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Autore: Adeia Di Elferas    05/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Amici miei – cominciò Caterina, guardando gli uomini che le stavano attorno, ovvero i Capitani, i suoi soldati più fidati, il castellano, i Consiglieri più stretti e anche i suoi segretari, Baldraccani e Monsignani compresi – e difensori miei... Noi siamo al punto.”

La gravità della sua voce risuonò come un monito nella Sala della Guerra e, tra tutti, quello che pareva più provato da quell'affermazione era sicuramente Giovanni da Casale che, con le mani strette l'una nell'altra e una guancia gonfia, ascoltava tutto a capo chino come un penitente.

“Il Duca è partito or ora da me furibondo.” riprese la Sforza, deglutendo, in cerca del modo migliore per esporre quello che pensava, riuscendo al contempo a non accusare apertamente Giovanni e a non attirare l'odio di nessuno su di lui: “Si è provato a lusingarmi, non è riuscito.”

La donna, divisa tra la tensione del momento e la stanchezza fisica, che mai come in quel momento si stava facendo sentire, spostò il peso da una gamba all'altra, per dare sollievo alla destra, che ancora la infastidiva e poi, con maggior decisione, andò avanti.

“Ora cercherò una vendetta atroce.” quella supposizione, a suo modo di vedere, era ovvia, eppure, alcuni dei suoi soldati, parve sorprendersi di una lettura tanto drammatica della situazione: “Io non ho tradito l'onore della mia casa. In essa non sorsero mai uomini vili e d'animo basso.”

Giovanni, sentendosi in un certo senso chiamato in causa, smise di fissarsi gli stivali e guardò la sua amante. Malgrado tutto, anche se si vedeva quanto fosse abbattuta e sfinita, gli sembrava ancora la donna più bella del mondo. E si sentiva ancor peggio, pensando che, per colpa sua, tutti i suoi sforzi sarebbero stati vani.

“Così il mondo possa vedere quanto i Borja di Valencia sono diversi dagli Sforza di Milano!” si infervorò la Contessa, cercando, per prima, di trovare incoraggiamento nelle proprie parole: “Non temete! Noi abbiamo artiglieri, munizioni, Capitani esperti, buoni ingegneri quanto loro. Noi siamo tutti concordi: fra loro è discordia. Ed io, io più di tutti so bene che di questa iniqua conquista della Romagna, il re di Francia si cura ben poco...”

Gli uomini che tenevano le pupille puntati su di lei stavano letteralmente pendendo dalle sue labbra. Caterina stava parlando con tanta convinzione che nessuno avrebbe potuto credere che ogni sua frase fosse diversa dalla realtà più palese e ovvia. Se la Tigre sosteneva che loro era altrettanto forti e che i francesi, in fondo, non erano determinati quanto loro a vincere, allora significava che la guerra non era persa.

“Se al primo assalto noi riusciamo a ricacciare indietro le soldatesche del Duca – prese a spiegare la Sforza, indicando la mappa della città che aveva fatto mettere sul tavolone al posto di quella dell'intera penisola italiana – tutti i francesi lo abbandoneranno, e rimarrà solo con le truppe papali, le quali non ci fanno paura. E i forlivesi, che ora non osano fiatare, né alzare gli occhi da terra, quel giorno, credetelo, si solleveranno tutti a favore nostro.”

Il silenzio era perfetto, nessuno osava contraddirla. Tutti i colli si tendevano, perfino quello di Pirovano, per guardare i punti della cartina che la Leonessa indicava.

“Ricordatevi che ho una sorella imperatrice...” suo malgrado, nel ricordare Bianca Maria, trovatasi a essere l'infelice sposa dell'Imperatore Massimiliano, la Contessa sentì la propria voce abbassarsi di un tono, ma poi riuscì a riprendere come nulla fosse, mentendo con una facilità che sorprese per prima lei stessa: “So che essa prega il marito a mandarmi aiuti! Che avrebbe allora del Duca e di tutte le sue forze?”

Anche questa volta, tutti i presenti aspettarono che fosse lei a proseguire il discorso, anche se quella domanda retorica aveva riacceso l'espressione di molti di loro.

