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Autore: Adeia Di Elferas    12/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni stava cospargendo con grande cura la schiena della Tigre con il suo unguento a base di erbe. Il sentore di quella mistura era forte, tanto da fargli pizzicare il naso, ma era tutto sommato molto piacevole.

Dopo che la Contessa si era ripulita un po', togliendosi di dosso l'odore acre della battaglia, Pirovano si era occupato pazientemente della sua gamba, notando con sorpresa che l'ematoma si era in effetti già riassorbito quasi del tutto. L'aveva massaggiata e unta con attenzione e poi, quando la donna si era stesa, nuda, sul letto, per fargli fare altrettanto con la schiena dolorante, il milanese aveva eseguito l'ordine senza fiatare e senza osare di far scivolare le proprie mani oltre i punti indicati dalla sua signora.

Caterina aveva apprezzato una simile discrezione e aveva cominciato a rilassarsi. Giovanni aveva commesso molti errori, avrebbe dovuto essere furiosa con lui, eppure non riusciva a saperlo a Ravaldino e a non aver vicino. In fondo, si era detta, per quei due giorni ancora che il fato le avrebbe concesso, tanto valeva mettere da parte il resto e tenersi stretto un uomo che le piaceva e che, tutto sommato, le aveva sempre fatto un buon servizio. Anche se Pirovano era ancora un ragazzo, sotto tanti punti di vista, per altri era ciò che lei cercava, e quindi tanto valeva accontentarsi di lui, evitando di cambiare un amante a notte, come aveva fatto in passato. Non aveva più né la testa né il fisico per tenere certi ritmi di caccia.

“Parlami.” disse a un certo punto lei, avendo voglia di sentire l'accento della sua terra, una merce estremamente rara, lì in Romagna.

“Di cosa?” domandò Pirovano, confuso.

“Di qualsiasi cosa, non mi interessa.” rispose lei, affondando di più il viso nel cuscino, mentre l'uomo continuava a massaggiarla, sciogliendole i muscoli e rinfrancandola: “Basta che non mi fai arrabbiare.”

Giovanni, allora, si schiarì la voce e cominciò a dire cose vaghe, parlando del clima, finendo per fare il confronto tra quello di Forlì e quello di Milano. Travolto a sua volta dalla nostalgia della città che gli aveva dato gli anni della primissima giovinezza, raccontò di come fosse finito sotto l'attenzione del Moro e di come avesse cominciato a praticare le armi con maggior assiduità.

Si fermò di colpo, quando avvertì un tremito nelle spalle della sua donna: “Stai bene?” le chiese, stranito da quello che sembrava un sospiro nel mezzo di un pianto silenzioso.

“Non rivedrò mai più la mia terra...” bisbigliò lei, con la voce un po' rotta e in parte camuffata dal guanciale contro cui premeva il volto: “Lo sapevo, lo so da tempo, ma...”

Mettendo da parte il barattolo di unguento, Pirovano le passò delicatamente una mano sulla spalla, scostandole i capelli, e le diede un rapido bacio sul collo: “Anche a me manca Milano. Questa, però, adesso è la nostra terra.”

“Non è vero.” ribatté lei, spostandosi e mettendosi seduta, fronteggiandolo, gli occhi rossi e le labbra che tremavano appena: “Casa mia è ancora il palazzo di mio padre. Qui sono sempre stata di troppo. Ho dovuto tenere per anni le briglia di uno Stato che non ho mai voluto e che mi ha solo dato problemi. Uno Stato che mi ha trascinata in più di una guerra. Uno Stato che mi ha fatto perdere ciò che avevo di più caro...”

L'uomo, per consolarla, avrebbe voluto abbracciarla, ma temeva di ottenere in cambio solo una reazione fredda o addirittura ostile. Così rimase immobile a guardarla, annuendo in silenzio.

La Tigre tirò su con il naso e si asciugò gli occhi con il dorso della mano: “Ho perso la mia anima, per questa dannata città. E come mi hanno ripagato? Voltandomi le spalle alla prima occasione.”

