29
luglio
2011. La quarantena.
«Amore di mamma, hai la
bua al pancino?» domandai,
piegandomi maldestramente sulle ginocchia. Mark se ne stava
lì, piangente, dopo
aver spiaccicato sul pavimento la pastina che con tanta solerzia gli
avevo
preparato e che pochi secondi prima era nel suo stomaco.
Aveva le guance paffute rosse,
striate di bianco per
via delle lacrime. Non ebbi quasi bisogno di poggiare una mano sulla
sua fronte
per capire che avesse la febbre. Dopotutto, era quello che era successo
anche a
Juliet il giorno prima, e quello era il motivo per cui Edward non
c’era:
l’avevamo messa in “quarantena” fra le
coccole di casa Cullen.
Un figlio malato uguale quattro figli malati. E il nostro piano era
evitarlo ad
ogni costo. Piano fallito.
«Mamma!» si
lamentò Kate alle mie spalle «che schifo!
Mi viene da vomitare».
Mi voltai un attimo per guardarla e
insieme controllare
la situazione. Lo diceva per attirare l’attenzione o stava
male anche lei? Mi
sembrava che più che essere nauseata aveva
un’espressione di disgusto sul viso.
«Vai di là a vedere la tv». Sollevai lo
sguardo per controllare Anne, che
frignava sul seggiolone, agitando il suo giocattolino di plastica.
«Nooo»
piagnucolò Katie
«voglio stare con te» fece, mettendo il broncio.
Mi sollevai, malferma sulle gambe,
trascinando Mark
con me e reprimendo un conato. Quasi non me ne accorsi, brava
com’ero diventata
a farlo. Senza staccare il mio ometto da me prelevai
dall’armadietto alcuni
prodotti e uno straccio. «Allora Katie cantiamo una canzone,
che ne dici?»
feci, sperando di tranquillizzare il pianto di Mark e Anne e insieme
tenerla
buona.
«Cantiamo
Milla!» propose allegra.
Mormorai dolci paroline alla mia
bimba più piccola e
al piccolo malatino, attaccato come un koala alle mie spalle.
«Va bene. Milla.
Inizia tu». Mi piegai ancora in terra per pulire. Mi costava
un certo sforzo,
con il pancione e il resto.
«Millaaa
la paperella tranquillaaaa…
anche tu, mamma!» proseguì infastidita dalla mia
scarsa partecipazione.
Presi un respiro. Anne stava
piangendo più forte, gli
occhi lucidi e il labbro tremulo. Eh sì, mi sa che avevamo
proprio fallito.
Afferrai un giocattolino da terra sventolandoglielo davanti alla
faccia, mi
assicurai Mark più stretto alle mie spalle e mi preparai a
pulire con l’unica
mano rimasta libera. «Mangia il
minestrone non le viene il raffreddore…»
continuai la canzone.
Kate cominciò a ballare
in tondo. «Mangia il brodino e
diventa un bel bambino…».
«Bella» mi
sentì chiamare. Era un sibilo fra lo
sconvolto e lo sconsolato.
Alzai gli occhi per vedere mio
marito. «Oh, Edward, come sta Juliet? Mark ha
vomitato e ha la febbre. Credo che anche Anne si senta poco bene. Piano
fallito».
In un secondo mi sentii sollevare
dal peso di Mark
sulle spalle. «Perché non mi hai
chiamato?» fece, un po’ scocciato un po’
preoccupato, avvicinandosi ad Anne che intanto si sbracciava verso la
sua direzione.
La rassicurò con qualche parola, posando un bacio sulla sua
fronte e
aggrottando le sopracciglia. «Sì, ha la febbre
anche lei, ma il piano non è
fallito» aggiunse,
scoccandomi un’occhiata ansiosa.
Mi concentrai sul mio lavoro,
finendo di pulire molto
più rapidamente. Certo, perché la sua
preoccupazione maggiore, nonché suo reale
intento per la quarantena, era che io
non venissi contagiata.
«Papà!»
lo chiamò Kate, che intanto si era abbarbicata
su una sua gamba.
