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Autore: Adeia Di Elferas    03/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni da Casale ascoltava in silenzio le parole della Contessa, guardandola con attenzione mentre si sistemava un pugnale sotto le gonne.

“E così, appena lui avrà mosso qualche passo sul ponticello – proseguì lei, controllando che l'arma fosse assicurata bene e comunque semplice da afferrare al momento buono – tu lo farai sollevare.”

“E che speri di ottenere, facendo così?” chiese, cupo, Pirovano.

Da quando la sua donna era arrivata in stanza e aveva cominciato a esporgli il suo piano, il ragazzo aveva fatto di tutto per trovarvi punti deboli. La Tigre, però, era andata avanti per conto suo, senza dargli ascolto, ed era passata da una semplice spiegazione a un elenco preciso di ordini.

“Io spero – rispose Caterina, trattenendo un sospiro di insofferenza – di farlo ruzzolare dentro la rocca.”

“Per farlo prigioniero?” chiese il milanese, continuando a fissarla mentre prendeva la crema da mettersi in viso.

“No.” fece secca lei e poi, per non doversi sorbire altre domande, proseguì: “L'avrei preso prigioniero ieri, o due giorni fa. Stanotte è morto il mio cavallo preferito. Adesso per me è finito il momento delle contrattazioni. Se riuscirò a chiuderlo qui a Ravaldino, come prima cosa gli voglio piantare una lama in pancia. E poi, solo quando avrà capito che sta per morire, allora gli dirò quello che penso di lui e gli taglierò la gola.”

Giovanni sarebbe rabbrividito, se solo non fosse stato concentrato più sulle movenze della sua amante che non sulle sue parole.

La Sforza si stava preparando come se stesse per andare a una grande festa. Lui personalmente, anzi, non l'aveva mai vista agghindarsi in quel modo.

Forse, si disse, quando era stata più giovane, magari quando era ancora sposata con il suo secondo marito, o anche con il terzo, si sistemava con la medesima cura per far loro piacere. Per lui, invece, non aveva mai perso tempo a farsi bella in quel modo.

“Ma quando, ammettendo di riuscire a farlo cadere dentro la rocca nel sollevare il ponte, ti arriverà vicino... Anche se stordito, potrebbe essere pericoloso.” fece notare Pirovano, mentre la Leonessa si metteva un po' di colore sulle labbra.

“La guerra è pericolosa.” ribatté lei, con tono d'ovvietà.

Poi, come colta da un dubbio atroce, rimise con calma il barattolino di pittura al suo posto e si voltò verso il suo amante. Lo fissò per un lungo istante, cercando di capire se stesse fraintendendo o meno il suo atteggiamento. In fondo, si disse, l'aveva già delusa una volta...

“O sei con me o no.” gli fece presente: “Dimmelo adesso. Non voglio sorprese, quando sarà il momento.”

Pirovano avrebbe voluto avere il coraggio di esprimere fino all'ultima tutte le sue perplessità, compresa la sua insensata gelosia verso un uomo che, lo sapeva, Caterina odiava. D'altro canto, però, non la voleva deludere: voleva essere indispensabile, per lei. Se gli altri uomini potevano infilarsi nel loro letto senza che lui avesse armi reali per impedirlo, voleva almeno essere l'unico di cui lei si potesse fidare fino alla fine.

“Questa volta non ti deluderò.” deglutì lui, chinando il capo.

“Sarà meglio per te.” sussurrò lei, dopo un attimo di esitazione: “Ti ho già perdonato una volta, non posso farlo ancora.”

“Mi hai... Mi hai perdonato?” chiese il milanese, incredulo.

La Contessa storse la bocca di lato e poi precisò: “Non del tutto. Però ho cercato di capire le tue motivazioni. Da un ragazzo della tua età, le posso accettare. Solo una volta, però. Tornando qui, cercandomi, mi hai detto che adesso quel momento di debolezza è passato, giusto?”

Pirovano annuì, quasi in automatico, senza chiedersi cosa significasse davvero quell'assenso.

“Mi hai promesso, questa volta seriamente, di restarmi accanto.” proseguì la donna: “E io voglio crederti. Ma è l'ultima volta.”