“L'esercito è rimasto con te...” tentò Pirovano, incoraggiante.

La donna scosse il capo: “E non rivedrò nemmeno mai più il mio Giovannino... Il figlio che più di tutti avrei voluto poter crescere, crescerà invece senza di me. Senza nemmeno potermi ricordare. Io non potrò mai vedere che uomo diventerà, e lui non ricorderà nemmeno la mia voce o il mio viso...”

Il milanese avrebbe voluto poterla consolare in qualche modo, ma, per prima cosa, riusciva a immedesimarsi poco in quello che la Leonessa stava dicendo. Non avendo figli, anzi, non avendo mai avuto una vera e proprio famiglia, sentiva di percepire solo in modo molto schermato il dolore che, invece, sembrava pervadere a ondate la sua donna.

“E poi – riprese Caterina, sollevando un sopracciglio – la mia vita è tutta un garbuglio...”

Il suo pensiero era andato al fatto che, in quei giorni confusi sotto gli attacchi dei francesi, stava gestendo, in modo più o mano caotico, ben tre amanti diversi, senza che, in fondo, quella condizione la preoccupasse più di tanto. Pur capendo che non si trattava di qualcosa né di salutare, né di normale, per lei non era nulla di nuovo e questo acuiva la sua ansia. Soprattutto perché c'erano momenti in cui nemmeno i tre uomini con cui si giostreggiava parevano bastarle.

Pirovano, che aveva capito solo in parte a cosa si riferisse, la strinse finalmente a sé e le sussurrò all'orecchio: “Lo so, siamo tutti confusi. Possiamo solo fare quello che...”

Ma dovette interrompersi a metà frase, perché la Tigre, riscaldata solo in parte dal suo abbraccio, che avrebbe voluto solo essere rassicurante, aveva cominciato a baciarlo.

 

Cesare scalciò, indisponente, mentre il suo attendente ancora non aveva finito di farglielo calzare.

Mentre il ragazzo si affrettava a riagguantare la gamba del suo signore, per portare a termine il suo compito, il Borja fece una smorfia e si rivolse a Ferdinando d'Almeida, che era appena arrivato nei suoi appartamenti per parlargli: “Ho detto che voglio vedere con i miei occhi quelle dannate bocche da fuoco che fanno a pezzi la rocca di quella strega e lo farò!”

Il condottiero fece una smorfia e poi, stringendo un po' di più il cappellaccio che portava sotto al braccio, cercò di spiegare: “Almeno all'inizio, vi converrebbe restare nelle retrovie...”

“Storie!” sbottò il Valentino, liberandosi una volta per tutte dell'attendente, che, in ogni caso, era riuscito rocambolescamente a fargli infilare entrambi gli stivali.

Messosi in piedi, il figlio del papa si passò una mano tra i capelli e, dopo un lungo sospiro, sentenziò: “Achille Tiberti sta per tornare, ora che Cesena è in mano salda...” scosse un momento il capo: “Voglio che Ravaldino per il suo arrivo sia già caduta.”

“Cadrebbe anche senza il vostro augusto controllo, mio signore.” tentò l'Almeida.

“Io so le cose!” sbottò il Duca, che quel giorno si era svegliato fuori di sé dalla rabbia, senza un motivo particolare, e non riusciva a dominarsi: “Io so le cose! So molto più di quelle mura di voi! E quindi devo essere là per correggere gli errori!”

Il comandante, a quel punto, abbassò il capo, comprendendo che ogni altro tentativo di farlo ragionare sarebbe stato vano. Avrebbe tanto voluto potergli dire che, pur non essendosi mai fatto vedere in armi dai suoi soldati, questi avevano combattuto ugualmente e non avrebbero certo smesso, se quella mattina non l'avessero visto dietro ai falconetti. Tuttavia sapeva di non poter osar tanto.

