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Autore: Adeia Di Elferas    20/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La Contessa aveva deciso che, per quella sera, in via del tutto eccezionale, avrebbe fatto versare a tutti un bicchierino di liquore, e aveva anche chiesto alle cuoche se fosse possibile preparare abbastanza spongata affinché ciascuno avesse almeno un pezzetto di dolce con cui festeggiare il Natale.

All'improvviso, da un'idea fugace offertale da Baccino, si era fatta strada in lei una precisa proposizione: quella di rendere quella notte di Natale non solo un monito per il nemico, che avrebbe sentito benissimo i loro canti e i loro motti da fuori la rocca, ma anche per i suoi soldati.

Era indispensabile, in quel momento, rialzare il morale e far capire a tutti che, anche se l'impresa era disperata, c'era qualcosa che doveva contare più della vittoria: l'onore in battaglia.

E così era stata ben disposta a prendere quelle misure straordinarie, anche se la cuoca le aveva fatto notare che così facendo avrebbero probabilmente finito le scorte di liquore e che la preparazione del dolce avrebbe egualmente intaccato una buona parte delle provviste.

“Abbiamo comunque abbastanza cibo per mesi.” aveva ribattuto la Tigre, abbozzando un sorriso che aveva permesso alla serva di ritrovare un briciolo di buon umore.

Ignorando la stretta al cuore che le era presa, pensando che l'ultima volta che c'era stata una festa a Ravaldino, era stata Bianca a curare i dettagli, la Leonessa andò nei baraccamenti e chiese se ci fosse tra i soldati qualcuno capace di suonare e, se sì, se avesse i necessario per accompagnare in musica il banchetto di quella notte. Sorprendendola, quasi due dozzine di giovani si offrirono immediatamente, facendo anche mostra di avere con loro i rispettivi strumenti, gelosamente custoditi anche in un momento come quello.

Sistemata anche quella faccenda, la Sforza si rese conto che mancava di sistemare solo la questione della Messa. Ricordandosi di aver mandato Baccino a cercare Monsignani, però, la donna sentì un brivido gelido lungo la schiena. Gli aveva chiesto di farlo attendere in camera sua, ma si era scordata che nella sua stanza c'era Giovanni da Casale.

Accelerando di colpo il passo, a metà colonnato, la donna invertì bruscamente la direzione di marcia, dirigendosi in fretta verso le scale, per andare al piano di sopra. Aveva pensato di passare un attimo a vedere come stesse il suo cavallo, ma di colpo le era parso più importante andare a controllare che non fossero successi inconvenienti tra Pirovano e Vangelista.

Arrivata davanti alla porta della sua stanza, tentennò un momento e poi, dopo aver origliato con discrezione e non aver sentito nulla, entrò senza annunciarsi.

Giovanni da Casale era seduto alla scrivania, lo sguardo torvo puntato sul frate, e le mani giunte in grembo in una posa di finta calma. Monsignani, invece, era in piedi, vicino al muro, e teneva gli occhi bassi e le braccia allacciate dietro la schiena.

Nel momento in cui Caterina si presentò al loro cospetto, entrambi si concentrarono su di lei, guardandola nello stesso identico modo. Dapprima la Tigre trovò fastidiosissimo l'insieme di gelosia e disappunto con cui i due amanti la stavano osservando, ma, dopo qualche secondo appena, avvertì nei loro confronti solo un profondo senso di fastidio.

Ancora una volta malediceva il giorno in cui aveva perso Giovanni Medici e, ancora di più, quello in cui le avevano strappato il suo Giacomo. Se quest'ultimo non fosse morto a ventiquattro anni, trucidato come un animale, e per motivi futili, lasciandola sola come mai si era sentita in vita sua, probabilmente lei non sarebbe diventata quello che era, e sarebbe stato meglio per tutti.

“Questa sera voglio che si faccia dire messa – fece lei, rivolgendosi al frate – una cosa in grande stile. Usate tutto quello che avete, dall'incenso alle croci che avete portato dal convento di San Girolamo. Voglio che sia la Messa più solenne che voi frati abbiate mai celebrato.”

Vangelista annuì e poi chiese se avesse altre consegne particolari, e la Leonessa, dopo averci ragionato un po', rispose: “Che ci siano padri confessori per tutti. E trovate il modo di comunicare tutti. Usate anche il pane delle cucine, se non avete abbastanza ostie consacrate, non mi interessa.”