Mentre Giovanni ancora cercava di capire a fondo quello che gli era stato detto, la Sforza si alzò e andò un momento alla finestra, per vedere se nevicasse ancora.

Mentre ancora gli dava le spalle, aggiunse, categorica: “Troppi uomini mi hanno deluso, nella mia vita. Se tu hai intenzione di essere solo uno dei tanti, lo voglio sapere subito.”

“No.” assicurò con una prontezza quasi eccessiva Pirovano: “Non lo sarò.”

La donna si girò con lentezza, puntò i suoi occhi verdi in quelli scuri di lui e poi, con un sospiro, disse: “Va bene. Avanti. Adesso andiamo, è quasi l'ora.”

 

Bianca teneva le mani strette l'una nell'altra e lo sguardo basso, cercando di cogliere nelle sfumature della voce tranquilla di Suor Elena qualche indicazione in più. Voleva capire se la badessa stava cercando di rincuorarla, pur non tacendole tutta la verità, o se invece stesse davvero riportando per intero le notizie che Francesco Fortunati le aveva passato.

Forlì era ormai in mano francese, e questo la Riario l'aveva immaginato. Però la rocca di Ravaldino sembrava essere ancora inespugnata e la Contessa ancora viva. Si trattava ormai di notizie vecchie di qualche giorno, quindi potevano essere ormai del tutto scorrette, però alla ragazza davano un piccolo spiraglio di speranza.

Ricordava come sua madre fosse stata convinta fin dal principio che più lunga fosse stata la resistenza, più si poteva sperare in un desistere del nemico, dato che la Romagna era un obiettivo che interessava solo a Roma e non a Luigi XII.

I nuovi dati poteva essere di qualche conforto per Bianca, anche se la situazione restava estremamente complessa e delicata. Lei si imponeva di essere positiva e di confidare nella forza immensa di sua madre, certa che avrebbe resistito proprio fino all'ultimo respiro, aumentando così le probabilità di portare i francesi allo stremo.

Tuttavia, anche suor Elena continuava a parlare del gran numero di soldati d'Oltralpe, non tralasciando di dire anche che pareva che la Sforza avesse fatto molte incursioni di disturbo, in cui erano morti tanti nemici, ma che, probabilmente, non avevano realmente danneggiato l'esercito del Duca di Valentinois.

La figlia della Tigre indossava un abito da suora, impostole dalla badessa in modo da permetterle di muoversi un po' più liberamente nel monastero, anche se per spostamenti del tutto indispensabili. Il colletto le stava un po' stretto, e il copricapo, non avendo i capelli rasati come le vere monache, le pizzicava la testa, tuttavia aveva apprezzato molto quel vestito per via della possibilità di movimento che le stava dando.

Deglutendo in silenzio, la stoffa che sfregava contro la sua gola a ricordarle un po' un collare, la Riario ringraziò: “Vi sono di nuovo debitrice. Ogni informazione che arrivi da casa mia, per me, è di vitale importanza.”

“Lo immagino.” annuì suor Elena, abbozzando un sorriso un po' triste: “Ed è mia intenzione continuare a far da tramite tra voi e messer Fortunati.”

Bianca chinò di nuovo il capo, sussurrando un 'grazie' e poi rimase in attesa, dato che la badessa non l'aveva ancora congedata.

“Riuscite a sopportare bene la vita in monastero?” chiese infatti la donna, sistemandosi meglio sul suo alto scranno in legno: “Voi siete ancora più isolata delle altre, per ovvi motivi... Non vorrei che la cosa vi pesasse troppo. Se non si ha una mente più che solida, a volte, in monasteri come questo si rischia di...”

La voce della badessa si era come spezzata, mentre i suoi occhi, così vivaci eppure così distanti, come fossero puntati su altri mondi e altri orizzonti, si velavano appena.

“Ho resistito a cose ben peggiori.” assicurò la ragazza.

Suor Elena si schiarì la voce, cercando di ricacciare nel profondo della sua anima la sua stessa abissale tristezza, combattendo con la sensazione costante di essere incatenata in una prigione che, agli occhi del mondo, si era scelta da sola.

“Vorrei ricordarvi anche – riprese, con una nota un po' più rigida – che il piccolo Giovanni va sempre vestito da femmina.”