“In ogni caso...” fece, a voce bassa Ferdinando: “Non è per questo che sono qui.”

Il Borja, accigliandosi, ribatté: “Ah, davvero?”

In effetti non aveva ascoltato nemmeno mezza parola uscita dalle labbra carnose del suo sottoposto: nel momento stesso in cui l'aveva visto, aveva iniziato a parlare dei bombardamenti, irritandosi a ogni battuta.

“Voi sapete – cominciò lentamente l'Almeida – che la Sforza aveva distribuito delle armi in città, prima del nostro arrivo...”

“Certo che lo so. Le ho fatte ben requisire al nostro arrivo, no?” annuì Cesare, cominciando a misurare a lunghi passi la stanza: “Quella sciocca si è privata di spade e mazze per darle a questi bifolchi, senza nemmeno pensare che le si sarebbero rivoltati contro...”

“Ecco – lo interruppe Ferdinando – abbiamo il sospetto che quelli che si fan chiamare della fazione di Madama abbiano tenuto nascoste delle armi e che stiano pensando di usarle...”

Il Duca di Valentinois smise di camminare. Quella prospettiva lo spaventava. Non solo per il pericolo effettivo, che forse era minimo, ma anche e soprattutto per il coraggio di quei forlivesi che, pur di difendere la Tigre, avevano pensato di poter aggirare le regole che lui aveva imposto.

“Ebbene...” Cesare si grattò il mento, e poi decise: “Che venga emesso un bando pubblico: ogni uomo dovrà portare tutte le armi, anzi, tutto ciò che può anche solo sembrare un arma, a casa di Bartolomeo Moratini. Poi faremo delle perquisizioni accurate. Chi avrà sgarrato, verrà impiccato in piazza, senza processo.”

L'Almeida fece un profondo inchino e commentò: “Non avrei saputo scegliere di meglio, mio signore.”

 

I pezzi del corpo smembrato di Pietro Francesco Crobizzi riempivano il pavimento della cella in modo innaturale. Più Caterina provava a contarli, più le pareva ovvio che si stesse sbagliando. Il sangue rendeva incerto ogni suo passo, perché i piedi scivolavano in modo incontrollato, eppure più si avvicinava ai resti del macello di cui lei stessa era artefice, più era certa che i resti che aveva davanti non fossero di un uomo solo, ma di almeno qualche decina di vittime.

La donna, cercando di spostarsi e lasciarsi indietro quell'orrore, si voltò per andarsene o, almeno, per sottrarsi a quella vista macabra, ma, nel farlo, cadde. Il colpo fu attutito proprio dai rimasugli di cadavere che la circondavano. Più provava ad alzarsi, più la spirale di orrore che lei stessa aveva creato l'attanagliava risucchiandola nel buio, mentre l'odore del sangue la faceva quasi soffocare...

E, in sottofondo, si sentiva il battere dei tamburi da guerra, il suonare incessante delle campane a morto e il rimbombo dei cannoni, che facevano crollare una dopo l'altra le pareti della cella...

“Caterina, svegliati!” la forza con cui Giovanni da Casale la stava scuotendo le fece spalancare gli occhi all'improvviso.

“Che succede?” chiese, senza fiato, mentre scattava seduta sul letto.

Il suono distinto e molto vicino di un colpo di cannone le fece capire subito il motivo di quel brusco risveglio. Saltando già in piedi e cominciando a vestirsi, esortò Pirovano a fare altrettanto.

Solo in un secondo momento si accorse che qualcuno bussava alla porta. Ancora mezza svestita, andò a vedere chi fosse e, trovandosi dinnanzi il Capitano Mongardini, un uomo che per lei aveva ucciso anche un neonato, non si formalizzò più tanto e gli chiese, mentre si infilava il camicione, cosa stesse accadendo di preciso.

“Le batterie disposte dal Valentino stanno facendo fuoco e hanno già diroccato parte del Paradiso e cominciano a lambire Ravaldino.” spiegò l'uomo: “Dovete venire a vedere e dirci come fare, perché...”