“Coraggio!” li incitò Caterina: “Coraggio! Come venire a patti col nemico, prima di esserci misurati davvero con lui? Tutto sta nel resistere al primo impatto, mostrandoci intrepidi, fiduciosi, e la vittoria sarà vicina, perché il re di Francia, lo ripeto, si ride di questa impresa del Duca e non può lasciargli a lungo le sue genti, giacché teme assai quelle che i miei zii Ascanio e Ludovico Sforza vanno raccogliendo in Germania contro di lui.”

La Sforza si prese un momento, in modo che durante quella pausa ciò che aveva detto si solidificasse nell'animo dei suoi ascoltatori. Poi, levandosi dalla mappa e tornando a fronteggiarli apertamente, di preparò per l'ultimo affondo.

Con la truppa avrebbe fatto un discorso diverso, ma coi suoi quadri di comando voleva essere incisiva, certo, ma anche dimostrarsi fine di intelletto, perché si sentissero al sicuro e non solo spalleggiati da un braccio abbastanza forte da roteare uno spadone: “E la vittoria nostra sarà la più bella – assicurò – la più gloriosa, perché non avrà altro motivo che la difesa della giustizia, della patria, della famiglia, perché le forze nostre sono tanto inferiori a quelle dei nemici, e perché il capo dell'impresa è una donna imbelle, difesa da una mano di eroi.”

Qualcuno, specie i Capitani, cominciò a battere ritmicamente il tacco in terra, a simulare l'incitamento più solenne che un esercito potesse tributare a un comandante, ovvero il battere delle armi contro gli scudi.

“Ci faranno a pezzi, ma le ossa nostre chiederanno vendetta a Dio, e da esse sorgerà forse un giorno chi con ferro e col fuoco sterminerà questa stirpe scellerata dei Borja!” concluse la Sforza, e, finalmente, l'intera sala si sciolse in un fragore di grida e applausi.

Il discorso, però, non era finito. Alimentato dal suo stesso ardore, doveva ancora aggiungere una fiamma in più a quella che già si era accesa nel petto degli uomini della Tigre.

La donna, sapendo che era giunto il momento di immolare se stessa alla causa, e di farlo in modo inequivocabile, prese fiato e mise in chiaro: “Di me potete assicurarvi, che non curo pericolo, che non mi smarrisco per timore, e molto meno che stento e fatica ricuso di sorte alcuna in favore mio, e vostro, o dei miei figli e vassalli, fissa con gli occhi in una morte onorata o in una vittoria gloriosa.”

Per la seconda volta, la sala espresse il suo appoggio incondizionato alla Contessa, ma questa volta in modo molto più sobrio. Il battere dei piedi in terra e, per quelli che riuscivano, dei pugni contro le pareti rimbombò nel petto di Caterina.

Per un fugace attimo tornò indietro di molti anni, a quando aveva lasciato la sua Milano. Anche quella volta, seppur sulla fiducia e non a ragion veduta, i soldati le avevano reso omaggi in modo marziale. L'avevano accompagnata alle porte del palazzo di Porta Giovia come avrebbero potuto fare con un guerriero degno di ogni onore.

Ora, gli uomini che l'omaggiavano in quel modo la conoscevano, alcuni molto bene. Ecco perché il loro saluto, quasi un abbraccio, per lei, la scaldava e le ridava vita, facendole quasi dimenticare tutti i lutti, il dolore e la paura che le toglievano il sonno e le avvelenavano la veglia.

Ci volle un po', prima che tornasse una discreta calma e allora la Tigre cominciò a dare ordini, come il più efficiente dei condottieri.

“Alessandro...” fece, a un certo punto, chiamando a sé il fratello: “Vieni e ragiona con me sulla disposizione dei cannoni.”

Lo Sforza discusse a lungo con la sorella su come disporre le guardie, le batterie di cannoni e su come coordinare le prossime uscite notturne. Dall'inizio dell'assedio avevano perso ben più di un uomo e quindi il rimodellamento della difesa era qualcosa di cui occuparsi molto di frequente.

Anche se il dibattito pareva solo tra la Contessa e il fratello, in realtà quasi tutti i presenti diedero a turno il loro apporto e, alla fine, quando si approvò il piano, tutti furono certi di aver suddiviso le forze rimaste nel migliore dei modi possibili.