“Non gli metto mai altri vestiti che quelli, badessa.” confermò la Riario.

“Per le consorelle, lo sapete, è una figlia che voi avete avuto... Da una disavventura.” continuò la religiosa, mentre tornava a farsi pragmatica e seria: “So che è una cosa infamante, ma un po' di vergogna immotivata si può sopportare, se è per salvare la vita a un fratello.”

“Infatti.” convenne Bianca: “A me non interessa, se pensano che sia figlio mio.”

“Molto bene.” soffiò Suor Elena: “Allora potete andare. Vi farò sapere se ci sono novità. Per il momento, pregherò per voi e per vostra madre.”

La ragazza ringraziò di nuovo e lasciò l'ufficetto della badessa. Attraversò a passo svelto tutti i corridoi e le scale che la separavano dalla sua cella, ma si lasciò distrarre, proprio quando era quasi arrivata, da un fischio sommesso, ma molto armonico.

Incuriosita, guardò fuori e vide un uomo, o meglio, un ragazzo che si adoperava attorno alle piante ornamentali che circondavano l'orto del monastero. Era la prima volta che lo vedeva. Aveva creduto che solo le monache potessero, anzi, dovessero occuparsi di quel genere di lavori.

Lo osservò per qualche minuto, l'orecchio sempre teso, in parte a seguire il fischiettare che usciva dalle labbra di lui e in parte per controllare che non le arrivasse nessuno alle spalle.

Era un giovane alto, e malgrado gli spessi abiti che portava si intravedeva un profilo asciutto e muscoloso. Per un istante, alla Riario tornò in mente la novella di Boccaccio ambientata in un convento. Quel giovane sarebbe stato perfetto per interpretare il ruolo del finto muto.

Come se avesse percepito lo sguardo di Bianca puntato contro di sé, il giardiniere all'improvviso sollevò la testa, fino a trovare proprio la ragazza che stava alla finestra. Ci fu il tempo solo di un sorriso, prima che la figlia della Tigre si ritirasse in fretta.

La Riario respirò velocemente un paio di volte, chiedendosi se le sue prime impressioni verso quel giovane uomo fossero state più corrette di quanto avesse creduto. Le tornarono in mente anche le parole di sua madre, quando le aveva fatto capire che, probabilmente, in un monastero abitato da donne di nobile estrazione, gli uomini non fossero realmente banditi.

Cercando di togliersi dalla mente non solo l'immagine del giardiniere, ma anche e soprattutto i ricordi legati all'ultima notte che aveva passato a Ravaldino, la ragazza tornò quasi di corsa nella sua celletta e, ringraziata Suor Ubbidienza che le aveva curato i bambini mentre era dalla badessa, si sforzò di calmarsi.

Giovannino la guardava in modo strano, mentre Cornelia sembrava assonnata. La Riario, con un sospiro, prese il ricettario della madre, sistemato sulla scrivania, in modo forse un po' audace, proprio accanto alla Bibbia e chiese al fratello e alla nipote se volessero che leggesse per loro.

Troppo piccoli per dare risposte coerenti, entrambi parvero ugualmente felici di quella proposta e così la giovane, aprendo una pagina a caso, cominciò a elencare gli ingredienti utili per un belletto per il viso che coprisse le rughe e attenuasse le macchie della pelle.

Né lei né i due bambini seguivano le parole vergate dalla Tigre di Forlì, ma a tutti e tre, Cornelia compresa, malgrado non avesse mai conosciuto la nonna, parve di risentire, in quelle frasi scritte per metà in dialetto milanese e per metà in un latino addomesticato, un'eco di casa in grado di scaldare loro il cuore e farli sentire meno soli.

 

La trombetta aveva annunciato l'arrivo di Cesare Borja e Caterina, così come aveva deciso, non era arrivata sui camminamenti, ma aveva fatto abbassare il ponticello.

Il Valentino, stupito nel vedere quel segno di apertura, si avvicinò un po' titubante, ancora a cavallo, e chiese: “Madonna Sforza... Che significa?”