Il frate parve un po' sconcertato da quell'ultimo commento, ma non espresse apertamente la sua contrarietà. Anzi, lasciò che Caterina proseguisse nelle sue direttive, ascoltando tutto con attenzione, in modo da poter riferire agli altri religiosi quanto deciso.

Quando ebbe finito, la donna lo guardò per un lungo istante e poi, mordendosi le labbra, gli disse a voce bassa: “Adesso puoi andare.”

“Stanotte, dopo la Messa...” fece Vangelista, un po' indeciso: “Potrò partecipare anche io al banchetto?”

La Sforza fu tentata di dire di no. Non perché non volesse che Monsignani si godesse, come gli altri, un momento di rilassatezza, ma perché temeva in qualche modo che la sua presenza potesse creare malumori tra lei e Pirovano.

Tuttavia, alla fine, facendo prevalere un senso di giustizia che sentiva di non aver ancora perso del tutto, concesse: “Certo, sia tu sia tutti gli altri frati e preti.”

Ringraziando sommessamente, il ragazzo chinò il capo in segno di saluto verso la Contessa, e se ne andò, ignorando del tutto Giovanni da Casale.

Questi, allargando un po' le braccia, non appena il rivale in amore se ne fu andato, chiese: “A questo punto pongo anche io la mia domanda: a me sarà permesso presenziare alla Messa?”

Ancora una volta la Tigre fu sul punto di rifiutare, ma poi sbuffò: “Certo, se è una cosa che ti interessa davvero.”

“Potrò essere al tuo fianco, durante la funzione?” aggiunse lui, sollevando un po' il mento.

La donna ci ragionò. Il 'no' istintivo che stava per dire le morì in gola. Pirovano erano ancora a rischio. Era necessario perpetrare il teatrino che la voleva perdutamente innamorata di lui, o qualcuno avrebbe potuto pensare di punire il suo tradimento senza incappare nella di lei punizione.

Così, a malincuore, concesse: “Va bene. Ma non metterti troppo in mostra.”

 

“Che cosa sta succedendo in piazza?” chiese Juan Borja, non appena rientrò nel palazzo di Luffo Numai, dopo il breve giro di ispezione che aveva voluto fare per Forlì.

Cesare si accigliò, mentre finiva di ricontrollare le carte che gli erano state portate dal Balì di Digione, che gli aveva chiesto di controllare i conteggi fatti, dato che il Capitano Pirote aveva da ridire circa la distribuzione non uniforme del cibo tra i soldati.

“Nulla di che.” tagliò corto il figlio del papa, agitando una mano per aria.

“Una forca in piazza, per di più proprio sotto alla Croce del Campo – fece il porporato, segnandosi in fretta e baciando il crocifisso che portava al collo – non mi pare esattamente un nulla di che. E vorrei ricordare che oggi è la Vigilia del Santo Natale!”

Il Valentino dovette fare appello a tutte le sue forze per non gettare gli occhi al cielo, ma, anzi, per mostrarsi molto affabile e gentile con quel parente che, andava ricordato, era anche l'ambasciatore designato dai bolognesi e diretto a Roma proprio per mediare un'alleanza tra i Bentivoglio e il papa.

Così, mettendo da parte il leone che ruggiva in lui, il Borja sfoderò le sue abilità da volpe e, con un sorriso mellifluo, si scusò e poi rispose, più pacato: “Avrei dovuto informarvi... Non ho potuto ritardare l'esecuzione odierna, perché ne va della pubblica sicurezza.”

“Chi è il condannato?” chiese il Cardinale, sistemandosi su una delle sedie imbottite vicine al tavolone su cui erano ancora sparsi i fogli manoscritti dal Balì di Digione.

Il Valentino dovette fare uno sforzo di memoria per ricordarsi cosa avesse portato alla pena capitale lo sventurato che quel giorno sarebbe stato impiccato: “Si tratta di un contadino di Massa del ferrarese... Pare abbia ucciso due beccai francesi vicino a Castel Bolognese.”

Il cugino del Duca si accigliò, un po' confuso per la spiegazione del ventiquattrenne, ma poi sbuffò, un po' irritato: “E allora... Si poteva aspettare che passasse il Natale...”

“No.” ribatté secco Cesare, non riuscendo, questa volta, a trattenersi come avrebbe voluto: “Se mi metto ad aspettare, finirà che non si giustizierà più nessuno. Ci vuole la paura, per tenere in pugno queste bestie.”

