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Autore: Adeia Di Elferas    23/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il banchetto era iniziato da poco, eppure l'aria era già satura di risate e voci. Caterina trovava sorprendente come l'essere umano fosse capace, in determinati momenti, di dimenticare tutto – o, almeno, di accantonarlo – e ritrovare la voglia di fare festa.

Probabilmente in parte il motivo stava nell'età media dei presenti, abbastanza bassa, e, in parte, nel non essersi attesi quel momento di svago. Era la notte di Natale, fuori nevicava, i piatti erano pieni e c'era la musica: per molti quello era un vero e proprio sprazzo di vita regalato. In una notte del genere, non si riusciva nemmeno a pensare ai caduti in battaglia, che venivano ricordati a mezza bocca tra un prosit e l'altro.

Si era deciso che, appena finito di mangiare, i musici avrebbero intensificato il loro lavoro, alcuni di loro si sarebbero addirittura spostati all'esterno, in modo che al campo francese arrivassero le loro note. Doveva essere molto chiaro, al Valentino, che nella rocca di Ravaldino si stava facendo baldoria, che nessuno aveva paura di lui e che, contrariamente a quanto lui sperava, nessuno si sentiva sopraffatto o sconfitto.

Caterina era al tavolo d'onore. Al posto dei suoi figli, che avevano sempre occupato le sedie alla sua destra e alla sua sinistra, ora c'erano alcuni tra i soldati dimostratisi più valorosi, come Angelo Laziosi o Giovanni Testadoro, e alcuni Capitani. Malgrado fosse circondata da persone, comunque, la donna si sentiva sola.

Alla sua destra, per ragioni di forza maggiore, si era sistemato Giovanni da Casale, che, abbastanza impassibile, lanciava occhiate di sfida a tutti quelli che osavano rivolgergli l'attenzione.

Le donne nella sala non erano tanto poche. La Sforza aveva voluto che ci fossero tutte, sguattere comprese. Una vera festa non poteva dirsi tale, se attorno alle tavolate c'erano solo uomini.

Quando finalmente arrivò la spongata, fatta entrare nel salone su grosse assi da portata, la Contessa decise che era giunto il momento di fare il suo discorso. Attese con pazienza che i servi versassero anche il liquore a tutti presenti e poi, con lentezza, si alzò, sollevando il calice.

In un secondo, la sala dei banchetti si tacitò. Gli occhi di tutti erano rivolti alla Leonessa che, avvolta nel suo vecchio abito rosso, priva di gioielli e coi lunghi capelli bianchi sciolti sulla schiena, sembrava quasi una visione. Nessuno, ormai, era più abituato a vederla senza addosso l'armatura, o, almeno i suoi abiti da uomo. In un certo senso, averla davanti con addosso quel vestito era come tornare indietro nel tempo.

Abbassando lentamente il calice, Caterina deglutì e poi, sperando di essere udita da tutti, cominciò il suo discorso. Non se l'era preparato. Aveva deciso di lasciarsi libera di dire quello che l'animo le avrebbe suggerito in quel momento. Stava parlando ai suoi soldati, alla sua gente, a quelli che avevano deciso di restarle accanto malgrado tutto. Non c'era bisogno di misurare troppo le parole: loro la conoscevano e la capivano.

“Sono lieta di passare questo Natale con voi!” cominciò e subito i soldati cominciarono a battere i piedi in terra e i palmi delle mani sui tavoli, in segno di approvazione: “Non potrebbe esserci posto al mondo, per me, migliore di questo per trascorrere il mio ultimo Natale!”

Mentre il pubblico ancora rumoreggiava, la Sforza si rese conto di avere la bocca un po' secca e il cuore che batteva in fretta. Non era certo la prima volta che si rivolgeva al suo esercito, ma quella notte tutto aveva una valenza particolare.

“Con tutti voi ho condiviso le armi, combattendo gomito a gomito, sfidando la morte e il nemico respirando all'unisono.” tanti esclamarono motti di assenso, qualcuno si perse a raccontare ai vicini di panca qualche breve aneddoto, ma la Tigre riprese e calò subito il silenzio più totale: “Con la maggior parte di voi ho già condiviso più volte la tavola, esattamente come stasera, offrendovi quello che potevo, senza mai lesinare, quando mi era possibile. Con un buon numero di voi ho condiviso anche i lavori pesanti, sudando sotto al sole e congelandomi sotto la neve, facendo quello che serviva, quando serviva.”