Tutto deciso, la donna dichiarò sciolta la riunione. Mentre i membri del Consiglio di Guerra raggiungevano la porta, Scipione si avvicinò alla Tigre e attese che lei gli rivolgesse l'attenzione.

Quando la Sforza sollevò lo sguardo verso di lui, il ragazzo chiese: “Davvero l'Imperatore ci manderà un esercito in aiuto?”

“No.” ribatté secca Caterina, massaggiandosi il collo.

Il Riario non parve particolarmente stupito da quella risposta, tuttavia, incrociando le braccia sul petto, indagò: “E allora perché ne avete parlato?”

“Io non ho promesso nulla.” fece la Leonessa, cominciando a perdere la pazienza: “Ho solo detto che mia sorella sta pregando il marito per far sì che non sia sordo alle nostre difficoltà. Solo che posso immaginare le preghiere di mia sorella: un sussurro nemmeno udibile. E posso altresì immaginare come le orecchie di Massimiliano siano indirizzate in tutt'altra direzione...”

Scipione sembrava ancora non cogliere le motivazioni che avevano indotto la Contessa a illudere i suoi uomini di poter aver avere un appoggio laddove non sarebbe mai arrivato, tuttavia, non volle sindacare oltre: “In ogni caso – le disse, sollevando un sopracciglio – avete parlato come il migliore dei generali.”

La donna, massaggiandosi la gamba che ancora le doleva, lo ringraziò con un cenno del capo e poi disse, vendendo come Giovanni da Casale fosse ancora nella sala, vicino alla porta, ma presumibilmente intento ad aspettarla: “Adesso, per favore, ho bisogno di restare sola. E portati dietro anche lui...” concluse, indicando Pirovano: “Non lo voglio qui.”

Il Riario si congedò con un breve inchino e un mezzo sorriso e poi si avvicinò al milanese. Gli sussurrò qualche parola e poi, riuscendo a spegnere in fretta le di lui rimostranze, lo convinse a seguirlo fuori dal salone.

Caterina, con un sospiro, tornò a guardare la mappa della sua città. Rivalutò attentamente tutti gli schieramenti che aveva concordato con i suoi uomini. Si perse in previsioni, cercando di capire quanti giorni ancora avrebbero potuto sopportare l'assedio dei francesi. Nella migliore delle ipotesi, forse anche un mese. Nella peggiore, non avrebbero visto Capodanno.

Stanca, la donna si passò una mano sul volto, cercando di non pensare a Giovanni da Casale e all'errore imperdonabile che aveva commesso quel giorno. Anche lei aveva sbagliato, e per ben due volte. Innanzitutto avrebbe dovuto scegliere qualcun altro, da mettersi accanto per un progetto tanto delicato. In secondo luogo, quando era stata abbastanza vicina al Valentino da poterlo toccare, avrebbe dovuto estrarre il pugnale e ucciderlo. Anche se, facendo così, i cavalieri che scortavano il Duca l'avrebbero sicuramente ammazzata, almeno avrebbe decapitato la spedizione papale e i suoi soldati avrebbero potuto se non vincere, almeno trattare una pace.

Con un sapore amaro in bocca, la Tigre si disse che ormai era inutile pensarci. La cosa che avrebbe voluto più di tutto il resto, in quel momento, sarebbe stato poter prendere il suo stallone e andare a caccia nella sua riserva. Non poteva farlo, ovviamente: il suo stallone era morto e la sua riserva di caccia non esisteva più.

Fece un sospiro tremulo e voltò le spalle alla mappa di Forlì. Mosse appena qualche passo fino alla porta, quando un boato, abbastanza lontano, la fece sobbalzare.

Corrucciata, temendo che fosse successo qualcosa di irreparabile, la Contessa si mise a correre, per quanto il fianco le dolesse a ogni passo, per raggiungere i camminamenti e vedere coi propri occhi che stessa capitando.

 

Il Valentino guardava giubilante il grosso buco che i suoi guastatori avevano provocato nelle mura della città. Il fatto che la Sforza avesse fatto a suo tempo chiudere quasi tutte le porte era stato ovviato nel giro di pochi minuti. Adesso, finalmente, l'artiglieria era libera di uscire dalla città senza dover fare troppa strada.

