Arrivava quasi a sentire l'odore del sangue che veniva ingiustamente versato... E poi vedeva i suoi fratelli, esuli a Firenze, in cerca di un sostegno, di qualcuno che, come lui, potesse aiutarli a uscire indenni da quella traversia.

Affranto, diviso tra due scelte diametralmente opposte, il giovane deglutì e ripiegò la lettera di Ottaviano. Fuori pioveva e poteva quasi immaginarsi Pisa avvolta nel malinconico buio di una serata di pioggia. Era in momenti come quello che rimpiangeva il calore di una famiglia. Non della sua famiglia, perché, fin da bambino, esclusi forse i primissimi anni di vita, i suoi parenti gli avevano dato sempre molto, veramente molto poco calore.

Rimpiangeva la possibilità di un focolare caldo, di potersi specchiare negli occhi di qualcuno che lo capisse e lo sostenesse appieno. Da quando aveva intrapreso il percorso religioso, invece, anche quei pochi contatti che aveva con la famiglia d'origine si erano via via allentati e, ora che viveva a Pisa ormai da un po', anche solo parlare dei Riario lo straniva. Era come se fossero persone a lui collegate, ma verso cui non fosse tenuto a provare nulla, né affetto, né simpatia, né odio: solo indifferenza.

Eppure... Cesare si stropicciò con forza le mani l'una con l'altra e mosse qualche passo nella sua stanzetta, un ambiente molto piccolo, quasi angusto, per qualcuno che aveva il suo nome e la sua carica. Sentiva il cuore rullare veloce, l'anima quasi spaventarsi e la bocca farsi impastata.

Non sapendo più come gestire quell'onda emotiva che lo stava suo malgrado travolgendo, il Riario si appellò all'unica ancora di salvezza che sapeva di avere. Andò svelto all'inginocchiatoio e prese posto, giungendo le mani con forza, quasi con violenza, mettendosi a pregare Dio, affinché gli dicesse cosa fare o, almeno, lo perdonasse nel caso in cui avesse fatto la scelta sbagliata.

 

Quella sera la sortita tra i soldati francesi si era preannunciata più complicata del solito. Oltre a voler colpire una zona ancora diversa del campo nemico, più lontana dalla rocca rispetto alle precedenti, la Tigre doveva fare i conti con una truppa ancora in parte perplessa per la difesa sperticata che lei aveva concesso a Giovanni da Casale.

Nessuno di quelli che aveva scelto per la spedizione aveva un atteggiamento a lei chiaramente ostile, ma alcuni di loro apparivano un po' meno carichi, rispetto alle notti passate, come se quel loro sforzo eroico, in fondo, fosse inutile.

La Contessa aveva fatto loro un breve discorso, prima di lasciare Ravaldino. Non l'aveva fatto, le volte precedenti, ma quella notte sapeva di aver bisogno di motivare come non mai i suoi uomini.

Li aveva chiamati amici, fratelli, aveva rispolverato le parole che, da piccola, le avevano raccontato dicesse anche suo nonno. Non era stato molto, ma era bastato per far uscire la compagnia a gran velocità, e silenziosamente, un cavallo dopo l'altro, diretti alla ventura.

Lo scontro era stato molto violento. Esattamente come se si ripetesse una scena già vista, all'inizio i francesi si erano lasciati cogliere di sorpresa, ma poi avevano cominciato a reagire.

La decisione della Leonessa di mostrarsi senza elmo, però, aveva fatto la differenza. Alla luce incerta di qualche torcia, sotto l'acquerugiola gelida di quella notte che li avrebbe traghettati alla Vigilia di Natale, i capelli lunghi e bianchi di Caterina sembravano una fiamma d'argento. I nemici la riconobbero in fretta e molti di loro scapparono, terrorizzati dalla sua presenza, come se invece di una donna si fossero trovati davanti un fantasma.

La Sforza ne approfittò in ogni modo, spronando il suo stallone in modo che si imbizzarrisse più volte, che scalciasse, che mostrasse i denti a quelli che provavano ad avvicinarglisi. Proprio mentre riassorbiva il contraccolpo di un sollevamento sulle zampe posteriori, però, la milanese ebbe l'esatta percezione della temerarietà delle sue azioni.