Juan sporse in fuori le labbra, guardando perplesso verso la finestra. Uno dei motivi che l'aveva spinto a rientrare a palazzo Numai quasi subito era stata una pioggerellina fitta che, man mano che la luce del giorno scemava, si stava trasformando in nevischio.

“Siete voi il comandante – si arrese il religioso – a voi le regole degli uomini e a me quelle di Dio.”

L'altro Borja si disse tacitamente d'accordo e ritornò a concentrarsi sulle carte che aveva davanti. I suoi occhi erano incollati alle piccole cifre stilate dal francese, e quasi non si accorse che uno dei servi era appena entrato per sapere se qualcuno di loro avesse bisogno di qualcosa.

Il Duca di Valentinois fu a un passo dall'abbaiargli che non aveva bisogno nulla se non un po' di pace, ma Juan parlò prima di lui, sorridendo in modo affabile ed esprimendosi con voce bassa e tranquilla: “Portatemi qualcosina da mettere in pancia, dato che al banchetto di stasera manca parecchio... E anche qualcosa da bere. Vedere quella forca mi ha scosso, mi serve un goccio di vino...”

 

Aveva cominciato a nevicare da poco. Si trattava della prima vera neve di dicembre. Caterina la osservava in silenzio, catturata dal suo lento cadere, tanto assorbita da quello spettacolo da non vedere quasi la città sullo sfondo.

Era sui camminamenti, indossando solo un giubbetto leggero. Voleva cambiarsi, per la Messa e poi per il banchetto, perché sapeva che era il momento di dare alle truppe anche qualcosa da vedere. Lei era la signora di tutti loro e il generale a capo dell'esercito, ma quella sera doveva comportarsi solo come una padrona di casa accogliente. Avrebbe indossato il suo abito rosso che, seppur molto rovinato, sarebbe stato comunque più elegante di un vestito da uomo.

Nel cortile sapeva che si stavano già preparando per la liturgia, ma lei ancora tergiversava. Non aveva voglia, in fondo, di trovarsi sotto gli occhi di tutti. Quella notte aveva deciso di non fare sortite, e aveva ridotto al minimo la guardia sulle merlature. Era un rischio, ma andava corso.

Dubitava che il figlio del papa avrebbe approfittato di quel loro momento di distrazione. I francesi non amavano attaccare di notte e, probabilmente, si aspettavano di essere aggrediti a loro volta, come le notti precedenti, dunque era improbabile che decidessero di tentare uno sfondamento.

Con i capelli un po' umidi per la neve che vi si impigliava, la donna fece un sospiro, apprezzando l'aria fredda che le riempiva i polmoni, dandole la concreta sensazione di essere viva, e andò verso le scale.

“Qualsiasi cosa capiti – disse al soldato che aveva lasciato come guardia in capo – venite subito a cercarmi.”

 

Bianca aveva chiesto alle suore di poter assistere assieme a loro alla Messa di Natale. Sapeva che avrebbero osservato la funzione da un matroneo protetto, come spettava a tutte le monache di clausura, ma le stava bene ugualmente.

Aveva voglia di vedere qualcosa, di distrarsi. Anche se Giovannino era bravissimo e si lasciava curare come un bambolotto, e anche se Cornelia, con il passare dei giorni, le era sempre più affezionata e dimostrava un carattere deciso, ma allegro, la Riario sentiva il bisogno di prendersi un momento per sé.

Suor Elena, la Badessa, aveva accettato molto di buon grado quella richiesta, arrivando perfino a sorriderle e dirle: “Siete un'ospite fin troppo silenziosa, figlia mia...”

La donna aveva deciso di lasciare i bambini a Suor Ubbidienza per il tempo della Messa. La monaca prescelta non aveva avuto nulla da ridire, anzi, si era dimostrata entusiasta per quell'improvviso compito.

La ragazza si era sentita gratissima a entrambe e, quando aveva lasciato che la suora prendesse con sé i due bambini, aveva avvertito un piccolo moto di gioia, come se quella illusoria libertà le stesse ridando aria ai polmoni.

Le era stato dato un abito da monaca, in modo da non attirare troppo le chiacchiere delle altre, e poi le era stato spiegato dove mettersi per guardare la Messa, così da essere un po' defilata e venir notata da meno persone possibile. Bianca ascoltò con attenzione tutto quello che le veniva detto e, sceso il buio, raggiunse con le altre il matroneo.