Dopo aver discusso alla lungo, il Borja e i suoi generali avevano deciso di aumentare la pressione sulla loro nemica e, per farlo, avevano scelto di impiantare due batterie stabili in due punti fino a quel momento non utilizzati.

A farli propendere per questa soluzione erano state due evidenze. La prima era che la cittadella era stata davvero abbandonata. Ne avevano avuto il sospetto per giorni, ma ormai ne erano più che sicuri, e quindi passarvi accanto non sarebbe stato un pericolo. In secondo luogo, avevano capito che se non si fosse dispiegato il grosso dell'artiglieria, quell'assedio non sarebbe finito né presto né bene.

La prima batteria sarebbe stata messa accanto alla chiesa di San Giovanni Battista. Cesare aveva voluto che fosse composta da quei pregiatissimi pezzi che, per il momento, i francesi avevano voluto tenere in piazza, sia per non usarli, sia per sfruttarne l'immagine come deterrente verso i forlivesi ribelli. Si trattava di sette cannoni bellissimi, dei quali il migliore era sicuramente una bocca da fuoco chiamata Tiverina, lunga nove piedi e abbastanza grande da sparare una palla dal diametro di una spanna. Vi si aggiungevano dieci falconetti, che avrebbero fatto da perfetto accompagnamento durante i bombardamenti. In più, avrebbero potuto contare sugli efficientissimi guastatori cesenati, inviati lì proprio quel giorno da Achille Tiberti.

Ciò di cui però il Borja andava davvero fiero, e che l'aveva portato a far aprire a suon di cannonate un passaggio nelle mura cittadine, era la seconda batteria.

Sarebbe stata sistemata in aperta campagna, le bocche dei cannoni puntati sul lato della rocca che volgeva alle montagne. Insomma, sarebbe stato come prendere la Tigre alle spalle, tagliandole la via di fuga che, sicuramente, lei aveva sempre ritenuto la più sicura: la strada per Firenze.

La cosa quasi divertente era che, in quella zona, fino a poche settimane addietro si diceva vi fosse parte della riserva di caccia privata della Sforza. Era stata lei stessa a disboscare tutto, preparando, involontariamente, il terreno alla loro artiglieria.

“Tra quanto saranno operativi?” chiese il Duca di Valentinois, mentre osservava i suoi soldati spostare i calcinacci delle mura per lasciare passare quelli che avrebbero portato i cannoni a dimora in campagna.

“Non prima di due giorni...” spiegò il Capo Artigliere, con un italiano dalla flessione spiccatamente d'Oltralpe: “Dobbiamo mettere a posto i cannoni e poi dobbiamo calibrare i tiri... Se dovesse riprendere a nevicare, poi...”

“Vi do un giorno e mezzo.” tagliò corto il Valentino: “Non di più. Sabato mattina voglio che si cominci a bombardare: non più tardi.”

Il francese si morse il labbro e poi, puntando gli occhi chiari in quelli del figlio del papa, borbottò qualcosa nella sua lingua e infine accettò: “Faremo come dite, mio signore.”

 

“Vogliono accerchiarci.” disse piano Caterina, che, dopo aver osservato a lungo i maneggi dei francesi, aveva capito a cosa serviva la grossa breccia nelle mura: “Si stanno preparando all'assalto finale.”

“E noi che possiamo fare?” chiese Marulli, in piedi accanto a lei dietro le merlature.

“Nulla di che...” ammise lei: “Ma possiamo disturbarli. Non possiamo attaccare le batterie, perché di certo metteranno degli uomini a far la guardia. Sono pezzi troppo preziosi per non essere difesi...”

Alessandro, che stava alla sua destra, notò la mano della sorella correre alla gamba destra e massaggiare un po'. Intuì che fosse ancora dolorante per quanto accaduto la notte prima. Baccino gli aveva riferito per filo e per segno cos'era accaduto durante la sortita e lo Sforza si sorprendeva del fatto che la Tigre, nonostante tutto, fosse ancora in piedi.

“Stanotte colpiremo il quartiere in cui sono sistemati i loro artiglieri.” propose l'uomo, più con il tono di chi dà un ordine che non con quello di chi espone un proprio pensiero in attesa di essere vagliato: “Ma esco io con i soldati. Tu resterai alla rocca.”