Stringendo le briglie con una mano e lo spadone con l'altra, la donna si era chinata un po' verso il collo del suo purosangue, non accorgendosi di un francese munito di mazza che si stava avvicinando in corsa. Quando lo vide, non fece in tempo a sottrarsi alla sua presa. L'uomo l'afferrò con precisione per i capelli, facendola sbilanciare e cadere in terra.

L'impatto con il suolo – malauguratamente una delle poche strade di Forlì coperte di ciottoli di pietra – le tolse il fiato. Aveva perso l'orientamento, ma almeno non aveva battuto la testa. Cercava di capire dove fosse il suo cavallo, ma tutto le sembrava confuso.

L'unica cosa che scorse con precisione fu la mazza che calava verso di lei. La paura le raggelò il sangue. La consapevolezza che tra la vita e la morte correva un soffio le diede un brivido che la percorse per intero.

Come succedeva quando mulinava lo spadone durante la battaglia, il suo corpo reagì prima del suo cervello. Rotolò di lato, e il suono fragoroso della mazza coperta di chiodi che impattava sulla pietra proprio accanto a lei le diede la forza di alzarsi in fretta, come se non indossasse un'armatura che pesava poco più della metà di quanto pesasse lei.

Il francese rimase spiazzato da quella prontezza e per qualche secondo restò immobile. La Tigre non aveva più lo spadone, e nemmeno lo vedeva, in quella confusione. Senza trovare di meglio, sferrò un pugno sul volto del nemico, fracassandogli il naso con la mano guantata di ferro e spaccagli il labbro. Egli si portò le mani alla faccia, in un gesto istintivo, lasciando cadere la mazza.

La Sforza la raccolse, e lo colpì in testa, uccidendolo sul colpo. Con quella stessa arma, fece il vuoto attorno a sé, avvezzandosi in fretta a un tipo di lotta che non le piaceva particolarmente, ma in cui la sua forza fisica poteva fare la differenza.

Mentre respingeva i francesi, sentendo le loro grida mentre morivano e inzuppandosi del loro sangue ogni volta in cui spaccava loro il cranio, la donna cercava con lo sguardo il suo stallone nero. Non voleva nemmeno pensare di averlo perso. Era una bestia così particolare e intelligente che non avrebbe saputo come rimpiazzarla degnamente. E poi gli era affezionata.

Passarono ancora una ventina di minuti, durante i quali la Contessa recuperò finalmente una spada e poté abbandonare la mazza.

“Il mio cavallo!” gridò, quando incrociò Vincenzo, figlio di Bruno, nel mezzo del tafferuglio.

“L'ho visto!” rispose lui, mandando a terra un nemico con un calcio e pestandogli il volto con il tacco munito di sperone: “Cercate là!”

La Sforza guardò dove l'uomo indicava e, in effetti, finalmente vide il suo purosangue, che scalciava e nitriva come un pazzo, facendo più danni da solo che l'intero manipolo uscito da Ravaldino.

Ignorando la battaglia, correndo come se non avesse nulla di più importante da fare se non recuperare la sua bestia, Caterina lo raggiunse. Anche se con le froge dilatate e gli occhi sgranati dall'agitazione, il cavallo la riconobbe subito e, fattosi docile, la lasciò montare in sella.

La Leonessa strinse le redini, soddisfatta, e guardò il campo di battaglia davanti a sé. La via era piena di corpi in terra, molti più francesi che forlivesi, ma comunque i suoi caduti erano troppi. Il danno che avevano fatto era grosso, ma a breve sarebbero stati sterminati.

“Alla rocca!” gridò, sapendo che era il momento di rientrare: “Tutti alla rocca!”

Alla sua voce, quelli appiedati vennero recuperati da quelli che avevano ancora un cavallo, mentre i feriti gravi e i morti rimanevano in terra, sacrificati in nome di una strenua resistenza che, come aveva cercato di farle capire Pirovano solo poche ore prima, sembrava a tutti ormai inutile.

 

 
   
 
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