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Autore: Adeia Di Elferas    08/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'acqua nella tinozza era ancora tiepida, quando, finalmente, Vangelista aprì la porta: “Scusa se ci ho messo un po'...” disse, mentre richiudeva e andava un momento davanti al camino aperto per scaldarsi: “Dopo l'uomo che hai visto, ne sono arrivati altri due e... Be', insomma, non potevo non fare il mio dovere.”

“Stavo per perdere le speranze...” commentò, senza rabbia, la donna.

“Lo sai che quando prometto, mantengo.” sorrise lui, avvicinandosi alla tinozza e mettendo una mano nell'acqua: “Infatti, non è ancora fredda.”

Sollevando qualche piccola improvvisa onda, la Tigre si sporse in avanti, e lo prese per la tunica da frate, facendolo sbilanciare in avanti per baciarlo. Sorpreso, ma pronto a gestire l'irruenza dell'amante, Monsignani riuscì a non cadere nella tinozza, anche se si bagnò parecchio.

Ricambiò il suo slancio, ma poi si tirò indietro e cominciò a snodare il laccio della corda che gli fissava il saio in vita: “Aspetta che mi svesto – sussurrò – perché ho solo quest'abito e non devo farlo bagnare, o non saprò che mettermi dopo...”

La Sforza non disse nulla, mettendosi a guardarlo mentre si sfilava il ruvido saio, restando già nudo. A volte trovava sorprendente la resistenza dei frati, capaci di tenersi addosso solo uno straccio del genere e un paio di sandali anche in pieno inverno. Altre volte, invece, li reputava solo sciocchi e inclini a inutili sofferenze.

Mentre il giovane si passava una mano tra i capelli per metterli un po' in ordine, la Contessa ebbe la tentazione di chiedergli di raggiungerla nell'acqua. Però, il ricordo dei lunghi bagni che aveva fatto assieme al suo ultimo marito, la frenò.

“Prendimi il telo.” ordinò, indicandoglielo.

Monsignani, solerte, fece come gli era stato detto e l'aiutò ad asciugarsi. Poi, quando la donna finì di strizzarsi anche i capelli, sempre seguendo le sue indicazioni, le riempì il calice di vino.

La Tigre cercava di restare calma, di godersi quel momento di silenzio e la presenza, in fondo rassicurante, di Vangelista. Tuttavia non poteva dimenticarsi di quello che stava succedendo fuori, né del fatto che sia suo fratello Alessandro, sia Baccino, fossero in pericolo.

Bevendo senza nemmeno assaporare il rosso che Argentina aveva scelto per lei, Caterina tentò di concentrarsi sul frate. Era straordinario come quel ragazzo, pur essendo un religioso, fosse praticamente privo di ogni pudore. Se ne stava lì, accanto a lei, tranquillo, a lasciarsi guardare. Di contro, però, la Sforza dovette ammettere con se stessa che lei stava facendo la stessa identica cosa.

Mettendo da parte il calice ormai vuoto, la donna decise di provare a cancellare tutti i suoi pensieri nel modo che conosceva meglio. Senza dire una parola, fece capire a Monsignani quello che voleva e nel giro di qualche istante, lui la stava già accontentando.

Come le altre volte, giacere con quel giovane frate si rivelò una cosa semplicissima. Anche in quell'occasione, a parte la sensazione strana nell'incontrare con le dita la tonsura dei capelli, alla Contessa quel venticinquenne parve solo un uomo piacente, che sapeva benissimo fare quel che stava facendo e che, come lei, non cercava nulla di serio in quello che era solo un modo per passare il tempo e scaricarsi.

“Secondo te tra quanto rientreranno?” chiese Caterina, una volta placata la fame, tenendosi stretta al frate.

Egli fece un mezzo sbuffo e rispose: “Non saprei davvero... Di solito voi soldati state fuori un bel po'... Ci sono notti in cui qui alla rocca abbiamo paura di non vedere tornare nessuno.”