Il pubblicò si disse ancora una volta d'accordo e anche Pirovano, al suo fianco, annuì in silenzio.

In quel momento, mentre faceva passare il suo sguardo da un volto all'altro, la Sforza si rese conto di un'altra grande verità: aveva avuto molti degli uomini che ora la stavano fissando in attesa delle sue prossime parole. Ben più di uno di loro era passato dal suo letto, qualcuno anche più di una volta. Le battaglie che aveva combattuto fianco a fianco con quei soldati non erano solo quelle campali.

E, con quella consapevolezza che in uno strano e inatteso modo andava a scaldarle il petto, la donna capì che quello era davvero l'unico posto al mondo in cui avrebbe dovuto e potuto essere quella notte: accanto ai suoi uomini.

“E con molti di voi – riprese, dunque – ho condiviso anche il letto.”

Avvertì, distrattamente, Giovanni da Casale irrigidirsi al suo fianco, ma le risa e le grida di approvazione la distrassero abbastanza da non dar peso alla reazione del suo favorito.

Annuendo, con un sorriso tranquillo stampato sulle labbra, la Contessa proseguì: “E dunque, siccome non sono una Borja e quindi certe cose coi fratelli non le faccio, questa notte non voglio chiamarvi fratelli. Vi chiamerò mie amici, miei compagni, miei amanti.” la Leonessa attese un secondo, catturando quell'attimo di spasmodico silenzio in cui la sala era stretta, e poi concluse, con voce più decisa, caricando quelle parole di tutto il senso concreto che voleva dar loro: “Miei uomini.”

La sala esplose, in risposta alle parole della Sforza. I soldati rumoreggiavano, i servi applaudivano e anche le donne presenti facevano fracasso per esprimere la loro benevolenza nei confronti della Contessa, che, seppur con tutte le sue mancanze e i suoi difetti, era per loro una guida insostituibile, specie in un momento del genere.

Caterina, allora, alzò di nuovo il calice, più in alto che poteva, e in breve in molti la imitarono, usando la piccola razione di liquore che la loro signora aveva concesso per quella notte di festa.

“A noi!” gridò la donna, bevendo il suo tutto d'un fiato, riuscendo a malapena ad apprezzare il sapore forte e un po' aspro del prugnolino.

“A noi!” risposero tutti, con voce tonante.

“Era necessario?” il bisbiglio di Pirovano fece pizzicare l'orecchio della Tigre come il ronzare di una mosca.

“Che intendi?” ribatté lei, sussurrando allo stesso modo, gli occhi puntati su pezzo di spongata che aveva davanti: “Non ho detto nulla che non fosse vero.”

Con un moto di irritazione, Giovanni da Casale fece un suono gutturale e si mise a mangiare il suo dolce senza aggiungere altro.

Finita definitivamente la cena, si spostarono i tavoli contro le pareti e alcuni musici andare anche all'esterno, come concordato. Non appena iniziarono le prime note, i ballerini scesero in pista con una frenesia che alla Sforza sembrava quasi incomprensibile. Poteva accettare la voglia di svagarsi, ma gli uomini e le donne che aveva davanti si comportavano come se la guerra fosse stata appena vinta, e non come, invece, purtroppo era: ovvero ancora lunga e dall'esito quasi sicuramente per loro nefasto.

“Ballate, mia signora?” la domanda posta da Costantino Bolognese sorprese la Tigre, che era ancora seduta al suo posto, senza la minima intenzione di fare altro se non osservare la sala.

“Non saprei...” disse la Leonessa, accigliandosi: “Io non ballo più.”

Pirovano, ancora accanto a lei, deglutì, per la prima volta felice del fatto che la sua amante, in fondo, si sentisse ancora in lutto per la morte non solo del suo terzo marito, ma addirittura del secondo, e che quindi si precludesse almeno quel genere di svago. Poco gli importava, in quel momento, se poi nella calma della sua camera da letto, Caterina infrangeva la castità dovuta al lutto in mille altri modi.