“Arrivo.” annuì lei: “Arrivo subito...”

La Contessa ci mise un soffio per vestirsi, molto meno che Giovanni, che invece, ancora intento a infilarsi gli stivali, mentre lei era già alla porta, stava chiedendo: “Ma da che parte staranno attaccando?”

“Vado sui camminamenti e lo scoprirò.” tagliò corto lei, uscendo in corridoio.

Il roboante saluto dei colpi di cannone e falconetto l'accompagnarono mentre saliva la stretta scala che portava ai camminamenti. Le bastò una sguardo per capire cosa stesse succedendo.

I francesi avevano rivolto le loro migliori bocche da fuoco verso il rivellino di Porta Ravaldino. Si erano già accaniti sul Paradiso, ma a parte aver diroccato parte di una delle torri, non avevano fatto altri danno, battuti dalla robustezza di quella fortezza pressoché imprendibile.

“Finché colpiscono così a basso – spiegò Caterina, che era stata raggiunta dal bombardiere Costantino e dal Facendina, che coordinavano la sua artiglieria – non ci daranno grandi pensieri. Le basi delle mura del rivellino, così come quelle di questa rocca sono abbastanza robuste da resistere anche a colpi peggiori. Finché non alzano il tiro, non sprechiamo munizioni.”

“Non contrattacchiamo?” chiese il nipote di Roberto Sanseverino, accigliandosi.

“Aspettiamo.” confermò la Tigre: “Sprecheremmo solo polvere e palle. Sono distanti e si stancheranno per nulla. Aspettiamo che si avvicinino.”

Costantino si disse d'accordo e, dopo un po', anche il Facendina annuì in modo secco. La Leonessa li ringraziò e poi, avendo comunque cura di abbassarsi in modo da essere difesa almeno dalle merlature ogni volta che sentiva partire un colpo, percorse una parte di camminamenti fino ad arrivare a un punto in cui la visione era decisamente migliore.

Controllò con attenzione chi altri vi fosse, di ronda, e notò con piacere che i soldati presenti, come da suoi ordini continui, non erano molti. Non voleva che troppi uomini si esponessero al fuoco nemico, quando subivano un attacco, a meno che non ci fossero sue disposizioni particolari in merito.

Però le sembrò molto strano non vedere suo fratello Alessandro, che, invece, avrebbe dovuto essere tra i primi ad accorrere, in un momento del genere. Poco contava, a suo modo di vedere, se fosse ancora stanco per la sortita di quella notte.

“Mia signora.” la voce di Baccino sorprese la Sforza, che non si era accorta di essergli passata accanto.

“Stai attento.” gli disse, in un soffio, mentre ancora stringeva gli occhi per cercare il fratello tra le teste nascoste dai mezzi elmi.

Anche il cremonese indossava qualche protezione, ma nulla di pesante, come se si fosse preparato in tutta fretta senza aver tempo di indossare l'armatura adatta.

Aggrottando la fronte, la Tigre si rese conto che quel ragazzo non avrebbe dovuto essere lì: “Sei uscito con noi, stanotte... Non ti spettava questo turno di ronda.”

Baccino sollevò le spalle: “Ho sentito i cannoni, ho pensato ci fosse bisogno di due occhi buoni che potessero vedere cosa stava accadendo.”

Caterina lo stava quasi per lodare per l'umiltà e l'abnegazione che stava dimostrando, senonché il giovane aggiunse subito qualcosa che andò a ledere la prima delle due qualità imputategli dalla milanese.

“Se non fosse stato per me – disse infatti, gonfiando un po' il petto e facendo il sorrisetto arrogante che in quei mesi aveva al contempo attratto e repulso la Contessa – non avrebbero nemmeno visto i padiglioni che il Valentino ha fatto montare vicino alle batterie...”

“Allora a qualcosa servi pure tu.” lo smontò la donna, restando seria.