Nella chiesa, sotto di lei, poteva vedere l'officiante e i chierici, i fedeli che gremivano le navate e i colori sfarzosi dei loro abiti. Provò una profonda nostalgia. Non tanto della vita che pulsava fuori da quel monastero, lì a Firenze, quanto della vita che aveva lasciato in Romagna, di quella che era stata la sua adolescenza nella rocca di sua madre, delle possibilità che aveva avuto... Aveva studiato, aveva imparato a cucinare e cucire, aveva cavalcato, aveva ballato, aveva anche amato...

Sua madre le aveva permesso, facendole da scudo fin da quando era nata, di vivere la vita come preferiva. Malgrado le privazioni e le imposizioni dettate dalle circostanze, Bianca aveva potuto avere tutto quello che desiderava e doveva essere grata solo alla Tigre, perché era stata lei a renderla una privilegiata, malgrado tutto. Anche se aveva vissuto momenti terribili, giorni di paura e settimane di tormento, alla fine sua madre era sempre riuscita a restituirle una vita tranquilla, libera, libera come quella di poche altre giovani donne al mondo.

Cominciando a piangere silenziosamente, la Riario non cercò nemmeno di seguire le parole tonanti che uscivano dalle labbra del prete. Tutto quello che sentiva nel cuore era dolore. Le mancava tutto quanto, la sensazione di vuoto che aveva nel petto era incolmabile, era la certezza che nulla sarebbe mai più stato come prima.

Anche se era certa che la sua permanenza alle Murate sarebbe stata limitata nel tempo, era altrettanto cosciente che, quando ne fosse uscita, il mondo per lei non sarebbe più stato lo stesso. Non avrebbe mai più rivisto sua madre, né i luoghi della sua infanzia e della sua prima giovinezza.

Asciugandosi con la manica dell'abito da monaca le guance coperte di lacrime, Bianca fece un sospiro tremulo e si chiese cosa stesse facendo in quel momento sua madre. Sempre che fosse ancora viva...

 

Caterina, sotto al porticato, stava fissando il prete che sollevava il calice. I soldati e gli altri abitanti della rocca, ammassati in parte nel cortile e in parte alle finestre, si inginocchiarono come un sol uomo in segno di rispetto, mentre lei, troppo assorta nei suoi pensieri, non lo fece.

Giovanni da Casale, alla sua destra, leggermente nascosto alla vista dalla colonna contro cui stava, le dedicò uno sguardo perplesso, ma poi, decidendo che non era il caso di richiamarla all'ordine, fece la sua genuflessione senza farle notare che sarebbe stato il caso che la facesse pure lei.

La Sforza stava ragionando in fretta, sia sul silenzio dei cannoni francesi, proseguito tutto il giorno e, per il momento, anche per la notte, sia sulla strategia da mettere in atto nei giorni a venire. La caduta prematura della cittadella l'aveva portata a stravolgere i propri piani molto prima del previsto, e non era ancora riuscita a valutare in modo lucido la sua nuova condizione.

Non avvertiva nemmeno il bacio gelido di qualche fiocco di neve che, di quando in quando, le sfiorava la pelle della schiena, lasciata scoperta dal suo abito rosso.

Si ridestò solo quando tutti i presenti si rialzarono di colpo, pregando a voce alta. Solo in quel momento si rese conto di essersi persa una parte fondamentale della liturgia e, osservando quelli che la circondavano, capì che molti dei presenti si erano accorti della sua apparente noncuranza.

Pirovano, al suo fianco, si era appena rimesso in piedi. Caterina si voltò verso di lui, perdendosi per un momento a fissare i suoi capelli corvini, che risplendevano alla luce delle lanterne, puntellati di piccoli fiocchi bianchi. Se non fosse stata ancora furiosa di lui, quella visione l'avrebbe portata ad allungare un braccio verso di lui e stringerlo a sé. Invece, ancora memore di quanto accaduto il giorno prima, la donna rimase al suo posto, distogliendo lo sguardo e mostrandosi impassibile.

Quando i religiosi cominciarono a comunicare tutti, Caterina decise di mettersi in fila come gli altri. Aveva evitato di andare a confessarsi, perché l'unico con cui avrebbe potuto provare a farlo, ovvero Vangelista, aveva già troppi fedeli in attesa, e quindi si era detta che, se se la fosse sentita, l'avrebbe fatto in un secondo momento, evitando di dare spettacolo.