“Non volete far sapere ai vostri nemici che voi, la loro avversaria più temibile, avete ballato, la notte di Natale?” insistette Costantino, mostrando i denti un po' storti in un sorriso incoraggiante.

“Non vedo come potrebbero venire a sapere che ho danzato...” tentò di nuovo la Sforza, anche se l'idea cominciava a sembrarle abbastanza buona.

“Il modo lo si trova – la spronò, ridendo, Alessandro, seduto alla sua sinistra – basta che ti metti a fare qualche giro di danza sulle merlature, illuminata dalle torce...”

“Io non capisco, comunque, come possiate essere tutti così allegri, pensando che questo probabilmente sarà il nostro ultimo Natale.” si incaponì la Contessa, mostrando più apertamente di quanto non volesse il cattivo umore che la stava accompagnando da tutto il giorno.

“Proprio perché potrebbe essere l'ultimo – contrattaccò Costantino – se non balliamo stanotte, quando mai potremo farlo ancora?”

“L'ultima volta che ho ballato a una festa...” tentennò la Tigre, cercando di ricordare quando fosse stato di preciso.

“Avanti...” fece di nuovo Alessandro, ormai molto più divertito dello stesso bombardiere che aveva chiesto alla Contessa di danzare.

Caterina lanciò un breve sguardo perplesso a Pirovano. Quando lo vide cupo, concentrato sulle proprie mani allacciate sul tavolo, prese la sua decisione.

“Va bene.” disse, alzandosi: “Ballo.”

 

Cesare si stava portando il calice alle labbra, quando uno dei suoi attendenti entrò di corsa nel salone e lo raggiunse, senza fiato.

L'uomo lo scaraventò, chiedendogli se era quello il modo di arrivare e si scusò anche con il cugino Juan, che era stato a sua volta interrotto proprio mentre degustava il buonissimo vino liquoroso offerto dalle cantine di Luffo Numai.

“Si può sapere che diamine vuoi?!” sbottò il Borja, tenendo bassa la voce, ma fissando il ragazzo con gli occhi scuri che si incendiavano come un cumulo di pece.

“Mio signore, voi non... Voi non sentite, perché qui c'è musica...” balbettò l'attendente: “Ma fuori, fuori i nostri sono spaventati... Dalla rocca... Dalla rocca...”

“Dalla rocca cosa?!” lo scrollò il Valentino: “Parla!”

“Dalla rocca arrivano dei suoni di festa che...” fece il soldato, ma non riuscì a finire la frase, perché il Duca, sconcertato da quella notizia, si era alzato e si era subito messo a gridare coi musici affinché facessero silenzio.

Non erano molti, gli ospiti a quella cena di Natale, ma erano molto selezionati. Siccome erano tutti, eccetto il porporato, uomini di Cesare, il giovane si sentì in pieno diritto di interrompere bruscamente il banchetto e andare alla finestra, spalancandola, per rendersi conto se quello che gli era stato detto era vero.

Malgrado la distanza tra palazzo Numai e Ravaldino, in effetti, nell'aria aleggiavano musiche sfrenate che altro non potevano richiamare alla mente se non una festa senza precedenti.

Colto da un misto di rabbia e sbigottimento, il Borja gridò ai servi di portargli il mantello. Fuori nevicava e non aveva intenzione di raffreddarsi. Però dovevano fare in fretta, perché doveva scoprire cosa stesse accadendo.

Dopo essersi coperto, l'uomo camminò rapido fino alla porta, uscì in strada e si mise direttamente a correre, incurante delle grida dei suoi ospiti che gli domandavano che stesse facendo. L'aria fredda della notte gli sferzava le guance coperte di rada barba e di qualche crosta, mentre i suoi piedi lo portavano agili come come quelle di Mercurio fino al punto del loro accampamento più vicino alla rocca.

Da lì poteva sentire la musica molto distintamente, e poteva anche vedere delle figure muoversi come pazzi sulle merlature. Una, in particolare, attirò la sua attenzione. La luce delle torce era tenue, a quella distanza, ma poteva immaginare a chi appartenessero quei capelli argentei e lunghi che vedeva agitarsi senza tregua.