Si piegò per esaminarla.
«Anche tu stai male?» fece,
tastandole la fronte e la pancia.
Lei fu molto contenta di ricevere
quelle attenzioni,
anche quando, alla fine, il padre constatò che non avesse
assolutamente nulla.
Per fortuna.
«Hai finito di
stancarti?» mi venne vicino, aiutandomi
ad alzarmi e massaggiandomi preoccupato il pancione
«perché non hai chiamato
aiuto?».
Gli accarezzai il viso con
dolcezza, passando poi
velocemente a Mark. «Va tutto bene, davvero. È
stato un piccolo momento di
crisi, ti avrei chiamato fra due minuti. A questo punto non ha senso
tenere
Juliet di là. Possiamo chiedere a qualcuno di riportarla
qui. Piano fallito»
sussurrai con aria cospiratrice, facendo ridere Kate.
Edward mi prese il viso fra le
mani, ansioso. «No»
pigolò.
Gli feci un piccolo sorriso di
scuse, gli baciai una
guancia. «Se tieni la situazione sotto controllo per cinque
minuti vado in
bagno a vomitare e torno. Così ci risparmiamo questo casino».
«Vai».
Alzò gli occhi al cielo e in un attimo aveva il
cellulare all’orecchio. «Vedi tu, mi deve chiedere
anche il permesso per
vomitare…» lo sentii borbottare.
Ridacchiai, ma ben presto la nausea
ebbe la meglio.
«Bella, ti devo fare per
forza una flebo perché in
queste condizioni di disidratazione…» mi stava
spiegando Carlisle, mentre
intanto già preparava la sacca e prendeva la cannula dalla
sua borsa.
«Lo so» lo
interruppi «non ti preoccupare. È colpa
mia, che sono la peggior paziente gestante di sempre. Dovevo prendere
tre chili
e invece questa influenza intestinale…» alzai gli
occhi al cielo, accarezzando
il pancione.
Mi sorrise, benevolo.
«Non sei per niente la peggiore paziente
gestante di sempre. La
migliore, direi. Non ho mai visto una madre che si adopera
così tanto per i
suoi figli, e sempre così allegra e disponibile, pronta a
mettere tutti davanti
a sé…».
«Amore?» mi
richiamò preoccupato Edward, entrando
nella nostra camera da letto mentre Carlisle infilava l’ago
nella vena e faceva
scorrere il mandrino.
Rabbrividii un attimo, ancora rossa
in viso per le
parole di Carlisle. «Ehi, va tutto bene» lo
rassicurai, facendogli con la mano
libera un gesto perché si avvicinasse.
«…anche tuo
marito» proseguì mio suocero con un
sorriso, assicurando la cannula con un cerotto. «Vi lascio
soli».
«I bambini?»
domandai, accarezzandogli i capelli.
I suoi occhi mi scrutavano
dall’alto in basso, poi si
concentrarono sul braccio collegato alla flebo. «Stanno bene.
Ognuno con una o
due balie. Naturalmente cercano te, ma ti prego…»
iniziò, come una supplica. Lo
sapeva che ero pronta ad alzarmi ed andare a controllarli.
Decisi per il suo benessere
psico-fisico che potevo
rimanere a letto per un paio d’ore, giusto il tempo che la
sacca della flebo si
fosse svuotata. Non mi andava di farmi vedere così dai
bambini, e sapevo che
con i loro zii e nonni sarebbero stati bene ugualmente.
«Tranquillo, non mi
alzo da qui. Giuro» scherzai.
Le sue dita si posarono sulla mia
guancia. «Come va la
nausea? La pancia?».
Ci pensai su. Prima che me lo
chiedesse mi ero quasi
dimenticata di avere un corpo. Ora, in effetti… Scrollai le
spalle.
Sospirò, prendendomi il
polso della mano libera. «Sei
magra…».
«Mi dispiace, amore. Mi
sono impegnata. Appena passa
l’influenza mi impegno di più, lo
prometto».
Scosse il capo, come se trovasse
assurde le mie
parole. «Ti ingozzo di dolci. Al diavolo la dieta
controllata! Ti farò mangiare
tutte le porcherie dei fastfood».
