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Autore: Adeia Di Elferas    17/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Giovanni da Casale stava aspettando, nella stanza della Tigre. Aveva deciso che era giusto fare come lei gli aveva consigliato e così non si era fatto vedere in giro nemmeno per mangiare qualcosa, preferendo dare ordine ad Argentina di portargli una piccola cena direttamente in camera.

La serva, che già aveva provveduto a preparargli il bagno, l'aveva guardato con un po' di insofferenza, morsicandosi la lingua appena prima di dirgli chiaramente che lei serviva la Contessa e non i suoi amanti. Anzi, per sottolinearlo, dopo avergli portato da mangiare, non si era minimamente sognata di portar via la tinozza del bagno, lasciandola là dov'era, ancora piena d'acqua, ormai fredda.

L'uomo non si era nemmeno accorto dell'atteggiamento un po' ostile di Argentina, perché era troppo concentrato su se stesso e sugli oggetti che lo circondavano.

Quelle ore di attesa si stavano trasformando in un incubo. Dapprima, Pirovano si era perso a guardare le coste dei libri ammonticchiati vicino alla scrivania, arrivando a capire, dopo un po', quale fosse la loro provenienza, ovvero la sala delle letture. Poi aveva guardato con sottile ironia l'inginocchiatoio coperto di vestiti, ma quella vista gli aveva riportato alla mente i sospetti che aveva nutrito nei confronti di Vangelista Monsigani nei giorni prima di essere distaccato in via definitiva al Paradiso.

Da lì tutto era peggiorato, come in una spirale. Gli oggetti che erano appartenuti a Giovanni Medici attiravano il suo sguardo, facendolo sentire inadeguato e di troppo. Il sostegno ligneo, in quel momento vuoto, dell'armatura di Caterina lo faceva sentire un pusillanime, un parassita che se ne stava tranquillo seduto a letto, mentre la sua donna era là fuori a rischiare la vita.

E poi... Il milanese, soprappensiero, si era coricato, mettendosi a fissare il soffitto. Nel fare ciò, aveva allargato le braccia, accarezzando le lenzuola, e poi aveva girato un po' la testa, verso il cuscino, attirato da un odore che stonava. Non era quello della sua amante. Annusò meglio e tanto gli bastò per scattare in piedi di colpo.

Mettendosi a guardare il letto come se fosse stato fatto di spine, Pirovano rimase in piedi in mezzo alla stanza, le braccia incrociate sul petto, incapace di accettare l'idea che la sua amante avesse avuto altri uomini, mentre lui era alla cittadella. Era una sconfitta cocente, per lui. Anche se, in tutta coscienza, sapeva che la Tigre non era una donna fedele – o almeno, non fedele a lui – si era illuso che anche lei si struggesse per la sua mancanza, rifuggendo la compagnia di altri...

Deglutendo a fatica, Giovanni cercò di calmarsi. Non poteva, anzi, non voleva fare una scenata alla Leonessa, quando fosse tornata. Sempre che tornasse...

Corroso dalla paura di saperla morta sul campo e dalla gelosia, il milanese decise di andare avanti nella sua veglia in quel modo: standosene in piedi, immobile, ad attendere. In fondo, anche volendo, che altro avrebbe potuto fare?

Un colpo di cannone lo fece sobbalzare. Dal suono, pensò, doveva essere stato sparato dalla rocca.

Quel dettaglio non lo tranquillizzò nemmeno un po'.

 

Il rientro a Ravaldino era stato più complicato del previsto. Caterina aveva cercato di guidare i suoi lungo la via più breve, ma i francesi avevano comunque fatto in tempo a organizzarsi e avevano iniziato di inseguirli.

Quando la Tigre se n'era accorta, aveva provato una virata improvvisa, per confondere i nemici, ma era servito a poco. Si era resa conto che la coda del manipolo dei suoi soldati si stava sfoltendo: gli ultimi, quelli coi cavalli più deboli e lenti, o quelli più in difficoltà perché feriti, restavano indietro e venivano disarcionati e uccisi.