La Leonessa, avanzando fino a metà ponte, guardò il figlio del papa e poi occhieggiò verso la squadra di cavalieri che l'accompagnavano: “Vorrei discutere con voi – gli disse, con atteggiamento quasi dimesso – ma fronte a fronte, non con tutta questa gente che ci sente.”

Il Duca ebbe un fremito. Il modo in cui la Tigre gli si stava rivolgendo era completamente diverso dalle volte precedenti. Si convinse, molto in fretta, che forse quella donna, finalmente, aveva ragionato e si era decisa ad arrendersi, ma, per pudicizia orgoglio, non voleva farlo in modo plateale, ma discutendo con lui in privato.

“E che avete in mente?” chiese lui, osservandola, mentre ancora avanzava, fin quasi a toccare la terra al di qua del fossato.

“Io sono qui, pronta ad abboccarmi con voi, sicura che, cortese come siete, non mi farete prendere dal drappello di cavalieri che è con voi.” mise in chiaro lei.

Cesare, capendo che quell'occasione sarebbe stata più unica che rara, fece un cenno eloquente ai suoi soldati, che si ritirarono e lasciò il cavallo al suo attendente.

La Contessa, visti quei movimenti, arrivò alla fine del ponticello e mosse ancora qualche passo, mentre il Valentino faceva altrettanto.

Erano ormai abbastanza vicini da potersi guardare e scorgere nei minimi dettagli. Dal cielo bianco cadeva ancora un po' di neve, ma si trattava di qualche fiocco appena. Per certi versi, al Borja quella cornice faceva quasi piacere.

“E dunque, parlatemi meglio delle vostre condizioni.” disse la Contessa, sollevando appena il mento.

Il ventiquattrenne prese fiato e cominciò a elencare uno dopo l'altro tutti i punti che già le aveva esposto il giorno prima, però, questa volta, cercò di farlo con tono colloquiale, come se stesse convincendo una vecchia amica ad accettare un affare particolarmente vantaggioso.

Caterina non l'ascoltava. Stava osservando il suo viso, così particolare, e i suoi occhi, scuri, accesi nello stesso modo in cui lo erano stati quelli di Rodrigo quando l'aveva conosciuto. Poteva scorgere molto del padre, nel figlio, ma c'era un qualcosa di profondamente diverso. Ipotizzò fosse la traccia della madre. Vannozza Cattanei era una donna astuta, lo sapevano tutti, intrigante e scaltra, ma lo era in modo diverso, rispetto al pontefice. Cesare, forse, aveva preso più da lei, nei suoi modi e anche nella sensazione che lasciava, ogni volta in cui si muoveva o abbozzava un sorriso.

Non fosse stato l'uomo che aveva giurato di distruggerla e strapparle lo Stato e la vita, forse la Leonessa avrebbe potuto fare pensieri di un certo tipo su di lui. Ma l'odio e il rancore che porvava nei suoi confronti erano troppo pesanti per permetterle di vedere altro, in lui, se non un nemico.

“Quello che dite mi interessa molto.” fece alla fine la Sforza, quando il Borja ebbe concluso il suo lungo discorso: “Ma lo sapete... Sono una donna sola. Sono vedova. Non ho un marito che mi possa consigliare.”

“Lo comprendo bene.” annuì subito il giovane, assumendo un'espressione grave: “Ed è anche per questo che vi consiglio di accettare la mia offerta. È la cavalleria che mi fa parlare, e la galanteria, perché con una donna vedova come voi, non potrei fare il farabutto.”

La Contessa avrebbe voluto sogghignare e ribattere a tono, ma si trattenne, conscia dell'importanza della sua recita.

Cesare, di contro, nel vederla tanto pensosa, con le labbra rosse come il fuoco e le guance appena colorite per via del freddo, provò verso di lei un'attrazione che prevaricava tutto il resto. Il suo corpo, fasciato in un abito che ne valorizzava le forme, ma che, con i suoi rattoppi, lasciava intendere non solo mesi, ma addirittura anni di difficoltà, focalizzava il suo sguardo.

Se non fosse stato che quella era la donna che lo stava mettendo in ridicolo agli occhi del mondo con le mille difficoltà che gli stava facendo incontrare nella conquista di una città insignificante come Forlì, probabilmente avrebbe potuto fare su di lei pensieri di un certo tipo. Tuttavia la rabbia e il rancore che provava verso di lei oscuravano tutto quanto, trasformando il suo desiderio in qualcosa di turpe, in voglia di violenza e non di passione.