Il modo naturale con cui Vangelista aveva detto 'voi soldati' lasciò uno strano sentore nell'aria. La Tigre non capiva se fosse una cosa positiva o negativa. Forse, pensò, si trattava solo di un dato di fatto.

“Credo sia per quello – continuò, con lentezza, il frate – che le donne che aspettano i mariti e gli innamorati restino sveglie nel cortile finché non vi vedono tornare... Perché l'attesa mette paura, e la paura toglie il sonno.”

“Forse quando torneranno, dovrei essere lì anche io ad aspettare...” valutò la Tigre, che, invece, fino a quel momento aveva pensato di fare come suggerito da Alessandro, ovvero starsene in disparte almeno per una notte.

Monsignani fece un suono gutturale che la donna non riuscì a interpretare e poi, spostandosi un po', ma senza staccarsi da lei, disse: “E chi andresti ad aspettare di preciso? Baccino, il cremonese?”

“Perché pensi subito a lui?” di innervosì la Sforza, tirando un po' il lenzuolo, per coprirsi di più.

“Lo sai come la chiamano?” Vangelista si sistemò ancora un po', inducendo l'amante a stringerlo a sé per farlo smettere: “Il diavolo delle cose di Madonna. Credono che per te sia una tentazione ancora più irresistibile del fuoco per una farfalla notturna...”

“Ai soldati e ai servi è sempre piaciuto far chiacchiere su di me.” ribatté lei, frettolosa: “Non è detto che dicano sempre la verità.”

“Anche messer Pirovano ogni notte è lì che vi aspetta...” riprese il religioso, saltando da un pensiero all'altro in ordine sparso, mentre Caterina gli stringeva ancora di più il braccio attorno al ventre snello: “E la cosa che mi dà pensiero è vedere come nessuno si sogni di prenderlo in giro. In altre situazioni, un uomo che si mettesse in quel modo in attesa della sua amante partita per la guerra, così, in mezzo a donne in lacrime e bambini preoccupati, credo che verrebbe massacrato dagli altri.”

“Forse non hai ancora vissuto alla rocca abbastanza per conoscerne le dinamiche.” gli fece presente la Leonessa: “Dopo Giacomo... Credo che nessuno avrà mai più il coraggio di prendersi gioco di un uomo che ho apertamente dichiarato di amare.”

“E lo ami davvero?” domandò lui, atono.

Caterina non rispose, e il religioso non capì se quel silenzio fosse un assenso o un diniego.

“Comunque – soggiunse, non cercando di forzare una sua risposta – nessuno ha capito davvero che sia successo tra voi stamattina...”

Anche questa volta, la milanese si chiuse in un mutismo ostinato e a Vangelista non restò che soprassedere e provare a interpretare quella mancata risposta come faceva quando confessava qualcuno che di punto in bianco diventava reticente.

“Non so cosa ci sia esattamente tra voi, se sia solo una questione carnale o anche spirituale, ma se tra voi c'è anche un sentimento d'amore reale, allora devo darti un consiglio.” sussurrò, passando con delicatezza la punta delle dita sul braccio di lei, fino a trovarne la mano e stringerla.

“Ovvero?” fu la domanda di ritorno.

“Ovvero: non è questo il momento di essere arrabbiati con chi si ama.” spiegò il ragazzo.

“Anche se ci sono errori impossibili da perdonare?” si informò la donna, scettica.

Monsignani sospirò e, mettendosi a sedere di scatto, sottraendosi al corpo caldo della sua amante che si stava facendo di nuovo provocante, rispose: “Devi solo chiederti: vale la pena di privarmene per colpa di quell'errore?”

“Mi stai dicendo di farlo tornare da me, in pratica.” parafrasò lei, avvertendo una collera in parte immotivata e di difficile controllo davanti alla magnanimità del frate, che pareva così disinteressato a tutto da accettare di buon grado non solo quel discorso, ma l'intera situazione.

“Se me lo chiederai, manderò io stesso qualcuno a cercarlo e lo farò arrivare qui.” fece lui, dandole le spalle: “Tanto so dove si è sistemato per la notte.”