Il modo in cui il mezzo ghigno del ragazzo si spense, lasciando spazio a un'espressione un po' confusa e imbarazzata, fece scoppiare a ridere la Sforza. Qualche soldato si voltò a guardarla, ma a lei non importava. Anche se erano sotto attacco, ringraziava di cuore quel cremonese che, forse unico tra i tanti che aveva avuto sottomano negli ultimi tempi, riusciva ancora a farla ridere, anche se involontariamente.

 

Cesare si stringeva nel mantello, coprendosi un po' il volto con il braccio ogni volta che i suoi artiglieri facevano partire un colpo. C'era qualcosa che gli sfuggiva, ma non riusciva a capire cosa.

Con tutta la forza di fuoco che stavano impiegando, le pareti del rivellino che proteggeva la rocca avrebbero dovuto sbriciolarsi, e invece venivano a mala pena scalfite. I suoi artiglieri continuavano a dirgli che era solo questione di tempo, che, insistendo, alla fine avrebbero avuto ragione di quelle quattro mura. Il Valentino, però, ne era tutt'altro che convinto e per lui ogni colpo di quel tipo rappresentava solo uno spreco di polvere, munizioni e tempo.

Addirittura il Capo dell'artiglieria, un borioso francese con cui il Borja non riusciva mai a scambiare più di due parole senza litigare, aveva quasi osato dargli dello stupido, quando il Duca aveva provato a chiedere se valesse davvero la pena continuare a quel modo.

Stava ricominciando a nevicare. Non era nulla di che, ma quei piccoli fiocchi candidi e gelidi infastidivano il figlio del papa come non mai. Gli ricordavano che ormai erano quasi a fine dicembre, che quella guerra, che avrebbe dovuto costargli a mala pena un autunno, gli stava costando un inverno intero e, se non si fosse dato una mossa, forse gli sarebbe costato anche una primavera, un estate e forse perfino la vita o, ancor peggio, la fiducia di suo padre.

“Basta così!” sbottò Cesare, dopo che l'ennesima palla di cannone era andata a impattare contro il muro del rivellino senza creare gran danno: “Tutta questa cosa è inutile!”

Il Capo dell'artiglieria, e un paio di soldati che erano lì accanto, si voltarono a guardarlo, interrogativi.

Il Duca di Valentinois, così arrabbiato da non sentirsi nemmeno in soggezione verso quegli uomini che, lo sapeva benissimo, lo detestavano e lo sminuivano continuamente, indicò la rocca e ordinò, perentorio: “Si deve puntare al torrione che guarda alla strada di San Martino!”

L'ingegnere francese strinse gli occhi dapprima verso il rivellino che, malgrado tutte le cannonate, si ostinava a restare in piedi, e poi alla torre indicata dal Borja. Improvvisamente l'idea gli parve ovvia e se la prese così tanto con se stesso per non aver capito prima che fosse quella la via corretta da seguire, che in un primo momento fece finta di accettare la proposta di malavoglia.

“Se proprio questo ordinate...” disse, sollevando un sopracciglio e le spalle, come a dire che non stava a lui discutere un ordine, per quanto inconsistente.

“Lo voglio sì!” fece il Valentino, picchiando un piede in terra: “E se devo arrivare io a dirvelo, allora il re che vi ha tanto in gloria è un doppio incapace, perché non solo non combatte le sue guerre da sé, ma manda avanti gente che ne sa meno di lui!”

Mentre il Borja si voltava di scatto, diretto alla seconda batteria, per riferire la sua decisione, il Capo dell'artiglieria fece un sospiro e, scuotendo il capo, borbottò, volutamente in italiano, per quanto stentato: “Bue non dire cornuto all'asino...”

 

Non trovandovi nulla di sbagliato, Caterina era rimasta vicina a Baccino, mentre si affacciava dalle merlature per controllare cosa stessero combinando gli artiglieri francesi. In fondo il cremonese era uno dei pochi in grado di tranquillizzarla e, parlando con lui, ne stava anche scoprendo dei lati che fino a quel momento non aveva nemmeno immaginato.