“Io... Io dovrei pensarci meglio.” sussurrò la Tigre, abbassando lo sguardo.

“Se mi promettete che lo farete davvero, vi posso concedere un giorno.” mise in chiaro il Duca di Valentinois, giocherellando con uno dei guanti imbottiti di pelo che indossava.

La donna rialzò gli occhi, passando in rassegna gli abiti costosi ed eleganti del suo nemico. Ancora una volta, il Borja sembrava pronto a un banchetto, più che a una guerra. Lo sdegno e il disgusto della Leonessa si fecero così forti che, per impedirsi di dire quello che pensava, si mise a camminare verso il ponticello.

Solo dopo un paio di passi riuscì a trovare il controllo necessario per dire: “Accompagnatemi fino al ponte, ve ne prego.”

L'uomo, calato perfettamente nella parte del cavaliere galante, non si fece pregare e, affiancandola, camminò con lei in silenzio fino al costone del fossato.

“Vi devo salutare, Duca.” fece lei, lanciando, volutamente, un'occhiata carica d'ansia verso Ravaldino.

“Qualcosa vi turba?” domandò Cesare, appena udibile, chiedendosi se, forse, tutta l'immagine della Contessa Sforza, così temibile e feroce, non fosse solo una messinscena voluta da qualche burattinaio di cui lei avesse addirittura paura.

“Nulla...” rispose in un soffio lei, per poi aggiungere: “Vorreste salire alla rocca da me? Si potrebbe parlare meglio, nel caldo della mia stanza. Avremmo tante cose, di cui discutere...”

Nel dire ciò, la Leonessa posò lentamente una mano sul petto di Cesare, che trasalì, non aspettandosi un contatto fisico con lei.

Di colpo tutte le sue congetture si dissolsero. Il modo in cui la Sforza lo fissava era inequivocabile.

L'avevano dipinta tutti come una pazza furiosa e dissoluta, ma l'unico che sembrava aver dato una lettura di lei corretta era stato Bernardi: la più grande debolezza della Tigre di Forlì erano gli uomini.

Il figlio del papa si passò la lingua sulle labbra. Forse, si disse, avrebbe risolto una guerra combattendo una battaglia tra le lenzuola. Sarebbe stata una doppia vittoria, per lui.

“Certo, mia signora...” le sorrise, malizioso: “Ci son discorsi che non van fatti davanti a troppa gente...”

“Permettetemi di andar per prima...” bisbigliò Caterina, avvicinandosi al suo orecchio, avvertendo le note un po' amare dell'odore della sua pelle, probabilmente dovute a qualche olio profumato che non conosceva: “Non vorrei mai che vi tirassero una freccia temendo una vostra iniziativa personale...”

Quello, se non fosse stato per i cavalieri che la tenevano sott'occhio, sarebbe stato il momento giusto per estrarre il pugnale. Ma doveva aver pazienza. Ormai l'aveva in pugno. L'avrebbero chiuso nella rocca e lì l'avrebbe ucciso.

Il Borja annuì e la guardò precederlo, mentre un brivido ancora lo percorreva lungo il collo, là dove le labbra della Sforza lo avevano quasi sfiorato.

Fece un cenno ai suoi soldati, affinché non lo seguissero, né si mettessero in stato d'agitazione, e poi, quando la Leonessa, già arrivata alla porta, gli fece segno con la mano, mise un piede sul ponticello.

Non appena lo fece, però, sentì il legno scricchiolare e il ponte muoversi. Vide la Contessa cambiare espressione e gridare qualche bestemmia rivolta a qualcuno che era nella rocca. Capì l'antifona e una collera incontenibile lo portò a sbraitare insulti e volgarità di ogni genere.

“Maledetta sgualdrina!” gridò a un certo punto, quando ormai il ponticello era quasi interamente risollevato: “Mi hai ingannato! Tradimento! Volevi far di me carne da macello! Lupa!”