Scoppiai a ridere, riconoscendo
l’ironia nella sua
voce. Le labbra si erano piegate in un mezzo sorriso. «E i
bambini? Che esempio
daremo loro?» finsi di rabbrividire.
Fece una faccia perplessa.
«Bambini? Quali bambini?».
Risi più forte, e si
unì a me, baciandomi le labbra
fra le risate.
«Papà,
mamma!» chiamarono delle voci, mentre la porta
si apriva.
«Ah già. Quei
bambini» sghignazzò nascondendo il viso
sul mio seno.
15
agosto
2011. La sera di Ferragosto.
Bella
«Oh, yeah!
Sì!» esclamai, saltando giù dalla
bilancia.
“Saltando” per quanto il pancione me lo
consentisse. «Sono stata brava,
ammettetelo».
Carlisle rise. «Hai preso
in totale 4 kg. La metà del
peso che avresti dovuto raggiungere alle 32°
settimana».
«Ehi, bisogna considerare
che ci sono quei 2 kg che
avevo perso all’inizio e tutto il resto. Sono stata
bravissima, su!» dissi,
aggiungendo una linguaccia alla volta di Edward.
Rise e venne a prendermi fra le
braccia. «Allora
possiamo riprendere il nostro allenamento?»
mi sussurrò maliziosamente ad un orecchio.
«Edward!» mi
allontanai sconvolta, il viso caldo per
il rossore. Avevamo già ripreso il nostro allenamento,
giusto la sera
precedente…
Carlisle aveva le labbra strette
per trattenere una
risata, ma Emmett e Rosalie risero dall’altra stanza.
Esme venne in mio soccorso.
«Tesoro, è tutto pronto di
là. Finisco giusto di farcire i dolci. Tuo padre
arriverà fra un’ora. Alice e
Jasper stanno giocando con le gemelline nella piscinetta».
Mentre parlava mi si
fece accanto e quasi sovrappensiero iniziò a massaggiarmi il
pancione.
«Bene. Allora io vado a
fare una doccia al volo e sono
subito dei vostri» feci, sollevando i capelli che erano
rimasti incollati alla
nuca. L’estate di Forks poteva essere davvero torrida.
Edward sostituì la mia
mano con la sua, rinfrescandomi
il collo. «Perché invece non fai un bel bagno
rilassante, ti riposi un po’…?»
mi propose suadente, e quasi gli stavo chiedendo di farmi compagnia se
non
fosse stato sconveniente con tutta la sua famiglia in casa e mio padre
in
arrivo.
«Baaasta!»
piagnucolò Kate,
correndo al mio fianco. «Con te non ci gioco più a
nascondino! Non vale» disse,
puntando un dito contro il piccolo Mark, che aveva il broncio.
«Ma tu vuoi semp-e sciocare
a acchiapparella e io no ti pendo!» protestò lui
spostando lo sguardo dalla sorella a me e tendendo le braccia per farsi
prendere in braccio.
«La mamma non ti
può prendere, Mark. Ha già la
sorellina» gli spiegò con un’occhiata
impaziente, guardando il mio pancione.
Rabbrividivo a pensare come fosse
cresciuta in soli
quattro anni. Edward prese Mark al mio posto e li rabbonì
con un paio di
parole. Ma Kate continuava a guardarmi con uno sguardo sconsolato.
Oltre al
fatto che la sua crescita intellettiva fosse decisamente più
rapida di quella
di un qualunque bambino umano, la sua era stata accelerata anche dal
fatto che
fosse la primogenita, a cui seguivano rapidamente tre… quattro bambini.
«Katie, tesoro, vuoi
venire con la mamma a fare il
bagno? Giochiamo con le peperelle e ce ne stiamo un po’ per
conto nostro».
Le si illuminò il viso e
corse a prendermi per mano,
trascinandomi verso la camera da letto, estendendo il suo scudo oltre
il mio
corpo. Lo faceva sempre quando voleva stare un po’ con me, da
sola.