Quell'ultimo inciso, viziato da una punta di stizza, fece capire alla Leonessa come il frate fosse in realtà molto meno incline ad accettare tutti quei compromessi di quanto non sembrasse. Malgrado tutto, quel dettaglio le diede respiro.

“Non ti darebbe fastidio pensare che io sia stata tua fino a pochi minuti fa e stia già cercando un altro uomo?” lo provocò: “Potresti restare qui, al suo posto... Perché mi vuoi spingere di nuovo ttra le sue braccia?”

“Perché tu sei fatta così!” sbottò Vangelista, perdendo tutta d'un colpo la sua aria serafica: “Perché io ti voglio, ma so che non posso cambiarti! Men che meno nei pochi giorni che ci restano! E allora che altro posso fare per averti? Compiacerti? Accettarti? Sì, sono anche pronto a lasciare il campo a qualcuno che ne ha più diritto di me, a patto che ogni tanto lo possa arare anche io!”

Caterina, ancora a letto, lo fissava senza dire nulla. Era la prima volta che gli vedeva perdere le staffe, e, in tutta onestà, lo trovava molto più concreto e credibile in quel momento, rispetto a tutte le altre volte in cui avevano trascorso del tempo assieme.

“E poi te l'ho detto...” soffiò lui, cercando di calmarsi: “Non è il momento per essere arrabbiati con chi si ama.”

La Sforza stava per ribattere, quando qualcuno bussò alla porta e disse: “Stanno tornando... Ho creduto voleste saperlo.”

Riconoscendo la voce del castellano, la donna rispose subito, mentre già lasciava il letto e cercava le braghe per infilarsele: “Arrivo!”

Improvvisamente, tutto il suo domandarsi se fosse o meno il caso di correre al cortile per vedere coi propri occhi i soldati che tornavano le parve superfluo: doveva andare e basta.

“Vestiti e vattene...” disse poi, rivolgendosi al frate: “Non voglio che ci vedano arrivare assieme.”

Vangelista trattenne un commento abbastanza acido, con cui avrebbe sottolineato l'inutilità di quella precauzione, dato che in molti, ormai, avevano capito cosa facessero, quando lui la raggiungeva in camera di sera. Afferrò il saio e lo indossò in un sol colpo, annodando poi la corda in vita e infilandosi i sandali. Uscì senza dire una parola, quando ancora la Tigre stava litigando con la fascia contenitiva per il seno.

 

Raffaele Sansoni Riario si stava mordendo l'unghia del pollice, mentre i suoi occhi spaventati continuavano a fissare le fiamme del camino, chiedendosi quando il suo messo sarebbe arrivato a Forlì.

Per lui erano stati giorni di infinita tribolazione e di grandi giochi sotto banco. Non era avvezzo a rischiare così tanto, ma non aveva potuto restare sordo alla richiesta d'aiuto di suo cugino Cesare. Il giovane Riario era un uomo di Chiesa come lui, ma, soprattutto, era sangue del suo sangue. Anche se negli anni il Cardinale aveva dovuto tenere le distanze, con i figli di Girolamo, ciò non toglieva che il suo senso di colpa nei confronti della Tigre lo tenesse ancora legato a loro, tanto da imporgli di fare quanto in suo potere per correre in loro aiuto e cercare, poco per volta, di estinguere il suo enorme debito.

Mordendosi ancor più fortemente l'unghia, preda dell'ansia con cui conviveva da anni, Raffaele si chiese, cominciando a sudare freddo, se Caterina sarebbe mai riuscita a perdonarlo davvero, per il peso che aveva avuto nella congiura in cui era morto Giacomo Feo. Solo con il suo perdono avrebbe potuto ottenere l'assoluzione da parte di Dio...

Le campane di Lucca suonarono l'ora, lasciandogli intendere quanto avesse fatto tardi. Non riusciva a dormire. Non c'era praticamente più riuscito, da quando aveva lasciato Savona per avvicinarsi a Cesare. Il Riario era a Pisa, ma, di comune accordo, Raffaele aveva deciso di soggiornare in quella città vicina per non destare troppi sospetti.