Quella vista le era intollerabile e così si era messa a gridare, per incitare i suoi, spronando il suo stallone a dare il massimo. Quando erano stati in prossimità della rocca, la Leonessa aveva sollevato un braccio, in un gesto concordato con Alessandro giorni prima. Sperava che il fratello se lo ricordasse: non ne avevano più parlato, anche perché, forse, entrambi si erano convinti che non sarebbe mai stato necessario ricorrere alla copertura dell'artiglieria per una di quelle uscite.

Lo Sforza, però, che attendeva con ansia la sorella, era sui camminamenti e riconobbe immediatamente quel gesto, dando subitaneo ordine agli artiglieri di far partire un paio di colpi di cannone di copertura, a costo di centrare per sbaglio anche qualcuno dei propri soldati.

Varcare l'ingresso della rocca, era stato come non mai un sollievo per tutti i superstiti.

La Leonessa aveva ragguagliato in fretta il Capitano Mongardini, pregandolo di riferire ogni cosa ad Alessandro e poi, controllati i feriti e date disposizioni riguardo la loro cura, era salita in camera.

Come previsto, Giovanni la stava aspettando. La donna, però, guardò prima la tinozza d'acqua ancora in stanza, che non il giovane.

“Avanti, sbrigati...” gli ordinò: “Levami di dosso tutto questo ferro. Voglio sciacquarmi via tutto questo schifo...”

Pirovano, che fino a quel momento aveva rimuginato su cosa dirle quando l'avesse rivista, non riuscì a profferir parola. Si adoperò immediatamente a fare quello che gli era stato ordinato e poi la guardò mentre si cavava gli ultimi abiti e si avvicinava alla tinozza.

“L'acqua sarà fredda...” sussurrò lui, vedendo la Sforza scavalcare l'alto bordo di legno e immergersi.

“Sai quanto me ne importa...” sbuffò lei, dopo essere tornata a galla con la testa, iniziando a sfregarsi il volto e le mani per togliere il sangue: “Stanotte sono stata a un passo dalla morte. Che l'acqua sia fredda, per me, ormai, è solo un dettaglio...”

Pirovano si adombrò un momento. Avrebbe voluto chiedere a cosa si riferisse di preciso la Tigre, se il suo fosse un discorso generico, dato che, comunque, in battaglia la vita era sempre in pericolo, o se fosse successo qualcosa di particolare che l'avesse sottoposta a un rischio maggiore del solito.

Ci pensò qualche istante, ma poi, rendendosi conto che, in fondo, faceva poca differenza, preferì restare in silenzio a guardarla mentre si ripuliva dal sangue e dal fango.

Caterina si fece passare il sapone e si ripulì con cura, senza tralasciare nemmeno nulla. La sua mente era ancora così concentrata sul brivido che aveva provato nel vedere la mazza chiodata del nemico avvicinarlesi, che non riusciva a ragionare su nient'altro. Non si rendeva nemmeno conto di quanto l'acqua fosse in effetti fredda.

Solo dopo quasi venti minuti, la donna finalmente riuscì a uscire un po' dalla gabbia mentale in cui si era chiusa e si guardò in giro, fissando, poi, il suo amante.

“Spogliati.” gli disse, mentre la temperatura bassa dell'acqua la faceva rabbrividire.

Giovanni si accigliò, rispondendo in modo più burbero del voluto: “No. Esci dalla tinozza e spogliami tu.”

“Perché non vuoi fare quello ti dico?” indagò lei, i nervi ancora a fior di pelle e l'animo inconsciamente pronto a una nuova battaglia.

“Perché non sono qui solo per farmi guardare o solo per darti piacere.” si difese lui, sperando che lei capisse quanto lui si era sentito sminuito da quel comando.

“Credevo di sì, invece.” ribatté lei, fredda, per poi sbuffare, lasciando la tinozza e dicendo: “In ogni caso... Hai ragione: faccio prima a fare per conto mio.”