Michele scorse lo sguardo perentorio che il milanese aveva appena lanciato alla Leonessa e così, capendo che ormai il discorso era solo tra fratello e sorella, si scusò in un sussurro, allontanandosi e lasciandoli soli.

Caterina si tolse dalla fronte una ciocca di capelli bianchi che, con i pochi fiocchi di neve che cadeva quel pomeriggio, si era inumidito, dandole fastidio: “Che intendi dire?”

“Che ti devi riposare.” ribatté lui, mettendosi a fissare l'orizzonte.

Finalmente la donna capì che il fratello era, più che altro, preoccupato per lei. Non era un tentativo di prevaricarla, ma solo di proteggerla.

“Non ci servi, se hai la testa altrove e il fisico stanco.” proseguì lui: “Devi prenderti una pausa. Non puoi combattere di notte e comandare di giorno. Nessuno potrebbe andare avanti così per così tanto tempo...”

“Tanto non riuscirei a riposare, sapendo che tu e i miei soldati siete in battaglia.” controbatté lei, rigida.

“Se non riesci a dormire, e lo capisco, puoi fare altro.” si ostinò lui, tornando a guardarla: “Devi distendere i nervi. Devi dare una tregua alla tua anima, non solo al tuo corpo. Fatti uno dei bagni caldi che ti piacciono tanto. Bevi del vino. Passa un paio d'ore con il tuo amante. Chiudi fuori il mondo per un po'.”

La Sforza non volle commentare la parte che riguardava l'amante. Si era ripromessa di non passare mai più la notte con Pirovano, ma, in tutta onestà, non sapeva dire nemmeno lei se quel proposito fosse sensato o meno.

“Mi stai chiedendo di disinteressarmi a una guerra che ho voluto io.” sussurrò la Tigre, posando una mano sulla pietra fredda della merlatura.

“Non l'hai voluta tu...” la contraddisse il fratello.

“Se mi fossi arresa subito, sarei morta solo io.” fece notare lei: “Invece ho trascinato tutti quanti in questo disastro...”

Alessandro strinse le labbra. Quando assumeva quell'espressione, la Contessa rivedeva in lui il profilo della loro madre. Quel dettaglio, le diede una stretta al cuore tutta particolare. Il suo pensiero andò subitaneo a Piero. La rocca di Forlimpopoli, per quello che ne sapeva, era ancora tranquilla, ma presto, di certo, sarebbe arrivato l'inferno anche lì.

“Ascoltami, Caterina...” la voce dello Sforza si era fatta molto più colloquiale, mentre le posava una mano sulla spalla: “Fai come ti ho detto. Prenditi un momento: un bagno caldo, per scaldarti il corpo, un po' di vino per scaldarti lo stomaco e un uomo che ti piace per scaldarti il letto. Non devi sentirti in colpa: te lo meriti, un attimo di tregua. Fa troppo freddo, per restare fuori anche stanotte.”

“Fa freddo anche per te.” fece, cominciando però già a cedere al quadretto invitante dipinto dal milanese.

“Io non ho ancora fatto appieno la mia parte, in questa guerra.” sospirò Alessandro, togliendo la mano dalla spalla della Tigre e tornando a guardare verso la città: “Dio solo sa quanta voglia ho di mandare all'altro mondo un po' di francesi. Lasciamelo fare, stanotte.”

“Va bene.” concesse la Leonessa, assaporando già una serata relativamente tranquilla: “Ma stai attento.”

“Non mi farò uccidere.” promise lui, strizzando l'occhio, come quando faceva promesse azzardate da bambino.

“Sarà meglio.” sorrise la donna, dandogli un colpetto sulla schiena, a mo' di saluto: “Nostra madre non me lo perdonerebbe...”

Alessandro non ribatté. Nel tono un po' dimesso della sorella poteva avvertire una sorta di rassegnazione. Era come se la loro madre, morta già da anni, fosse una presenza viva tra loro. Un po' come se, ormai, il mondo dei morti fosse anche il loro.

 

Gian Giacomo da Trivulzio ripiegò con cura la lettera in cui gli si riassumeva la situazione in Romagna, ormai risalente, però, a quasi una settimana addietro.