Lasciando la scrivania e avvicinandosi al letto, l'uomo si fece il segno della croce e provò a dire una rapida preghiera, prima di provare a riposare un paio d'ore. Si stese, si coprì, ma non riuscì ugualmente a rilassarsi.

Continuava a pensare al suo messo, partito ormai da quasi un giorno e diretto proprio a Forlì. Non sapeva se sarebbe riuscito ad avere un abboccamento con Caterina, né, addirittura, ad arrivare in Romagna... Erano tempi così incerti e quello era un affare così delicato...

Il Cardinale Sansoni Riario ancora sentiva le gambe tremare, ripensando a quando, camminando sulle uova, aveva convinto alcuni prelati a dargli udienza e a convincerli che lui potesse essere un valido tramite per far capitolare prima la Tigre, permettendo così al Borja di concludere la sua campagna militare più in fretta.

Il vero problema, però, era stato il non poter contattare la cugina per tempo. Se, forse, la Sforza avesse saputo che quella mano tesa, benché fosse la sua, era solida e valida, e patrocinata anche dal figlio Cesare, che per lei voleva solo la salvezza, magari avrebbe accettato...

Allacciando le mani all'altezza del cuore, che batteva profondo e rapido, Raffaele fece un sospiro tremulo e, cominciando a pregare che tutto andasse nel migliore dei modi, si rassegnò a un'altra notte passata in bianco.

 

Caterina aveva contato a grandi linee gli uomini che erano rientrati alla rocca e aveva capito all'istante che, quella notte, il bilancio era il peggiore dall'inizio dell'assedio.

Aveva visto che Baccino era ancora vivo, e ne era stata felice, tuttavia non gli si era avvicinata, andando subito a cercare Alessandro, per chiedere spiegazioni di quell'ecatombe.

“Io...” fece l'uomo, scuotendo il capo, appena dopo essersi tolto l'elmo: “Io non lo so perché è andata così...”

I suoi occhi sfuggenti, la sorella se ne accorse non appena riuscì a incrociarli, erano l'immagine stessa della paura.

“Come mai abbiamo perso così tanti soldati?” chiese lei, desiderosa di capire se quell'azione fosse stata così pesante per loro per un errore del fratello o, piuttosto, per una maggior prontezza del nemico.

“Noi... Io...” lo Sforza sembrava veramente in difficoltà, e così Battista Capoferri, poco distante da lui, decise di venirgli in aiuto.

Fece fatica a trovare le parole giuste, ma poi, rivolgendosi alla Tigre con tono reverenziale e con il capo chino, spiegò: “All'inizio stava andando tutto come al solito, mia signora, ma quando quelli hanno cominciato a reagire – e lo sguardo in tralice che lanciò ad Alessandro fece capire moltissime cose alla Contessa – è mancata un po' di coordinazione... Non ci siamo trovati compatti, ci siamo sparpagliati per le vie e poi, quando è stato il momento di rientrare, per ricompattarci abbiamo fatto ancora più confusione e abbiamo perso altri uomini.”

“E poi hanno giocato scorretto.” si intromise Baccino da Cremona, che, vedendo la Leonessa ignorarlo, aveva deciso di fare il primo passo: “Dalle finestre delle case ci hanno lanciato addosso di tutto...”

“Questa non è una scusa.” ribatté, fredda, Caterina: “In guerra ci si deve aspettare anche di peggio, che qualche mobile lanciato dalla finestra.”

Alessandro, ancora senza parole, abbassò lo sguardo e non provò nemmeno a controbattere.

La donna, capendo il disagio del fratello, si passò una mano sulla fronte e poi disse: “Ne riparleremo domani. Adesso, l'importante è che i feriti vengano assistiti. In ogni caso...” sospirò, guardando prima lo Sforza e poi Baccino e Capoferri: “Anche se si sono giustamente difesi, direi che i francesi non hanno perso occasione di dimostrare la loro pochezza.”