Senza nemmeno prendersi il disturbo di asciugarsi, lasciando così sul pavimento di cotto grandi chiazze d'acqua, la Sforza gli si avvicinò e, senza dire altro, lo baciò con rabbia, cominciando a svestirlo.

Il modo in cui le sue labbra, la sua lingua e perfino i suoi denti l'avevano cercato, aveva quasi fatto male a Giovanni che, però, non si era ritratto, per paura che lei prendesse la sua ritrosia come un affronto gratuito. Ormai la conosceva da un po', e iniziava a capire certi suoi ragionamenti.

Caterina non stava più ragionando, su nulla. Sentiva l'odore di pulito che arrivava dalla pelle del suo amante, calda sotto le sue labbra e viva sotto le sue dita. L'unica cosa che voleva, in quel momento, era annientarsi completamente perdendosi in lui.

Pirovano la lasciava fare, soggiogato dalla sua presenza, così terrena ed esigente da fargli dimenticare quasi tutto il resto. Era anche per quello che era venuto meno al suo dovere, lasciando la cittadella.

“Non prendi la tua pozione..?” chiese lui, colto da quel dubbio improvviso.

“L'ho finita.” rispose lei, quasi senza dar peso a quella domanda.

“Ma...” provò a dire lui, allontanandola appena.

Quel gesto bastò a far infuriare la Leonessa che, tornando a reclamarlo, ribatté, con voce bassa e implacabile, così ferale da far rabbrividire il milanese: “Tanto, se anche aspettassi un figlio, alla fine morirebbe con me sotto le macerie di questa rocca. Non ha senso preoccuparsene.”

Giovanni rimase di ghiaccio, davanti a una simile affermazione e, scostandola di nuovo, proprio mentre lei cominciava a spingerlo, verso il letto, chiese: “Hai avuto altri uomini mentre io ero al Paradiso?”

“Ti sembra questo il momento?” domandò lei di rimando: “Specie dopo quello che hai fatto, lasciando il tuo posto...”

“Hai avuto degli altri.” insistette lui, togliendo il tono interrogativo: “L'ho capito dalle lenzuola. C'è il tanfo di un altro uomo e...”

“Quanto sei delicato.” lo sbeffeggiò la Sforza, esasperata dalla stanchezza dovuta alla battaglia, dalla voglia di farlo suo dopo tanto tempo e dal mal di schiena, che cominciava a farsi sentire, là dove aveva impattato con il suolo: “Parli come se non ti fossi mai fermato a dormire in una locanda qualsiasi, dove le lenzuola sono ben più sporche di queste.”

“Ma tu le fai cambiare sempre.” fece lui, cogliendo un pretesto per continuare il dibattito.

Veramente oltre il limite di sopportazione, la donna gli diede uno spintone, facendolo piombare sul letto e si mise sopra di lui, parlando in fretta, facendogli capire che non aveva intenzione di perdere tempo con altre discussioni: “Argentina non può cambiarmi le lenzuola ogni giorno, adesso. Ci sono troppe cose a cui pensare e troppe persone a cui badare. Siamo in guerra: qualche sacrificio va fatto, e, dunque, anche se preferisco lenzuola pulite ogni giorno, mi devo adattare, come tutti.”

Pirovano avrebbe voluto continuare il discorso, ma ormai era pienamente nelle mani della sua amante e così, mentre lei si chinava su di lui per baciarlo, bagnandogli il volto coi capelli ancora gocciolanti, anche lui decise che la gelosia, in un momento del genere, era solo un dettaglio trascurabile.

 

La sequela di bestemmie che riempì la bocca di Cesare Borja lasciò basito perfino Don Giuliano di Ligny, che pure, vivendo in mezzo ai soldati, era abbastanza abituato a sentir parlare in modo sboccato.