E poi, tornandosene di corsa al proprio cavallo, il figlio del papa riprese la sua sequela di sproloqui, abbandonandosi a immagini tanto sacrileghe che perfino alcuni dei suoi soldati, pur non capendo bene la lingua, impallidirono.

“Lo avevo quasi in pugno! Mancava un soffio!” ululò Caterina, correndo all'argano e prendendo Giovanni da Casale per il giubbone: “Avrei potuto ucciderlo! Avrei dovuto ucciderlo quando ancora ero giù dal ponte! Se solo non fossi stata tanto stupida da dar credito alle tue promesse!”

Pirovano, che aveva peccato di solerzia, più che d'altro, cercava di difendersi sollevando le mani e sciorinando scuse, ma la Tigre non sembrava in grado di calmarsi.

Solo dopo almeno cinque minuti di bestemmie, la Sforza si rese conto di tutti gli occhi che aveva puntati addosso. Lasciò all'improvviso la presa sul milanese e gli sibilò di aspettarla nello studiolo del castellano.

“Se ci trovi il castellano – precisò – digli di levarsi dai piedi, prima che arrivi io.”

Poi, guardandosi tutt'attorno e vedendo ancora l'assiepamento di uomini che la fissava, si abbandonò a una serie di insulti verso il Borja e poi, schiarendosi la voce, si impose di calmarsi.

“Convoco un Consiglio di Guerra tra venti minuti.” decretò: “Tutti i miei Consiglieri si facciano trovare nella Sala della Guerra. Abbiamo molte cose da decidere, ora.”

 

Cesare si sentiva una furia. Il cuore gli batteva nel petto a una velocità che lo faceva quasi star male. Era sudato, le mani gli tremavano e aveva il fiato corto.

Tutti i generali nella stanza lo osservavano come se avessero paura di vederlo caracollare in terra da un momento all'altro. Lui, però, non aveva alcuna intenzione di dar loro soddisfazione.

“Quella... Quella cagna!” sbottò, battendo un pugno contro il muro: “Ha cercato di prendersi gioco di me!”

Qualcuno tra i presenti, avendo sentito il racconto dell'accaduto direttamente da un paio dei cavalieri che erano stati testimoni, avrebbe voluto dire che la Sforza non aveva 'cercato' di prendersi gioco di lui: c'era riuscita. Anche se il piano, quale che fosse, era ovviamente sfumato, il Valentino era andato così vicino al lasciarsi mettere in trappola da poter asserire che la partita, per il momento, la stesse vincendo la Tigre.

La partenza, avvenuta senza tante cerimonie quella mattina all'alba, del Cardinale Borja aveva lasciato il sospetto, ad alcuni graduati dell'esercito francese, che il Duca di Valentinois stesse perdendo un po' la presa sulla situazione, tanto, almeno, da voler spedire in fretta il parente a Roma in modo che non potesse riportare troppe notizie negative al padre.

“Ma si può sapere che cosa sarebbe successo?” chiese a un certo punto il Balì di Digione, che, investito della carica di moderatore legale della spedizione, voleva vederci chiaro per comprendere se vi fosse stata qualche mancanza anche da parte di Cesare e non solo, com'era ovvio, della loro avversaria.

Quella spedizioni in Romagna si stava dimostrando molto più lunga e dispendiosa di quanto il re avesse voluto e, dunque, se la questione si fosse protratta troppo, non era da escludere l'idea di cercare un accordo con la signora di Forlì in un secondo momento, concentrando le forze verso il vero obiettivo di Luigi XII: Napoli.

Il figlio del papa era restio a parlare apertamente dell'inganno in cui era quasi caduto, così raccontò la mezza Messa, lasciando intendere di essere riuscito, a un certo punto, ad ammorbidire la Sforza, tanto da convincerla a entrare a Ravaldino e discutere della resa.

“Ovviamente – precisò il giovane – una volta entrato l'avrei uccisa, anche a mani nude, se necessario...”

Nessuno volle commentare quell'inciso, specie perché era quanto di più astratto potesse esserci, visto com'era andato l'incontro, ma, da quel momento in poi, tutti si misero a fare proposte per decidere come muoversi in modo da distruggere la Tigre una volta per tutte.