I tre uomini non dissero nulla, mentre Caterina, con una pacca sulla spalla coperta di ferro del fratello, sentiva la rabbia che cominciava a montarle. Nel colpetto amichevole dato ad Alessandro, avrebbe voluto mettere molta più forza. Aveva capito benissimo, dalle parole di Battista che era una guida, quella che era mancata quella notte. Forse aveva sbagliato a fidarsi anche di suo fratello...

Ormai, si disse, era chiaro che non ci fosse nessun uomo cui affidarsi alla cieca. Anche se mossi dai migliori sentimenti e dalle migliori intenzioni, amanti, amici e parenti finivano solo per deluderla.

Senza salutare in altro modo i tre con cui stava parlando, la Sforza andò veloce alla scaletta che portava ai camminamenti, arrivò in cima, fin sulle merlature e lì, gridando con tutto il fiato che aveva in corpo, facendo vibrare il silenzio della notte, gridò: “Voi cercavate un accordo?! Voi volevate offrirmi una pace?! Voi mi chiedevate la resa?! Prima di arrendermi voglio vedere il diavolo a cavallo della luna!”

 

“Voglio trovare un modo per mediare coi francesi.” disse, a voce bassissima, Alessandro Sforza.

Francesco, il fratellastro, lo guardò con gli occhi sgranati. Lo stava aiutando a togliersi l'armatura, perché il milanese gli aveva chiesto di prendere il posto del suo scudiero, e il congiunto aveva capito che c'era un motivo per quella richiesta.

“Fino a stanotte, non mi ero reso conto...” scosse il capo Alessandro, deglutendo a fatica, mentre l'altro gli toglieva gli schinieri: “Non mi ero affatto reso conto...”

“Trovare un modo per mediare... Che intendi di preciso?” domandò Francesco, accigliandosi: “E poi tu... Tu non...”

“Io non cosa?” chiese, nervoso, l'altro.

“Non comandi tu.” mise in chiaro il fratello, rialzandosi e incrociando le braccia sul petto.

La stanza dei tre Sforza – perché lì, di norma, riposava anche Galeazzo – era piccola, ma confortevole. Il camino era stato ravvivato e sul tavolinetto avevano qualcosa da mettere sotto i denti prima di mettersi a dormire. L'odore della guerra che Alessandro aveva portato con sé, entrando con ancora addosso l'armatura, stonava con la pace di quella camera.

“Non comando, io, ma Caterina è una donna.” disse piano il milanese: “Lei avrà un modo diverso di vedere le cose... Io sono più pragmatico.”

“Non credo.” ribatté Francesco, che, da quando era a Ravaldino poteva dire di non aver mai avuto a che fare con nessuno di più pragmatico della Tigre.

“Lei ha rifiutato gli accordi proposti dal Valentino, e lo posso capire. Ha un orgoglio da difendere, non può cambiare faccia all'improvviso – continuò Alessandro, per la sua strada – ma io non ho questo problema. Cercherò un contatto coi francesi e...”

“Io non ne voglio sapere nulla.” sollevò le mani Francesco.

Capendo all'improvviso che il fratello poteva essere un ostacolo e non solo un sostegno mancato, il milanese deglutì e, sperando di essere convincente, scosse con forza la testa e borbottò: “Hai ragione, no, no, hai davvero ragione tu... La stanchezza e la paura mi hanno fatto parlare a sproposito... Perdonami, non parlavo sul serio...”

Il fratello fece un cenno d'assenso, per dire che gli credeva, e poi, rabbonito riprese a togliergli l'armatura: “Questa è una guerra diversa da tutte quelle che abbiamo visto. Dobbiamo farci un po' l'abitudine, ma non lasciarci prendere dallo sconforto.”

Alessandro annuì e poi, riuscendo a sfoderare addirittura un sorriso, esclamò: “E noi l'abitudine ce la faremo.”

Finita la svestizione e mangiato qualcosa, i due fratelli si misero sotto le coperte. Galeazzo era di ronda, quindi non sarebbe tornato in stanza fino al mattino dopo.