«Non ti
stancare!» mi gridò dietro Edward, vedendo
fallito il suo piano di rilassamento.
Nella vasca da bagno Kate stette
tutto il tempo a
farsi coccolare, e recuperò il cattivo umore perso a causa
del nascondino. Mi
piaceva dedicare un po’ di tempo a uno solo dei miei figli, e
con lei, che era
così autonoma nonostante i suoi quattro anni, accadeva
sempre così poco spesso.
Le baciai la testa, abbracciandola
sotto il pelo
dell’acqua. «Allora, come la chiamiamo la
sorellina?» le domandai con un
sorriso.
Finse di pensarci un po’
su, portandosi un dito sotto
il mento. I suoi occhi verdi erano meravigliosi, così simili
a quelli del
padre. Strinse la sua peperella. «Milla?» propose.
Trattenni un sorriso.
«Come la peperella tranquilla?».
«Sì!»
esclamò con un grande sorriso.
A quel punto risi, senza pensarci.
«Come stanno le
dita? Raggrinzite al punto giusto?» scherzai, facendole
esaminare i
polpastrelli.
Guardò prima i suoi e
poi i miei. «Tu di più» fece
sicura «e va bene, usciamo» aggiunse, con la sua
aria da donna vissuta,
scavalcando agevolmente il bordo della vasca nonostante la bassa
statura.
Ridacchiai, imitando il suo
movimento con molta più
goffaggine, per via del pancione. Presi un grande asciugamano bianco e
ce
l’avvolsi, usandone un altro per sfregarle i capelli. Fece
una smorfia, ma non
protestò.
«Allora, sei contenta di
vedere anche nonno Charlie
stasera? Festeggiamo Ferragosto tutti insieme» le domandai,
prendendo intanto
un grande telo per coprirmi. Iniziai a pettinare i capelli. Erano
lunghissimi,
ma a Edward piacevano tanto, e avrebbe voluto che li portassi anche
nella mia
prossima nuova vita, non appena avessi smesso di allattare
l’ultima arrivata…
«Sono molto, molto
contenta!» disse allegra,
cominciando a saltellare. Era completamente avvolta dai teli bianchi,
così
tanto che a stento le si vedeva la faccia. Sembrava un pupazzo di neve.
Risi, e mi piegai alla sua altezza.
«Vieni qui che ti
infilo le mutandine. Non ti trovo quasi più lì
sotto» scherzai, facendole il
solletico.
Mi rialzai per afferrare il
vestitino che le avevo
preparato. Prima che potessi terminare il movimento un gemito sconvolto
mi
passò fra le labbra aperte, tanto che non riuscii a
controllare la maschera di
dolore che era diventato il mio viso.
Lo vedevo da come mi fissava Kate:
terrorizzata.
In preda al dolore lancinante mi
lasciai scivolare
lentamente con la schiena contro le piastrelle del bagno, tremante,
controllandomi quanto bastava per non urlare. Di più non
avrei potuto fare.
«Katie…
amore…» sussurrai, quando fui abbastanza certa
che avrei potuto controllare la voce.
I suoi occhi erano ampi, grandi e
fissi sul mio viso,
e risaltavano così tanto in mezzo a tutto quel bianco da cui
era avvolta.
«Amore, va…
tutto bene. Stai… pensando a papà di…
venire
qui…?» incespicai a fatica.
Non mi rispose. Mi occorse un
secondo per capire che
eravamo sotto il suo scudo. Non avrebbe mai potuto sentirla, e con la
stanza
insonorizzata…
Presi un respiro per non farmi
prendere dal panico. Un
dolore immenso mi stava dilaniando la pancia, irradiandosi per tutta la
schiena. Io, che avevo partorito altre tre volte, potevo con sicurezza
dire che
non si trattava di semplici contrazioni. Faceva un male cane. Feci leva
sui
palmi delle mani per tenermi seduta e impedirmi di scivolare a terra e
strinsi
le labbra per trattenere un gemito più forte.