“Quella... Quella..! Ah! Non so nemmeno come definirla!” terminò, con un grido disarticolato di pura rabbia, il figlio del papa, per poi aggiungere, con un briciolo di calma in più: “Giuro sulla mia stessa testa che quando la catturerò, le farò passare le pene dell'inferno, dovessimo chiuderci in stanza per una settimana intera, giuro che le farò rimpiangere di essere venuta al mondo!”

“Se posso dire la mia – si intromise l'Aubigny, rimasto impassibile fino a quel momento – la nostra nemica ha dimostrato più intelligenza di tutti noi messi insieme.”

Il Valentino puntò gli occhi in quelli glaciali del comandante francese e sollevò appena il labbro superiore, in un gesto istintivo di aggressività, ma non disse nulla, lasciando che fosse lui a continuare.

“Ha capito che i nostri soldati sono dei superstiziosi e ha capito anche che mostrandosi li può indebolire, perché ne hanno paura.” fece l'uomo, accavallando le gambe e giungendo le mani sul ginocchio: “Ha rischiato, ma l'ha fatto con ragion veduta. Ha ottimizzato le sue risorse.”

“Non capisco dove vogliate arrivare, con i vostri bei discorsi.” borbottò Giampaolo Baglioni, appoggiato alla parete affrescata della bella sala da ricevimento di palazzo Numai.

“Da nessuna parte.” soffiò l'Aubigny, stirando le labbra sottili in un sorriso diafano: “Sto solo mettendo in evidenza i fatti.”

“Tante belle parole, ma poco utili.” ribatté secco Baglioni.

“Se avete ancora voglia di chiacchierare, invece di fare il vostro lavoro, io..!” il Borja si stava per rimettere a gridare, quando nel salotto entrò, quasi di corsa il Duca di Vendôme.

“Il Cardinale Borja, vostro cugino, sta per entrare in città!” esclamò l'uomo, rivolgendosi a Cesare.

Maledicendo il parente per quel pessimo tempismo, il figlio del papa si schiarì la voce e poi decise in fretta: “Ebbene, anche se non l'aspettavamo che tra qualche giorno, ordino che si prepari per lui un gran banchetto, questo mezzogiorno, e che gli si taccia delle sortite notturne della Sforza, nonché di tutto quanto. Sarò io a decidergli cosa dirgli e quando.”

Mentre gli altri borbottavano tra loro, il Duca di Valentinois si fece dare il mantello pesante dal suo attendente e camminò veloce fino in strada. Lì, facendo cenno a due guardie affinché lo scortassero fino al limitare della città, maledisse anche il cielo grigio che prometteva pioggia, nonché il terreno fangoso e scivoloso e, ancor di più, la Sforza che, con la sua sorda insolenza, invece di arrendersi gli aveva mostrato i denti, impedendogli, così, di dare il benvenuto al cugino Cardinale in una città già del tutto sottomessa.

 

“Non attaccano oggi.” soppesò Caterina, stringendo gli occhi per guardare verso l'artiglieria nemica, tutta schierata, ma silente fin dal primo mattino: “Deve essere successo qualcosa.”

“Attacchiamo noi?” domandò Alessandro Sforza, sollevando un sopracciglio.

“No.” rispose la Tigre, appoggiando i palmi delle mani alla pietra fredda delle merlature: “Prima voglio vederci chiaro.”

Lo Sforza fu sul punto di ribattere, ma Giorgio Attendolo, che era lì con loro, parlò prima di lui, esclamando: “Siete il miglior comandante che si possa avere!”

La Tigre chinò appena il capo, per ringraziare quel lontano parente e poi chiese: “Prendereste la stessa via che sto prendendo io?”

L'uomo annuì e soggiunse: “Ma ci sarei arrivato dopo un bel po' di ragionamento. Voi, invece, sapete cosa è bene fare prima di tutti noi.”

“Se solo fosse vero..!” sorrise la donna, dando un colpetto sulla spalla al soldato: “Entro un momento. Voglio parlare con il Maestro del Legname, Boschetti, per capire come siamo messi per il legno da camino... E poi passo anche nelle cucine.”