Avrebbe voluto dare ordine di attaccare, avrebbe voluto prendere Ravaldino quella notte stessa e far pentire la Sforza per la sua insolenza. Ma non poteva. Vedeva i soldati, tutt'attorno a lui, terrorizzati da quella visione. Non avrebbero ascoltato gli ordini, erano troppo spaventati.

Inoltre, non poteva far vedere a suo cugino che bastava tanto poco a fargli saltare i nervi. Se avesse attaccato, chissà che cosa Juan avrebbe riferito, una volta a Roma..!

Così preferì cercare di minimizzare. Si mise a ridere, fragorosamente e cominciò a dire ad alta voce che quei forlivesi erano pazzi, che la loro signora era una meretrice e che quella notte, ne era certo, avrebbe passato in rassegna il suo intero esercito, una spada per volta, perché certa che la sua fine era vicina.

“Lasciamole godere ancora qualche ora dei suoi lascivi piaceri!” urlò, sperando che lo sentissero tutti: “Che balli e si diverta, questa notte! Non mi prenderò la vittoria così facilmente! Inizia il Giubileo e non lo principierò con il sangue di una simile sgualdrina!”

Dopo quasi mezz'ora di motteggi simili, finalmente i francesi cominciarono a dargli retta e, uno dopo l'altro, si ritirarono per riprovare a riposare qualche ora prima del prossimo assalto.

Cesare, invece, infreddolito per la neve, ma sudato fradicio per la tensione, tornò verso palazzo Numai a marce forzate. Rifiutò di interrompere il banchetto e pretese con il padrone di casa che venisse servita fino all'ultima portata.

“Ma che è successo, cugino?” gli domandò Juan, che, malgrado il trambusto, non sembrava aver minimamente perso l'appettito.

“Nulla...” fece il Duca di Valentinois, sperando di ridimensionare il tutto con una battuta: “Solo una donnaccia che segue le sue naturali inclinazioni dando mostra di sé davanti a un intera pletora di uomini.”

Il religioso parve abbastanza convinto, ma non gli sfuggì il pallore cadaverico di Cesare che, pur dissimulando bene, non toccò più cibo, troppo atterrito anche solo per sorbire un sorso di vino.

 

Le danze si erano inseguite, senza sosta, al solo scopo, almeno nella mente della Tigre, di innervosire i nemici. Caterina non aveva tratto alcun piacere dal seguire il ritmo forsennato della musica, né nel cambiare continuamente cavaliere. Era stato come se si trattasse solo ed esclusivamente di un altro modo di fare la guerra.

Destabilizzare la mente dei francesi e, soprattutto, del loro comandante, era tutto ciò che la Sforza desiderava fare. Tutto il resto non le interessava.

Era stata anche sui camminamenti, mettendosi in mostra, sperando che tra i soldati nemici, assiepati nella penombra che la fissavano e la indicavano, ci fosse anche il Duca di Valentinois.

Non poteva dire di sapere che faccia avesse, il figlio del papa. Ricordava solo di averlo sentito nominare da Rodrigo più volte, quando viveva a Roma. Tutti lo descrivevano come un uomo dalla rara avvenenza, ma nella sua mente aveva il naso ricurvo del papa e i suoi stessi occhi intelligenti, ma cattivi.

La Sforza era tornata da poco nelle viscere della rocca e si era accorta che Giovanni da Casale non era più nella sala dei banchetti. Con discrezione, chiese in giro se qualcuno l'avesse visto da qualche parte, ma nessuno le seppe dare indicazioni.

Allora la donna cominciò a vagare per Ravaldino, in parte per cercare il suo amante – in modo da controllare i suoi comportamenti, evitandogli altri errori, che, dopo quello colossale commesso nel lasciare il Paradiso, avrebbero potuto costargli caro – e in parte per assicurarsi che tutto fosse discretamente in ordine.

La musica continuava, riempiendo ogni angolo della rocca. La neve turbinava tutt'attorno a loro e il clima di festa sembrava non volersi spegnere. Caterina scorse più di un soldato appartarsi con la moglie o con una donna scelta probabilmente a caso, ma non riprese nessuno di loro. In un momento del genere, lei per prima avvertiva la necessità di scaricare la tensione in ogni modo.