 

“Me l'avevi promesso!” l'esplosione arrivò nello stesso momento in cui Caterina varcò la soglia dello studiolo.

La donna aveva cercato di trattenersi fino a che non fosse arrivata davanti a Giovanni, e così era riuscita a fare, anche se ogni passo, dal cortile fino a lì, era stato una dura lotta con se stessa.

L'uomo la fissava immobile, come congelato. Nei suoi occhi scuri si poteva leggere una paura concreta, simile a quella dei condannati a morte, e le sue labbra, appena schiuse, erano l'emblema della sua incredulità dinnanzi alla sua stessa codardia.

La Tigre non attese che il suo amante provasse a scusarsi. Gli andò incontro, spingendolo contro il muro e, stringendogli le mani al collo, gli chiese, molto volte, perché avesse sollevato il ponticello prima del dovuto.

Rendendosi conto che Pirovano non riusciva più a respirare e stava, anzi, diventando violaceo, la Sforza lasciò la presa, ma non smise di chiedere: “Perché l'hai fatto?”

Tossicchiando, piegato su se stesso nel tentativo di tornare a respirare normalmente, il milanese gracchiò: “Io credevo...”

“Tu credevi!” urlò la Leonessa, volendosi sfogare su di lui, ma incanalando la propria collera verso la scrivania del castellano, che finì rovesciata in terra: “Tu non dovevi credere un bel niente! Tu dovevi solo eseguire gli ordini!”

Giovanni scosse appena il capo e provò di nuovo a parlare, ma questa volta la Contessa non si trattenne. Afferrandolo per il colletto del giubbone, in modo simile a come aveva fatto nel cortile, lo tenne fermo. Lo guardò per un lungo istante in volto e quando lui, vinto dal senso di vergogna, distolse lo sguardo, lo colpì in pieno viso, con un pugno.

Un po' stordito, l'uomo cadde in terra in ginocchio. Era convinto che, presto, alla sua gola sarebbe arrivata la lama del pugnale della sua donna, la stessa lama che era stata destinata al Borja. Solo che, più aspettava, più il silenzio si faceva pesante e il sollievo della morte non giungeva.

Un po' tentennante, temendo di essere solo all'inizio di un lungo supplizio – perché sapeva che Caterina era nota per divertirsi con i condannati, prima di ucciderli – Pirovano alzò appena il capo, per cercare di vedere che stesse succedendo. Aveva un occhio che lacrimava, per via del colpo subito, ma poteva scorgere benissimo la Leonessa che gli dava le spalle.

La Contessa teneva una mano premuta sulla fronte, mentre con l'altra si appoggiava alla parete, come se avesse bisogno di sentirne il sostegno.

Dopo un po', gettando il capo all'indietro e sospirando rumorosamente, la Tigre gli lanciò una breve occhiata da sopra la spalla e chiese, a voce bassa e implacabile: “Sai cosa significa, quello che hai appena fatto?”

Giovanni non riuscì a dire nulla, rimanendo genuflesso, in attesa di scoprire cosa ne sarebbe stato di lui.

“Significa – spiegò la donna, con aria stanca, voltandosi finalmente di nuovo verso di lui – che la nostra ultima possibilità di far finire bene questa guerra è andata sprecata. Che tu l'hai sprecata. E adesso noi due andremo al Consiglio di Guerra e tu non aprirai bocca, ma ascolterai tutti. Guarda bene gli uomini che vedrai riuniti, perché moriranno. Moriranno tutti, e non tra anni, ma oggi, o domani, o nel giro di qualche giorno. Guardali attentamente e sappi che moriranno e che la colpa sarà soprattutto tua.”

Pirovano annuì, mentre, lentamente, capiva che la sua donna non lo stava condannando, che lo stava graziando di nuovo. Gli sembrava impossibile, eppure era così.

“E adesso alzati.” lo spronò lei: “Sei patetico inginocchiato a quel modo...”

Il milanese la ringraziò, mentre si tirava in piedi a fatica, ma la Leonessa non voleva sentirlo.

“Prima di venire al Consiglio, rimetti in ordine la scrivania.” concluse la Sforza, indicando il disastro che aveva combinato lei: “E per stanotte cercati un'altra stanza. Io non ti voglio.”

 
   
 
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