“Non preoccuparti.” fece Alessandro: “Tengo io il punto, qui, mentre sei impegnata.”

“Se hai bisogno, e non è necessario il mio intervento in particolare, rivolgiti pure a Scipione.” si premurò di precisare lei.

Il fratello annuì, trovando, come sempre, curioso il fatto che quel ragazzo avesse catturato così in fretta la fiducia di Caterina. Da quando era arrivato a Forlì, lo Sforza aveva capito che sua sorella era diventata una donna poco incline a fare affidamento sul prossimo. Se da piccola tendeva a pensare bene di tutti, ormai, arrivata a trentasei anni, pareva incapace di provare fiducia istintiva nel prossimo. Scipione era pressoché l'unico esempio.

La cosa che lo stupiva era che quel giovane, a detta di tutti, assomigliava molto al defunto Conte Riario, suo padre. Questo fatto, da solo, teoricamente sarebbe bastato a renderlo inviso alla Tigre per almeno due motivi: innanzitutto era il simbolo vivente dei tradimenti del primo marito e, in secondo luogo, l'odio provato dalla donna per Girolamo era abbastanza noto e, dunque, vedersene davanti una brutta copia non avrebbe dovuto instillarle moti di simpatia, ma l'esatto contrario.

Lambiccandosi ancora su quel dubbio, l'uomo tornò a concentrarsi su suoi compiti, lasciando la Contessa libera di fare quello che aveva annunciato.

La Sforza trovò Boschetti molto velocemente e discusse con lui delle riserve di legname. Per fortuna avevano fatto scorte ingenti, prima dell'inizio dell'assedio, anche se, malauguratamente, buona parte dei ciocchi erano ancora troppo umidi e andavano fatto seccare, prima di poterli usare nei camini.

Tuttavia Francesco le aveva dato delle tempistiche accettabili e, anche se quella situazione fosse durata ancora parecchio, era sicuro che la rocca avrebbe retto e che il riscaldamento non sarebbe mancato.

Soddisfatta dall'atteggiamento positivo di Boschetti, la Leonessa l'aveva lasciato per occuparsi del secondo impegno che si era prefissata: andare nelle cucine, per controllare che tutto fosse in ordine e che le scorte alimentari fossero sempre sotto controllo.

Stava ancora rimuginando sul silenzio dei cannoni francesi, così inatteso, specie dopo la sortita di quella notte, che aveva fatto grandi danni al nemico, quando intravide Baccino proprio vicino alle scale che portavano nei locali di servizio. Il suo primo istinto fu quello di evitarlo, ma poi, capendo che il giovane la stava aspettando, preferì affrontarlo una volta per tutte.

Il corridoio era, come sempre in quel periodo, un continuo via vai di gente, ma il cremonese non si lasciava distrarre, tenendo gli occhi puntati sulla donna come un cacciatore su una preda molto ambita.

Caterina abbassò lo sguardo, per non dover incrociare quello del soldato, ma, quando gli fu vicina, gli chiese: “Mi stavi cercando?”

Baccino raddrizzò un po' le spalle: “Sembra quasi che tu mi voglia sfuggire...”

“La tua impressione è sbagliata. Semplicemente, come prima, non ho bisogno della tua presenza e quindi non ti cerco.” ribatté lei, chiedendosi perché mai avesse ceduto, un paio di notti prima, benché avesse avuto il sentore che concedersi a uno come lui non le avrebbe permesso di chiudere la questione dopo una notte soltanto.

“Allora sarà una mia impressione.” fece lui, poco convinto: “Non mi hai nemmeno più chiamato per metterti l'armatura...”

“Non sei l'unico in grado di fare da scudiero. Anzi, alla tua età non ti senti sprecato, a fare ciò che può benissimo fare un comune paggio?” lo punzecchiò la Tigre, cercando di passare oltre, ma trovando il corpo massiccio di Baccino a impedirle il passaggio.