Il palazzo di Porta Giovia era freddo. Sembrava che non bastassero mille bracieri per scaldare quelle spesse pareti da rocca. Il condottiero cercava di scaldarsi come poteva, ma, complice l'età ormai non più verde e le preoccupazioni, che gli intorpidivano le mani, oltre che la mente, l'uomo non riusciva a levarsi dalle dita un fastidioso formicolio.

Mettendo da parte la missiva ripiegata, Gian Giacomo studiò a lungo la mappa, continuando a sfregarsi le mani, nella speranza di recuperare se non altro un po' di sensibilità. Fuori la nebbia attanagliava il palazzo e Milano sembrava decisa a fargli guerra sotto ogni punto di vista.

Aveva come l'impressione che tutto gli stesse sfuggendo di mano. Forse Luigi XII era stato troppo frettoloso, tornando in patria tanto presto. Forse aveva sbagliato a scegliere proprio lui come suo portavoce in Lombardia...

Il Trivulzio si passò una mano sul volto e poi si mise a fissare il soffitto a cassettoni. Gli sembrava di essere in prigione. Stava cercando di fare tutto per bene, ma i suoi informatori non perdevano occasione di fargli notare come in città si stesse in fretta creando un movimento a favore del ritorno di Ludovico il Moro e come, più lui reagiva duramente a questa situazione, più i malcontenti si inasprivano, facendosi via via sempre meno nascosti e più violenti.

Tutte le iniziative che aveva preso per consolidare il potere francese nel nord Italia gli si stavano rivoltando contro. Prima di tutto, il suo tentativo di restaurare i de Rossi in Emilia era riuscito solo per metà: aveva promesso al suo amico fraterno Troilo San Secondo, Torrechiara e Felino, ma, di fatto, proprio per intromissione degli uomini di Luigi XII, era riuscito a fargli riavere solo la prima.

Non era riuscito a far capire al re quanto fosse importante sostenere Troilo e non il cugino Filippo, che era un fedelissimo del Doge. Bloccare una possibile espansione di Venezia verso Parma a Gian Giacomo pareva fondamentale, ma Luigi XII aveva liquidato la questione, sostenendo che il parmense non era una zona di suo interesse. Così Torrechiara e Felino erano stati prontamente rivenduti ai fratelli Pallavicino di Busseto, nemici giurati del padre di Troilo.

E, in modo simile, su ordine del re, il Trivulzio stava mediando ormai da giorni con Annibale e Antonio Balbiano, dalla Val Chiavenna. Fosse dipeso da lui, non avrebbe cercato alcun accordo, occupando le loro terre per tagliare un possibile corridoio di ritorno al Moro. Invece sul tavolo delle trattative c'era uno scambio: i Balbiano avrebbero ceduto le valli del chiavennate, ricevendo in cambio Isola, Colonno, Lezzeno, Sala, Ossuccio, Leno, Mezzegra e Tremezzo. Insomma, lasciando loro delle terre del genere, era facile pensare che, al momento buono, avrebbero potuto offrire comunque una sponda a Ludovico Sforza.

“Troilo...” Gian Giacomo fece un sospiro, vedendo arrivare l'amico: “Siete rientrato presto...”

Il de Rossi, che era stato nei boschi attorno a Milano, per conto del Trivulzio, per controllare che non vi fossero nuovi focolai di rivoltosi nascosti fuori dalla città, sollevò le spalle e ammise: “Si sta già facendo molto buio e con questa nebbia non si vedeva più nulla. Anche se ci fosse stato qualcuno pronto a spararci un colpo di cannone, non l'avremmo visto...”

Il Trivulzio gli indicò lo scranno accanto al suo e gli disse, per sfogare la propria frustrazione: “Se solo noi due potessimo fare quello che ci pare... Sempre come cani alla corda, dobbiamo comportarci...”

Troilo si grattò la barba rossiccia, che in quei giorni non stava curando affatto, e ribatté: “Un cane alla corda deve saper aspettare il momento giusto. Continuando a morderla alla fine si spezzerà.”

Gian Giacomo annuì e, battendo un colpetto sulla spalla di Troilo, cambiò argomento, cercando di alleggerire un po' l'atmosfera: “E quella bella donna che ho visto uscire dai tuoi appartamenti questa mattina..?”