I pochi bambini che ancora vivevano a Ravaldino correvano per i corridoi, giocando come matti, del tutto disinteressati ai passatempi molto meno innocenti degli adulti.

La Sforza sorpassò, senza darvi attenzione, due soldati che giocavano ai dadi seduti in terra, e anche se vide che stavano scommettendo del denaro, non li fermò. Non volle rimettere in riga nemmeno un paio di servi che, con una brocca di vino in mano, bevevano come delle spugne seduti su una delle panchette di pietra. Aveva imposto a tutti di non ubriacarsi, ma quei due ragazzini non sarebbero stati utili, in un'eventuale battaglia, nemmeno da sobri.

C'era chi ancora danzava e, nel cortile, chi intonava canzoni da osteria poco inerenti ai salmi natalizi, ma cantate con altrettanta serietà.

In tutta quella confusa varietà, la Contessa non si sorprese troppo di vedere alcuni frati nell'angolo più buio del corridoio, intenti a confessare quelli che non avevano colto l'occasione di redimersi durante la Messa o quelli che, dopo l'abbondante cena e qualche goccio di vino, avevano finalmente trovato il coraggio di svuotarsi la coscienza.

Tra i confessori c'era anche Monsignani. Caterina lo fissò per un lungo momento, in un chiaro invito. Il frate, però, con le spalle coperte dalla stola, era impegnato con uno dei guastatori che, con il capo chino e le mani giunte, sembrava intento a riversargli addosso anni di peccati inconfessabili.

La Tigre attese qualche secondo, ma quando vide Vangelista farle un cenno di diniego con il capo, deglutì, accettando il rifiuto, e continuò a camminare.

Era quasi nella sua camera, e cominciava a credere che Pirovano fosse proprio lì, da solo, in sua attesa. Dicendosi che tutto sommato ogni cosa era abbastanza sotto controllo, la Leonessa decise di andare da lui.

Tuttavia, proprio quando stava per raggiungere la porta, sentì qualcuno afferrarla per un braccio. In un moto istintivo, acuito dalle battaglie degli ultimi giorni, la Sforza si liberò subito dalla presa, voltandosi, sulla difensiva. Quando si trovò davanti Baccino, però, si rilassò immediatamente.

Incurante della gente che ancora affollava il corridoio e della musica sempre martellante che riempiva le orecchie, il cremonese riafferrò il braccio della Contessa e la convinse a seguirlo nell'alcova che stava poco distante da lì. La finestrella che dava sul cortile lasciava trasparire la luce particolare di quella notte di neve, e anche un discreto freddo.

Mentre si sistemavano nell'angolo più riparato di quella piccola rientranza fatta di pietra, Caterina avvertì con precisione come il loro calore stesse facendo appannare il vetro e come, nascosti in quella penombra, potessero essere scoperti da chiunque. Non le importava.

Baccino, senza dire nulla, aveva cominciato a baciarla e lei non si era ribellata, al contrario, man mano che il ragazzo si faceva insistente, lei rispondeva con più sicurezza, infischiandosene di quanto quello che stavano per fare fosse azzardato e dovuto solo alla confusione che regnava nell'anima di entrambi.

 

Cesare, finito il banchetto, aveva chiamato a sé alcuni comandanti, quelli che riteneva più schietti e capaci. Voleva discutere con loro non solo della festa che, chiaramente, si stava ancora consumando alla rocca, ma anche delle notizie che quel giorno gli erano state fornite da alcune sue spie, che, da fonti abbastanza certe, avevano saputo di alcuni maneggi sottobanco della Sforza.

Anzi, per far sì che tutti ascoltassero meglio, fece chiamare anche Andrea Bernardi che, tra tutti i suoi informatori, sembrava quello più deciso a collaborare con loro al solo fine di procurare la disfatta e la caduta della Contessa Sforza.

“Ordunque, parlate.” fece il Borja, indicandolo.

Il Novacula guardò prima il figlio del papa e poi gli altri presente, tra cui il Vendôme e l'Alégre. Si passò, nervosamente, una mano sul bordo di pelliccia del colletto del suo nuovo giubbone, regalo del suo signore, il Duca di Valentinois, e, ammaliato dalla sua morbidezza, deglutì, chiedendosi cosa stesse facendo.