«Piccola,
amore… Va tutto bene, va tutto bene, vieni
qui…» cantilenai, ma la mia voce era distorta, e
non riuscivo a guardarla in
faccia. Sentivo il sudore freddo che m’imperlava la fronte, e
tremavo, il fiato
corto.
Non si mosse. Il terrore nel suo
sguardo si fece più
marcato. Se solo fosse scappata via, se solo avesse anche solo
socchiuso la
porta della stanza…
«V-v-vai da
papà» balbettai, sentendo le forze
abbandonarmi e il dolore incalzare sempre di più.
«Ah…» gemetti non riuscendo a
trattenermi «Va tutto bene… Va’ da
papà piccola, ti prego… Vai da
papà…». La
vista si sdoppiò. «L-la mamma sta bene…
t-ti vuole bene… va tutto bene…» non
potei fare a meno di rassicurarla, seppure inutilmente.
Il labbro le tremava forte. Cosa
vedeva da sotto il
suo scudo? Cosa aveva intuito?
«Vai» gemetti a
denti stretti, cantilenando la parola.
Mi lasciai andare con la testa contro il muro, ma lottai, con tutte le
forze
per non far uscire neppure una lacrima. Mi morsi le labbra, mentre i
contorni
di tutto si facevano più sfocati. «Vai»
soffiai ancora, prima di perdere i
sensi.
E in quel momento avvertii il
singhiozzo terrorizzato
di mia figlia.
Edward
Stavo giocando con Mark a
nascondino. Era il suo gioco
preferito, com’era logico che fosse dato il suo potere di
rendersi invisibile.
Ma io riuscivo ancora ad ascoltare i suoi pensieri di tanto in tanto, e
questo
lo rendeva felice, essendo il gioco più equilibrato.
Nel soggiorno c’era un
gran viavai di bambini e
vampiri, tutti eccitati dalla serata di ferragosto
insieme. Quanto a me, speravo che si stancassero abbastanza da dormire
profondamente, e consentirmi di passare un po’ di tempo con
mia moglie, quella
notte… anche solo a coccolarla e lasciarla riposare. Come si
era stancata
ultimamente! E sempre con abnegazione, senza un lamento, con il sorriso
sulle
labbra. Aveva quasi fatto angosciare anche mio padre, sempre
così calmo e
risoluto, preoccupato per come si stesse bistrattando in quella
gravidanza. Ma
per fortuna ora aveva recuperato, e tutto stava andando per il meglio.
«Charlie
arriverà fra undici minuti! È tutto
pronto»
disse Alice, svolazzando per la stanza e dando istruzioni.
I nonni coccolavano Anne sul
divano, Rosalie e Emmett
cambiavano Juliet. Sorrisi. Tutto mi sembrava così
perfetto.
La porta della camera da letto si
aprì di scatto, e mi
bastò un sedicesimo di secondo per voltarmi e vedere mia
figlia. Aveva indosso
solo le sue mutandine rosa e mi correva incontro, veloce. Quello che
attirò la
mia attenzione fu il suo viso terrorizzato, pieno di lacrime, e i suoi
gemiti
incontrollati. Il primo istinto fu di sondarle i pensieri
ma… niente. Era
completamente muta.
«Katie, amore,
cos’hai?». L’accolsi fra le braccia,
allarmato, controllando le varie ipotesi. Tutta la mia famiglia si era
voltata
nella sua direzione, ma solo Carlisle si era avvicinato, sapendo che i
movimenti bruschi le avrebbero fatto innalzare lo scudo e reso il tutto
controproducente.
Non mi rispose, continuando a
piangere a squarciagola.
Il primo pensiero fu controllare che non fosse ferita, e la scrutai
rapidamente, avvalendomi anche delle informazioni che passavano nella
mente di
mio padre. Ma non sembrava avesse nulla. Eppure, non le avevo mai visto
addosso
quello sguardo d’angoscia…
In un attimo avvennero tre cose. I
pensieri di mia
figlia si fecero accessibili, come una bomba che mi esplodeva nella
testa. La
piccola singhiozzò «Mamma!» e un
familiarissimo, distinto, odore di sangue si
diffuse dal bagno.