“Quindi Giovanni da Casale è un comune paggio?” chiese lui, tagliente, fissando la Contessa, per carpirne la reazione.

Il modo in cui le gote di lei arrossirono e la fretta con cui la Tigre farfugliò: “Ma quello che c'entra..!” bastarono a fargli capire di aver fatto centro una volta di più.

In tanti si erano interrogati, quella mattina, su dove fosse Pirovano, dato che in giro per Ravaldino non si era visto. La risposta che si era dato Baccino e che in molti avevano suggerito si stava dimostrando vera: nella camera della Sforza.

“Non voglio che una sola notte rovini tutto tra noi.” fece il cremonese, capendo che era inutile, anzi, dannoso, fare la parte dell'amante geloso e che l'unica possibilità che aveva di recuperare un minimo di vicinanza con la Contessa stava nel dimostrarsi pacifico e più che pronto a stare al proprio posto: “Ho capito: per te non era nulla di importante, mi sta bene. Ma non evitarmi, ti prego.”

Il modo accorato con cui il ragazzo aveva parlato suscitò, senza che lei lo volesse, l'ilarità della Tigre. Il modo in cui rise, però, non aveva tracce di scherno, né di commiserazione. Semplicemente l'incrollabile necessità di riparare le cose, tipica della giovane età di Baccino, aveva dato un momento di leggerezza alla Sforza, permettendole di ridere come non faceva da mesi.

Anche il cremonese parve capire che in quella reazione non c'era cattiveria e così, cavalcando l'onda, sorrise a sua volta, fingendosi molto felice della risata distesa della sua signora, e, anzi, ne approfittò per continuare a parlarle: “Dove stavi andando, prima che ti fermassi?”

Le labbra della Leonessa tornarono subito a farsi serie e i suoi occhi verdi indagatori. Caterina era indecisa se rispondergli o meno, perché l'avevano sempre infastidita gli uomini che, con la pretesa di mostrarsi gentili o protettivi, finivano per voler controllare ogni sua mossa.

Anche Tommaso Feo, a tratti, aveva commesso quell'errore, con lei, senza averne né l'autorità, né il permesso. E forse era stato uno dei motivi che li aveva spinti a scontrarsi, fino a perdersi.

Scacciando a forza il ricordo di Tommaso – sperso chissà dove, o più probabilmente già morto da tempo – la Contessa si risolse a dare una risposta veritiera, ma il più vaga possibile: “Nelle cucine.”

“Oggi è la Vigilia di Natale.” fece notare Baccino.

“E allora?” ribatté lei, cercando ancora una volta di farsi largo per imboccare le scale, e vedendosi ancora negata quella via di fuga da un discorso che, per i suoi gusti, si stava prolungando troppo.

“Ordina una festa.” le suggerì lui: “Per stanotte.”

“Sei pazzo.” sbuffò lei, convinta che una festa di Natale fosse l'ultima delle cose di cui avevano bisogno in quel momento.

“Dico davvero.” insistette il ragazzo: “Che i francesi sentano che non abbiamo paura, ma che, anzi, cantiamo, balliamo, ridiano...”

Quell'idea, che all'inizio le era parsa assurda, improvvisamente guadagnò una nuova attrattiva, per la Sforza, che, corrucciandosi, disse: “Potrebbe essere una buona mossa.”

“La sarà, fidati.” annuì il giovane.

“Già che ci sei...” fece Caterina, ragionando in fretta su come gestire quella nuova situazione: “Fai andare in camera mia frate Monsignani. Devo discutere con lui... Voglio che si tenga anche una Messa di Natale...”

“Monsignani..?” chiese, più freddo di quanto avrebbe voluto, Baccino.

“Lui è uno dei miei Segretari, ed è un frate. Parlando con lui posso organizzare tutto molto più in fretta che parlando con altri.” tagliò corto la Tigre, avvertendo di nuovo la spiacevole sensazione di avere a che fare con qualcuno pronto a farle la morale senza averne il diritto: “E ora scusa, ma devo andare dalle cuoche...”