Alla fine, dicendosi che dire le cose che gli erano state riferite come vere, pur non sapendo se lo fossero o meno, fosse un buon compromesso con la sua coscienza: “La Tigre pare si sia raccomandata ai veneziani... Ha offerto loro lo Stato, pur di non doverlo cedere al papa.”

Tra i francesi si sparse una certa inquietudine, e solo Giampaolo Baglioni, sentendosi legato più di altri al Doge, esclamò: “Ma figuriamoci..!”

“Lei – riprese Bernardi – ha ricordato a Venezia tutti i benefici avuti dal Conte Girolamo, che era pure gentiluomo veneziano e che aveva meritato la loro riconoscenza.”

“E dunque che volete dirci?” fece, secco, l'Alégre: “Che presto dobbiamo attenderci l'arrivo dei veneziani? Che da nostri amici, per uno Stato come questo, diventerebbero nostri nemici, rischiando di essere a loro volta attaccati?”

Andrea abbassò il capo, respirando veloce: “Io non so dir nulla di grande politica. Riporto solo quel che mi è stato detto.”

“E prendendola per vera, questa cosa...” si intromise l'Aubigny, accavallando le gambe e fissando coi suoi occhi glaciali il Borja: “Cosa dovremmo fare adesso?”

“Vi ho chiamati qui proprio per discuterne.” sospirò Cesare, ammettendo implicitamente, per la prima volta da che quella guerra era cominciata di aver bisogno di aiuto.

 

“Avete visto la Contessa?” l'Oliva stava cercando la Tigre da un po', ed era quasi arrivato a provare a bussare alla sua stanza, anche se non aveva alcuna intenzione di interromperla mentre era impegnata con qualcuno, verosimilmente con Giovanni da Casale.

Il Fosco Berlise, però, annuì, indicando l'alcova che stava poco distante proprio dalla porta della camera della Contessa: “Sta là... C'è entrata da un po'... Con uno...”

“Con uno...” sogghignò Bernardino del Roso, che stava giocando ai dadi con il Fosco: “Con quel cremonese, sapete...”

“Il castellano..?” trasecolò l'Oliva, pensando a Bernardino da Cremona e trovando la cosa abbastanza strana.

“No, non quello...” scosse il capo il soldato: “Quell'altro... Quel Bartolomeo che tutti chiamano Baccino...”

“Quello – si intromise il Fosco Berlise – ve lo dico io, cos'è! Quello è il diavolo delle cose di Madonna, altroché!”

Mentre si metteva a ridere, roco, seguito a ruota da Bernardino del Roso, l'Oliva deglutì e si interrogò su cosa fare. Poteva interromperli, per riferire la notizia che aveva appena ricevuto dalle sue spie, o era meglio aspettare che finissero?

Stava quasi per decidere di attendere la mattina seguente, valutando che le novità, in fondo, non erano così urgenti, quando vide la Contessa scivolare fuori dall'alcova, ancora mano nella mano con il cremonese, i capelli scompigliati e le guance rosse come il vino che avevano bevuto a cena.

Lasciando da parte ogni vergogna, come aveva imparato a fare abbastanza bene in tutti quegli anni passati al servizio della Leonessa, l'Oliva le si avvicinò e, schiarendosi la voce, attirò la sua attenzione.

“Mi stavate cercando?” domandò lei, lasciando subito la mano di Baccino.

“Ho da dirvi una cosa interessante.” spiegò lui.

La donna, allora, mandò via il cremonese con un cenno secco del capo e pregò l'altro di spiegarle.

L'Oliva notò una reazione, trattenuta a stento, di rabbia da parte del cremonese che, evidentemente, non si aspettava di essere trattato con tanta sufficienza in quel momento, ma non gli diede peso e cominciò a raccontare.

La notizia riguardava un ospite d'eccezione del Borja, un suo cugino, Cardinale Presbitero, Vescovo di Ferrara e, soprattutto, ambasciatore bolognese diretto a Roma.

“Ecco perché non ci hanno attaccati...” realizzò Caterina, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio: “Aveva paura di fare brutte figure con qualcuno che sta andando da suo padre... Questo è un buon segnale, per noi. Significa che a Roma non sanno quanta fatica sta facendo.”