Era vanitoso, questo l'aveva già sospettato, ma aveva anche un buon senso dell'umorismo e, se preso per il suo verso, sapeva dimostrarsi anche aperto alle critiche e ai consigli.

Inoltre si capiva che fosse un ragazzo curioso, in senso latino del termine, e il fatto che non avesse mai potuto permettersi un'istruzione che andasse oltre ciò che poteva essere utile a un soldato gli pesava.

“Ma come mai quando tu e il Valentino vi siete incontrati l'ultima volta – stava dicendo Baccino, mentre lui e la Contessa erano accucciati dietro le merlature, benché i colpi dei cannoni francesi si stessero prendendo un momento di pausa – alla fine ti ha chiamata 'lupa'? Tutti ti chiamano Tigre, non lupa...”

La Sforza, vedendo che anche gli altri stavano ancora al riparo, non si alzò, approfittando di quel momento di quiete per rispondere in modo il più chiaro possibile: “Lupa era il termine che i latini usavano per chiamare le donne che lavoravano nei postriboli più brutti e malfamati. Quelle che costavano due assi appena.”

Il ragazzo sembrava cercare di capire, anche se era abbastanza palese che quel discorso per lui avesse senso solo in parte. Per esempio, avrebbe saputo dire a stento come fosse la cultura latina, men che meno avrebbe saputo dire quanto valessero due assi. Però, nel contesto generale, aveva compreso che tipo di donna si intendesse, con il termine 'lupa'.

“Sai – riprese la Leonessa, rialzandosi, mentre anche altri la imitavano, il cremonese compreso – la lupa di Roma, quella che allattò Romolo e Remo, probabilmente, era una di quelle donne, non una bestia del bosco... L'idea di dipingerla come un animale fiero e feroce è nato dopo. Per non dire che il re di Roma, in realtà, era stato cresciuto da una del genere...”

Baccino aveva seguito bene il discorso, anche se di Romolo e Remo sapeva a stento i nomi. Li aveva sentiti citare, a volte, dai condottieri presso cui era stato al soldo, ma non avrebbe saputo spiegare chi fossero.

Lo sguardo vacuo del giovane distrasse Caterina, che, invece di osservare i maneggi dei francesi, si concentrò sul viso di lui. Gli diede una rapida carezza sulla guancia ruvida di barba incolta, e gli sorrise.

“Satius est supervacua scire, quam nihil.” gli disse, ben decisa a non rivelargli che quelle parole significano semplicemente che era meglio imparare delle cose inutili, piuttosto che non imparare nulla.

“Come..?” chiese lui, come sempre sentendosi in difetto, quando la Contessa usava con lui il latino.

“Lascia perdere...” sospirò lei, osservandone la selvaggia bellezza dei tratti, esaltati dalla sua giovane età: “Chi ha conosciuto solo il mestiere delle armi, muore più facilmente da soldato, che non da letterato...”

Il cremonese deglutì, trovando quella risposta tutt'altro che soddisfacente, ma non fece in tempo a ribattere, perché sui camminamenti, tutt'attorno a loro, si stava creando un certo fermento.

Accorgendosene, la Tigre seguì con lo sguardo quello dei suoi uomini e capì subito cosa avesse attirato la loro attenzione. L'artiglieria francese si stava muovendo. Primo tra tutti, un falconetto aveva quasi raggiunto lo spiazzo antistante alla rocca, sul lato del Paradiso.

“Ma che diamine...” fece la donna, capendo solo al primo fuoco quello che il Borja aveva deciso di fare: “Tutti via dalla torre! Via!”

Però la sua voce arrivò tardiva e inutile. Il primo colpo di falconetto colpì un punto alto del torrione e per gli artiglieri che vi erano sopra, intenti a calibrare i loro cannoni, non ci fu scampo.