Così attese con calma il suo turno per comunicarsi. Ricevette, al posto dell'ostia, un pezzetto di pane e fu contenta di notare quel dettaglio, perché significava che Monsignani aveva riferito bene i suoi ordini.

Tornò al suo posto, ma si accorse, strada facendo, di aver perso di vista Giovanni da Casale. Attese il suo ritorno, ma, di fatto, non lo vide più nemmeno a Messa finita.

Sperando di ritrovarlo in fretta – non gradendo quella sua sparizione non autorizzata – la Tigre passò in mezzo alla folla che stava lasciando in fretta il cortile, in vista del banchetto. Anche guardandosi attorno con attenzione, non vide Pirovano, ma si imbatté in Vangelista.

“La Messa è stata una buona idea.” le disse il frate: “Moltissimi soldati ne hanno tratto sollievo.”

“Basta poco, per risollevare lo spirito dei soldati...” borbottò tra sé la Sforza.

Approfittando del fatto che, ormai, in giro erano rimaste pochissime persone, il frate la prese per mano e la fece spostare nell'angolo più buio del porticato, là dove la luce tremula delle torce faticava ad arrivare e dove l'odore della neve si mescolava a quello appena più caldo che arrivava dall'imboccatura delle scale.

Il giovane la baciò, con una fretta che Caterina riconobbe bene. Era da quando avevano iniziato ad attaccare i francesi che lei non trovava tempo per Vangelista. Lo assecondò, ma, al momento giusto, lo tenne a distanza.

“Anche a me basta poco per risollevarmi lo spirito.” soffiò lui, mordendosi il labbro e fissandola.

La Contessa strinse i denti e concluse: “Adesso devo andare al banchetto. Aspettano me per cominciare.”

Il frate fece un sospiro pesante, le sfiorò le spalle con una mano, indagando appena la parte di schiena che il vestito rosso lasciava scoperta: “È bello vederti vestita da donna.”

La Leonessa non ribatté, ma, sottraendosi rapida alle attenzioni di Monsignani, lo liquidò con un secco: “Anche questo fa parte della recita, no?” e si allontanò, diretta alla sala dei banchetti.

 

Alessandra Scali e gli altri membri della sua famiglia – compreso qualche servo – erano usciti per la Messa, e così i figli della Tigre erano rimasti in casa praticamente da soli.

All'inizio tutti e quattro avevano cercato di andare a dormire, ciascuno nella stanza che gli era stata concessa, ma, poco dopo, senza che nessuno di loro lo decidesse apertamente, tre di loro si erano ritrovati nella stanza di Galeazzo.

L'unico che non aveva sentito il bisogno di avere vicini i fratelli in quella particolare notte era Ottaviano che, rifiutando apertamente la proposta fattagli da Sforzino, che aveva provato ad andare a chiamarlo, si era chiuso in stanza con il dichiarato proposito di non uscirne fino al giorno dopo.

“Meglio così – commentò, con un po' di freddezza, Galeazzo, quando il fratello gli riferì della decisione di Ottaviano – almeno non combinerà disastri.”

Il Riario, infatti, non l'aveva detto a nessuno, ma fin dal loro arrivo a Firenze aveva costantemente temuto che il maggiore ritornasse in fretta alle abitudini che aveva quando vivevano a Forlì. Non avrebbe sopportato l'onta di vedere il fratello usare violenza a una delle serve della casa in cui erano ospiti o, anche a una qualsiasi donna della città che, volente o nolente, stava dando loro riparo.

“Come credete che stiano Bianca e Giovannino?” chiese Bernardino, seduto sul letto di Galeazzo, le gambe, che si stavano facendo sempre più lunghe, raggruppate tra le braccia in una posa pensosa.

“Di sicuro bene.” lo rassicurò Galeazzo, sorridendogli: “Sono dalle monache. Fanno vita ritirata, ma almeno lì nessuno potrà infastidirli.”

Il Feo parve convinto, mentre Sforzino, che stava un po' in disparte rispetto ai fratelli, taceva e li fissava un po' perplesso.

Fuori la notte era stellata. Anche se c'era stato nuvoloso, durante il giorno, quando era scesa la sera il cielo si era rasserenato. Nell'aria si erano sparse le melodie delle campane a festa e sotto le finestre la città si era animata di vita, malgrado l'ora tarda.

“Credete che nostra madre sia ancora viva?” domandò, con un filo ben tangibile di ansia, Bernardino.