Francesco si addormentò quasi subito, mettendosi a russare rumorosamente e così il fratello, infilandosi con discrezione un paio di brache, gli stivali e il giubbone poté uscire dalla camera senza svegliarlo.

“Devo far avere un messaggio urgente a Yves D'Alégre.” disse, con un arciere con cui aveva stretto una certa amicizia: “Mi serve il vostro aiuto.”

“Non si può uscire dalla rocca senza permesso della Contessa.” ribatté l'altro, subodorando qualcosa di anomalo.

“Ce l'abbiamo il permesso.” spiegò lui, con un mezzo sorriso: “Mia sorella mi ha dato questo incarico... Uscirai dalla portina di servizio, quella accanto al ponte. Userai la chiatta e andrai al campo francese a portare questa... Non dare nell'occhio. Cerca l'Alégre e basta.”

Il soldato, teso, annuì, prendendo il messaggio con la mano che tremava un po' e poi chiese: “E se non dovessi tornare?”

“Tornerai.” lo incoraggiò Alessandro: “Non vorrai certo lasciare tua moglie vedova anzitempo. So che saprai come fare a muoverti...”

 

Caterina, quella notte, era tornata in stanza da sola, senza cercare nessuno, e aveva provato a dormire qualche ora.

Si era svegliata appena prima dell'alba, aveva fatto il suo consueto giro di controllo, dai camminamenti fino ai locali della servitù, e poi aveva radunato il suo Consiglio di Guerra per capire meglio cosa fosse successo quella notte.

I francesi per tutto quel 27 dicembre non fecero fuoco nemmeno una volta. Era ovvio che stessero sistemando ancora l'artiglieria, e sarebbe stato un buon momento per insidiarli. Però la Sforza aveva ben compreso che l'umore, tra le pareti della sua rocca, non era abbastanza alto da rischiare un'azione tanto complicata. Attaccare alla luce del sole poteva trasformarsi nel più grosso errore strategico dall'inizio della guerra, se si faceva eccezione per quelli commessi da Giovanni da Casale.

Forzatamente, avevano atteso che scendesse il buio, prima di attaccare. Quella sera non nevicava, né faceva particolarmente freddo. Per scongiurare una nuova azione fallimentare, la Tigre, malgrado la gamba ancora un po' dolorante e la stanchezza fisica non del tutto passata, aveva deciso di guidare personalmente la sortita, ma aveva chiesto in modo chiaro al fratello di seguirla.

“Devi vedere come faccio – gli aveva detto, mentre sceglieva nell'armeria lo spadone da usare quella notte – perché se dovesse capitarmi qualcosa, voglio che sia tu a guidare l'esercito, e devi saperlo fare.”

L'uomo non aveva ribattuto, limitandosi ad annuire. Aveva passato l'intero giorno ad aspettare una risposta dell'Alégre e ancora non era arrivato nulla. L'arciere che aveva fatto da tramite era tornato, di nascosto, solo quando aveva fatto di nuovo scuro e gli aveva detto che il francese aveva preso il messaggio, l'aveva letto e gli aveva solo detto, dopo ore di attesa, che per il momento non aveva intenzione di offrire colloqui a chiunque fosse, se non direttamente alla Tigre.

Così, con un dispiegamento di forze abbastanza importante, Caterina aveva portato un'offensiva precisa nella zona di Forlì in cui si credeva fossero stati sistemati buona parte delle truppe scelte.

Cercare di colpire i comandanti sarebbe stato vano, dato che, verosimilmente, molti, se non tutti, erano ospiti nei palazzi più belli della città, e quindi fuori dalla loro portata.

Uscirono in silenzio, composti, e la Sforza non ebbe bisogno di dare ai suoi alcuna indicazione particolare, dato che, mentre erano ancora alla rocca, aveva spiegato con dovizia di particolari il percorso che avrebbero fatto. Aveva chiesto a Baccino di starle vicino, come aveva già fatto di sua iniziativa in passato, ma per il resto non aveva preso precauzioni particolari per la propria incolumità. Anzi, com'era ormai sua abitudine, non aveva nemmeno indossato l'elmo.