Il notaio si disse d'accordo e, dopo qualche altra breve informazione, si congedò dalla sua signora, assicurando che l'avrebbe tenuta informata su qualsiasi altro nuovo sviluppo.

Caterina lo ringraziò e, senza perdere tempo, corse negli alloggi della servitù e cercò Argentina. La serva dormiva già, ma la Contessa non si fece problemi a svegliarla.

“Devi fare una cosa per me – le disse, in un sussurro – anche se non è semplice, devi preparare una bandiera che ricordi quella bolognese. Cucila più in fretta che puoi.”

Argentina, stropicciandosi gli occhi, annuì, e, tiratasi subito in piedi domandò se potesse farsi aiutare da qualcuno. La Tigre rispose di sì, a patto che si trattasse di qualcuno di fidato.

Sistemata quella faccenda, la Sforza decise che per lei era arrivato davvero il momento di tornare in camera. Era tardissimo e anche le musiche cominciavano ad affievolirsi.

Non riusciva a metabolizzare quello che era successo tra lei e Baccino. Era stato qualcosa di così improvviso, ma, allo stesso tempo, di così semplice, che non poteva dire che fosse stato un errore.

Tuttavia, quando aprì la porta della sua stanza e trovò Pirovano steso a letto, mezzo addormentato, ma ancora intento ad aspettarla, si sentì in colpa.

“Scusami ero...” fece lei, a mezza bocca, cominciando a svestirsi per mettersi sotto le coperte.

“Non mi interessa dov'eri.” ribatté lui, la voce un po' arrochita dal sonno: “Puoi fare quello che vuoi, con chi vuoi. Questo l'ho capito, ormai.”

Caterina non ebbe il coraggio di dire altro. Finì di prepararsi e poi raggiunse il suo amante a letto.

Sentì la mani di lui che la stringevano, ma si accorse che nel suo modo di cercarla non c'era il consueto desiderio, ma solo un mesto tentativo di riaverla per sé. Capì subito che, quella notte, Pirovano non avrebbe preteso nulla da lei, e, in fondo, ne fu contenta.

Ricambiò il suo abbraccio, assaporandone la ruvida dolcezza, e si mise a pensare a quanto sarebbe stato bello, per lei, almeno in quegli ultimi giorni che la la sorte le avrebbe concesso, riuscire a essere di nuovo un'amante fedele, come era stata con il Medici e prima con Giacomo.

“Non arrendiamoci mai.” bisbigliò, le labbra contro l'orecchio del milanese: “Per nessun motivo, promettimelo.”

“Ma se tu restassi ferita..?” chiese lui, non volendo tacerle l'ansia che provava ogni giorno: “O se ti vedessi in pericolo? Io...”

“Ti ho detto: per nessun motivo.” rimarcò lei, stringendolo un po' di più a sé, nella penombra della loro stanza, nel tepore delle spesse coperte di lana.

Pirovano fece silenzio. Le diede un bacio lento e profondo e poi, sistemandosi meglio, le fece capire che era pronto ad addormentarsi.

Aveva sentito sulla sua pelle l'odore di un altro uomo. Aveva capito benissimo che era stata con qualcuno, prima di tornare da lui. Non gli importava più. Era come cercare di ingabbiare un leone selvatico. Non ne era in grado. Poteva solo accontentarsi di giocarci di quando in quando, ma sempre stando attento alle zanne e agli artigli.

Caterina si sentì, per la prima volta da tantissimo tempo, tranquilla. Cercò il calore del corpo di Giovanni, gli restò addosso, ma lo fece senza prepotenza, cercando solo di stargli vicino mentre si assopiva.

Finalmente, quella volta, malgrado i rumori che arrivavano ancora da fuori e la consapevolezza che, probabilmente, la mattina dopo sarebbe stata svegliata dal rimbombo dei cannoni, la Leonessa riuscì ad addormentarsi, dormendo e basta, senza tormentarsi con incubi e sogni agitati.

Nel giro di un giorno, aveva combattuto, aveva mangiato, aveva bevuto, aveva ballato, aveva amato un uomo e aveva trovato un appoggio dove credeva ormai di non averne più... Malgrado tutto, si sentiva in pace con il mondo, anche se il mondo, ostinato, continuava a farle guerra.

 
   
 
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