“Certo che la è.” rispose, deciso, Galeazzo.

Ancora una volta, Sforzino tacque, ma il suo sguardo lasciava intendere che, almeno secondo lui, tutte quella sicurezza nel parlare era eccessiva.

Il fratello se ne accorse, tuttavia non voleva far impensierire Bernardino, quindi trovava fosse necessario cambiare argomento.

La stanza era abbastanza illuminata e calda, loro indossavano abiti puliti e freschi, donati da Alessandra Scali, avevano le pance piene e, almeno per il momento, si sentivano al sicuro: dovevano essere felici per quello che avevano. Il tempo di piangere ciò che avevano perso sarebbe arrivato, ma non quella notte.

“Sforzino – fece dunque il Riario, nella speranza di distogliere l'attenzione dai pensieri tristi – tu che hai studiato più di noi, sai se è vera la storia che qui non festeggiano il Capodanno?”

Il ragazzino si accigliò e poi, annuendo lentamente, rispose: “Non al primo di gennaio, ma più avanti... In marzo. Il venticinque, se non erro.”

Da lì Galeazzo ne approfittò per discutere un po' di come avrebbero comunque potuto provare a convincere la loro ospite a far preparare qualcosa di speciale la notte del trentun dicembre, ma dopo appena una decina di minuti, il discorso si spense.

“Forse faremmo meglio a dormire.” disse piano Sforzino.

“Sì.” convenne l'altro Riario.

“Io resto in camera con te.” fece Bernardino, guardando il fratello che gli stava accanto.

Sforzino, sentendosi un po' escluso dalla sintonia che, era palese, c'era tra il Feo e Galeazzo, fece un sospiro e concluse: “Io invece torno nella mia stanza. Domattina voglio alzarmi presto per leggere. Madonna Alessandra mi ha permesso di usare la biblioteca quando voglio.”

Gli altri due lo salutarono e poi, quando rimasero soli, Bernardino sussurrò: “C'è una cosa che volevo dirti, ma non davanti a Sforzino, perché ho paura che lui mi sgridi.”

Galeazzo sollevò le sopracciglia e gli chiese: “E di cosa si tratta?”

Il bambino abbassò lo sguardo e poi, un po' irrequieto, rispose: “Ho cercato di uscire dal palazzo, stamattina.”

Sentendo il sangue che si gelava nelle vene, il Riario domandò: “E come mai?”

“Volevo vedere cosa c'è fuori.” disse il Feo, con tono d'ovvietà: “E poi – soggiunse – volevo andare a cercare la tomba di messer Medici. So che è sepolto in una chiesa di questa città.”

“Non devi rischiare, lo sai.” lo riprese il fratello, non riuscendo a usare troppa durezza, vista la confessione spontanea: “Ma come mai ti sei fermato..?”

“Madonna Alessandra mi ha visto. Mi ha chiesto che volessi fare. Ho detto solo che avevo bisogno di aria.” ribatté lui, vergognandosene.

“E ci ha creduto?” Galeazzo dubitava che il fratello fosse stato convincente, nell'interpretare il bambino innocente, e ne ebbe conferma guardando le gote sempre più rosse del piccolo.

“Mi ha detto che verrà anche il momento di uscire, ma non oggi.” sussurrò Bernardino: “Ma era arrabbiata. Ho paura che mandi anche me in monastero.”

Il Riario ci pensò sopra un istante e poi scosse il capo, abbracciando il fratello: “Non lo farà. Ma tu devi avere pazienza. È una cosa che devi imparare in fretta, specie se vorrai diventare un soldato.”

Il Feo annuì appena, accettando quel gesto d'affetto da parte di Galeazzo, di norma sempre così misurato, ma, in quella sera natalizia, quanto di più simile a una figura paterna Bernardino potesse trovare.

Anche se avevano appena cinque anni di differenza, al bambino, il fratello sembrava già un uomo, un punto di riferimento impagabile. Perciò, quando il Riario gli disse che era meglio riposare anche per loro, seguendo l'esempio di Sforzino, Bernardino non si oppose, anzi, assaporò quel momento di familiarità, steso sotto le coperte assieme al fratello, conscio che, là fuori, nelle chiese di Firenze stavano celebrando le Messe di Natale, e che, nelle case, c'erano feste e abbracci e calore.

“Ti voglio bene.” sussurrò, stringendo, impacciando, la mano del fratello con la sua.

“Anche io.” ribatté Galeazzo.

 
   
 
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