L'emiliano sporse un po' in fuori il mento e poi, lanciando un'occhiata carica di significato all'altro, ribatté: “Sono fatto di carne anche io.”

“Lo so, lo so, e lo capisco.” annuì il più vecchio: “E non te ne sto facendo una colpa. Anzi, trovo che per un uomo come te, ancora nella pienezza, cercare compagnia così di rado sia un modo di punirsi. Dovresti concederti più svaghi. Comunque volevo solo sapere se la rivedremo presto a palazzo.”

Il de Rossi scosse il capo: “No, no... Come avete detto anche voi, avevo bisogno di un momento di svago, ma a combinare le cose in un certo modo non ci ho mai provato gusto.”

“Dovresti trovarti una moglie.” sentenziò Gian Giacomo, poi guardò la mappa e, con un'alzatina di spalle, passò oltre: “Allora, che mi dici della proposta che abbiamo fatto ai Balbiano?”

 

Caterina aveva guardato, dall'alto di una delle finestre che davano sul cortile d'addestramento, i soldati che si preparavano per uscire. Tra loro, l'aveva notato subito, c'era anche Baccino. La tentazione di richiamarlo e non farlo partecipare alla sortita era stata forte, ma si era trattenuta.

Aveva già imparato troppe volte e a proprie spese che proteggere troppo gli uomini per cui provava qualcosa che andasse oltre l'attrazione fisica era un errore. In un mondo meno cruento, forse, non lo sarebbe stato, ma nel sistema di vita in cui si trovava, proteggere sotto la sua ala un uomo equivaleva a metterlo in ridicolo nel migliore dei casi e in pericolo di morte nel peggiore.

Per distrarsi, dopo la partenza della colonna di fanti e cavalieri, la donna era andata nella sala dei banchetti e aveva cercato di mangiare qualcosa. Lo stomaco chiuso, però, gliel'aveva impedito e così, seguendo il consiglio di suo fratello Alessandro, aveva chiesto ad Argentina di prepararle l'acqua per un bagno e farle portare del vino in stanza.

Mentre la serva preparava il tutto, la Sforza fece un breve giro della rocca, per controllare che fosse tutto in ordine. Le faceva ancora male la gamba, ma, tutto sommato, il dolore stava passando. I gradini che la separavano dalle merlature, comunque, le parvero più alti del solito, forse proprio perché salirli le riaccendeva il fastidio al fianco.

Quando arrivò in cima, si assicurò che tutti fossero al loro posto e poi diede un rapido sguardo alla città immersa nella notte. La sortita di quella notte era prevista in un punto di Forlì che non si poteva scorgere bene dai camminamenti, perciò evitò di cercare con lo sguardo i segni dello scontro.

Stava quasi per tornare in camera, quando vide un paio di frati seduti sulle panche di pietra del corridoio. Stavano entrambi confessando. Siccome uno dei due era Vangelista, e siccome, in tutta onestà, la Contessa non aveva alcuna voglia di restare da sola con i suoi fantasmi, attese con pazienza che finisse di assolvere una delle serve della cucina e poi gli si andò a sedere accanto.

“Sono sola, stanotte.” gli disse, mentre lui si faceva il segno della croce, forse convinto di doverla confessare.

Monsignani deglutì e poi fece notare: “Giovanni da Casale non è uscito.”

“Sì, ma stanotte non lo voglio, in camera mia.” chiarì la Leonessa.

Il frate parve pensarci e poi, grattandosi un momento il labbro superiore, concluse: “Va bene.”

Felice di non aver incontrato in lui grosse difficoltà, la donna si rialzò e disse: “Ho fatto preparare un bagno caldo, quindi non voglio che l'acqua si freddi.”

Il frate annuì, fece per lasciare a sua volta la panchetta, ma poi vide che un uomo si stava avvicinando con le mani giunte in grembo e la faccia da penitente. Poiché l'altro religioso era ancora impegnato, Vangelista tentennò.

“Fai il tuo dovere.” gli concesse la Tigre: “Ma sappi che ti aspetto e che la mia pazienza si esaurisce in fretta.”

Il venticinquenne accennò un sorriso e poi assicurò, mentre già faceva segno al fedele di avvicinarsi pure: “Lo so. Sarò da te prima che l'acqua si freddi, lo prometto.”

 
   
 
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