La cosa che più la infastidiva, quella notte, era il montare un cavallo cui non era abituata. Era un animale notevole, addestrato alla guerra, ma con cui lei non aveva mai stretto nessun tipo di legame.

Quando era stata nelle stalle per decidere cosa cavalcare, trovandosi dinnanzi al cubicolo vuoto del suo purosangue aveva avuto una piccola fitta di dolore al cuore. Non era stato facile passare oltre. E poi, invece di scegliere lei il cavallo, aveva lasciato fare a uno degli stallieri, mettendo come unica condizione una stazza imponente e un'età adulta: non voleva mezzi puledri, ma nemmeno un animale alla fine della sua carriera.

Quello che le fu proposto era un pezzato di grosse dimensioni, nella pienezza delle forze. Si trattava di una bestia docile, sotto il suo comando, tanto da cambiare direzione non appena lei sfiorava le redini. Tuttavia, quando si trovò in mezzo alla battaglia, rimpianse come non mai il suo stallone nero e l'idea che, probabilmente, fosse finito mangiato dai maledetti francesi fece sì che il suo braccio si scaricasse sui nemici con più forza del solito e il suo grido di battaglia risuonasse profondo e inconfondibile tra le vie della città che era stata sua.

Quando rientrarono, dimezzati e tutti appiedati, ma soddisfatti, la Leonessa, stremata e dolorante per un'altra caduta da cavallo, intravide tra le donne in attesa dei propri uomini anche Giovanni da Casale. La stava fissando e i suoi occhi tradivano solo un profondo sollievo, senza chiedere nulla.

Caterina ragguagliò in fretta il Facendina e Marulli su quello che era successo in città e li pregò, la mattina dopo, di convocare di buon'ora un Consiglio di Guerra. Si complimentò sia con Laziosi sia con Baccino per il grande coraggio dimostrato nello scontro, e poi, sentendo l'armatura pesare come un macigno sulle sue spalle, e non desiderando altro che levarsela, tornò a cercare Pirovano.

Non lo vide più nel cortile, tra le vedove in lacrime e le innamorate felici di rivedere il proprio sposo o il proprio promesso. Tuttavia, congedandosi dagli altri e andando verso le scale, per salire in camera, finalmente lo scorse, nella penombra del porticato.

L'uomo aveva la guancia ancora un po' gonfia, a ricordare alla Sforza il pugno che gli aveva sferrato in preda alla collera. Se ne stava immobile, guardingo, quasi temesse di incorrere di nuovo nella rabbia violenta della sua amante per qualche motivo.

“Mi serve qualcuno che mi spalmi l'unguento sulla gamba e sulla schiena.” disse invece la Contessa, a voce bassa, guardando altrove.

“Non puoi chiedere a qualcun altro?” ribatté lui, suonando molto più indisponente di quanto non volesse.

La milanese si morse il labbro. Sapeva di sangue. Pur non potendosi vedere, sapeva di avere il viso sporchissimo, così come i capelli. In tutta onestà, si disse che, non essendo forse più accecato dall'amore, Giovanni da Casale in quel momento non scorgeva più in lei una donna desiderabile, ma ben altro...

“Non voglio chiedere a qualcun altro.” chiarì lei, ma poi, non sentendo risposta, girò sui tacchi e cominciò ad allontanarsi.

“Aspetta...” ci ripensò Pirovano, correndole dietro: “Va bene. Va bene.” soffiò.

Non trattenendo un sorriso, la donna accordò il passo con quello del suo amante e poi, cominciando a salire le scale, gli sussurrò: “Le cose si fanno per gradi, però.”

“Tutto quello che vuoi.” bisbigliò lui, di rimando.

E quel suo tono di voce, a metà strada tra il roco e il dolce, riaccese nella Tigre un fuoco che la battaglia, così difficile e cupa, non era riuscita a ravvivare. All'improvviso, pensare di aver anche solo ipotizzato di stare lontana da Giovanni le parve la follia più assurda del mondo.

 

 
   
 
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