 

“Ma la situazione com'è?” chiese Juan Borja, asciugandosi le labbra con la manica, mentre un servo di casa Numai gli versava di nuovo da bere.

Il pranzo ordinato dal cugino Cesare era luculliano. Luffo aveva dovuto fare di tutto, pur di trovare i cibi scelti dal Valentino, e cucinarli tutti in tempo era stata una vera impresa, per il suo personale di cucina. La cosa che l'aveva fatto arrabbiare, malgrado cercasse di vivere quei giorni con il maggior distacco possibile, era vedere ogni singola pietanza – costatagli così tanti soldi, fatica e tempo – finire nella vorace bocca del Cardinale senza nemmeno essere gustata. Lo stesso valeva per il vino: alcuni dei nettari migliori della sua cantina, tenuti come oro per anni, stavano finendo nello stomaco del Borja mescolandosi in un intruglio confuso, vanificando l'affinamento che era costato a volte due o tre decadi.

“Sotto controllo, tutto sotto controllo...” sorrise Cesare, intingendo un po' di pane nell'intingolo a base di carne e verdure che aveva davanti: “Stiamo facendo riposare un po' i soldati, perché... Be', insomma... Conquistare la rocca è cosa da poco. La campagna è ancora lunga e quindi ci conviene riprendere le forze adesso...”

Il cinquantatreenne Cardinale Presbitero, nonché Vescovo di Ferrara, annuì e poi, stringendo appena le palpebre, domandò: “Quindi credete che strappare la rocca dalle mani di questa famigerata Tigre di Forlì sarà semplice?”

“Se avessi voluto, l'avrei già presa.” minimizzò il Duca di Valentinois, tradendo appena la sua tensione nel rovesciare un po' di vino mentre si portava il calice alle labbra: “Ma, come ho detto, voglio approfittare di questo momento per far riposare le truppe.”

“Siete saggio.” annuì Juan, ricominciando a mangiare.

“Sapete cosa?” fece Cesare, non riuscendo a trattenersi, felice di aver vicino un consanguineo, per quanto a lui poco conosciuto, con cui parlare un po' più liberamente che con gli altri, pur nascondendogli il grande danno che l'esercito della Sforza gli stava causando: “L'unico problema di questa città è la gente che l'abita.”

“Che intendete?” l'altro Borja sembrava molto curioso, tanto da smettere addirittura di spolpare il cosciotto di pollo che aveva tra le dita unte.

“Che le loro lamentele sono continue e assurde! Si lamentano di ogni cosa!” sbottò il figlio del papa, battendosi le mani sulle cosce: “E si lamentano perfino che quella donna, appena ne ha avuto l'occasione, li ha fatti a pezzi con le sue mani, con la scusa di vendicare uno dei suoi amanti! Lo farei anche io, se avessi del buon tempo da perdere!”

Juan Borja, divertito dal tono teatrale del cugino, scoppiò in una grassa risata e, scuotendo il capo, ancora scosso dal riso, ribatté: “Voi siete uno spasso, Cesare! Quando sarò a Roma, con vostro padre non canterò solo i vostri successi, ma anche la vostra presenza di spirito!”

Il Valentino fece un sorriso tirato, ringraziandolo con un sussurro e, tornando a sua volta a spiluccare il polletto che aveva davanti, si chiese quanto fosse saggio, da parte sua, mentire così spudoratamente anche con suo padre. Forse, almeno con il Santo Padre, avrebbe dovuto chiarire le cose e spiegare che la rocca di Ravaldino sembrava impossibile da prendere, che l'artiglieria pareva insufficiente e che quella maledetta strega della Sforza uccideva i loro soldati come mosche, attaccando sempre in punti diversi, impedendo loro di organizzare una strategia difensiva.

E, invece, facendosi versare dell'altro vino, Cesare rincarò: “Fate pure sapere a mio padre che entro il primo del mese, della rocca di Ravaldino resterà solo la polvere.”

 

   
 
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