“Facendina! Costantino!” chiamò la Tigre: “Al contrattacco!”

I due artiglieri, in fretta, diedero indicazioni ai soldati che stavano ai loro ordini su come puntare l'artiglieria. Tuttavia, l'angolazione necessaria richiedeva più tempo del previsto e così i francesi, nel momento di silenzio dei cannoni di Ravaldino, riuscirono ad abbattere ancora una parte della torre.

La Sforza, a differenza di altri, non indietreggiava, né si nascondeva. Restava in piedi, immobile, fissando il torrione e cercando di valutare i danni. Per ora, si trattava ancora di brecce facilmente aggiustabili, ma era fondamentale impedire che il Valentino avesse l'occasione di abbattere quel punto della rocca. In tal caso, probabilmente la Contessa avrebbe potuto dirsi già sconfitta.

Anche Baccino era ancora in piedi, accanto a lei e sembrava intento a fare le sue medesime considerazioni.

Una palla di pietra mancò di poco la torre e, ormai a velocità ridotta, rotolò poco lontano dai piedi della Leonessa. Proprio sopra la munizione, si poteva ancora leggere senza problemi, qualcuno aveva inciso a grandi lettere: 'Tygre lupanaria'.

La collera che Caterina sentì montare in corpo fu così improvvisa e travolgente che, spostando di peso Baccino, corse fino al punto di tiro di Costantino Bolognese e gli ordinò, secca: “Ammazza quello che ha tirato l'ultimo colpo!”

Il bombardiere, trovando quella disposizione difficile da mettere in pratica, non si lasciò perdere d'animo. Annuì, e disse di aver visto bene il punto di partenza di quel colpo. Fece qualche rapido calcolo a mente, scelse la sua miglior passavolante, osservò con attenzione verso i falconetti nemici e poi, approfittando di un momento molto favorevole, che vedeva il francese in questione leggermente distaccato dagli altri, fece fuoco.

Con quel primo e unico colpo, Costantino centrò appieno la testa dell'ingegnere Capo dell'artiglieria francese.

A quel punto, sporgendosi dalle merlature, vedendo una gran ressa di uomini ben armati e ben vestiti accerchiare il morto, la cui capo era esploso in mille pezzi, la Tigre si mise a gridare improperi e ingiurie di tutti i tipi.

“Attacchiamo?” chiese il Facendina, mentre Costantino era ancora preda dei festeggiamenti degli altri soldati, rimasti entusiasti della precisione con cui aveva saputo sparare.

“No.” sussurrò la Sforza, intravedendo il cappellaccio nero del Borja, reso riconoscibile dalla grande piuma: “Non sprechiamo munizioni ora. Lasciamo che facciano tutto da soli...”

In effetti era evidente, anche da quella distanza, che il Valentino non se la stesse passando bene. Gli altri comandanti, con addosso i colori di re Luigi, stavano facendo ampi cenni e stavano già facendo indietreggiare l'artiglieria.

Forse, si disse la donna, l'uomo che avevano ucciso era qualcuno di importante e, con un po' di fortuna, la sua morte sarebbe stata la goccia finale per far traboccare un vaso già colmo.

“State allerta.” disse piano, rivolgendosi a tutti i suoi soldati: “Ma fino a nuovo ordine, che non si spari nemmeno un colpo.”

“Ah!” sbottò proprio in quel momento l'Alégre, a un passo dal mettere le mani addosso al Duca di Valentinois, a voce tanto alta che perfino la Leonessa l'intuì, pur stando sui camminamenti della rocca: “Se il re di Francia lo potesse, lo resusciterebbe con diecimila corone!”

E, a quel punto, scorgendo i francesi che si ritiravano davvero di nuovo tra le vie della città, la Contessa fu sicura di aver messo a segno un ottimo colpo. Il bersaglio centrato, senza che lei se l'aspettasse, sarebbe di certo stato al centro di un gran dibattito, al campo del Duca di Valentinois.

 
   
 
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