«Bella» ruggii,
e in un attimo Esme mi aveva preso la
bambina dalle braccia, e più veloce anche di mio padre mi
ero materializzato
nel nostro bagno.
Mi raggelai, impietrito da quello
che vedevo. Era riversa
in terra, avvolta da un telo bianco di spugna. Pallidissima, sudata,
ansante.
Dalle sue gambe originava una pozza cremisi.
«Bella!» la
chiamai forte, prendendola fra le braccia
e scuotendola. «Bella amore! Amore mio!
Rispondimi». Dentro di me sentivo
l’angoscia che mi investiva a ondate, mentre la mia mente
cercava
freneticamente una soluzione o una spiegazione a ciò che
vedeva.
I suoi occhi fluttuarono verso
l’alto, ma erano vacui,
come se faticasse a mettere a fuoco. «Fa
male…» farfugliò
«malissimo… non… come
le altre volte…».
Carlisle le aveva preso il polso,
tastato la fronte,
si era chinato velocemente ad esaminare la fonte del sanguinamento.
«Ha un distacco di placenta.
Dobbiamo far
nascere la bambina ora, se vogliamo che sopravvivano».
Rischiavo di perderle. Entrambe. «Amore,
andrà tutto bene» rassicurai Bella, angosciato.
In un attimo volai in camera, coprendola al meglio con il telo.
Carlisle era sempre rimasto al mio
fianco. «Emmett,
prepara l’auto, andiamo in ospedale» disse a voce
più alta, in modo che lo
sentisse.
Alice comparve nella stanza. I suoi
occhi erano vacui
e pieni di terrore. «Non c’è tempo. Se
non lo farai qui una delle due morirà».
«Qui?» ruggii,
stentando ad immaginare come fosse
possibile. Non c’era tempo di farla partorire. Un cesareo. Le
trasfusioni.
L’emorragia. Il deficit d’ossigeno.
«Edward»
singhiozzò Bella fra le mie braccia,
stringendosi il ventre pieno «non lasciare che
muoia… ti prego… non lasciare
che la nostra bambina muoia…».
Se fossi stato umano avrei urlato,
il cuore mi sarebbe
esploso dal petto, avrei perso la concentrazione. Ma ero lì,
vampiro, e
pensavo. Quanto tempo era rimasta in quelle condizioni?
Perché, dannazione, non
le avevo fatto tenere la porta aperta? Perché
l’avevo messa in pericolo? Perché
le avevo permesso di stancarsi così tanto?
«Non abbiamo il
sangue…» farfugliai.
Mio padre si chinò su
Bella, la girò sul fianco
sinistro. «Non importa».
«Non è
sterile».
«Non importa,
Edward». Carlisle la liberò dal telo,
affannandosi per bloccare l’emorragia. La maggior parte del
sangue le rimaneva
nell’utero, bloccato dal peso del bambino.
«Non le possiamo fare
l’anestesia».
«Edward»
mi
richiamò ancora mio padre. «Non importa
più, ormai».
Bella urlò, graffiando
con le unghie contro il braccio
di mio padre, stringendo la sua mano insanguinata. «Carlisle
salvala ti prego!
Ti prego, ti prego! Tirala fuori».
Mio padre si chinò, e la
guardò negli occhi. Le voleva
bene, come si vuole bene ad una figlia. Le accarezzò i
capelli, madidi di
sudore. «Sai cosa mi stai chiedendo?».
Bella annuì,
freneticamente, gli occhi ampi e vacui,
prima di urlare ancora, contorcendosi.
Non
importava
più, ormai. Perché l’unico modo di
salvarle entrambe era trasformare Bella.
«Papà…»
gemetti, e mi sentii infinitamente più piccolo
di Mark quando mi chiamava nel cuore della notte «non senza
morfina, ti prego»
tremai, agghiacciato all’idea del ventre di mia moglie
squarciato sotto i miei
occhi fra le sue urla di dolore.
Annuì, guardandomi pieno
di compassione. «Facciamo in
tempo a procurarci un bisturi e della morfina».
Qualcuno volò via da
casa, mentre altri si
preoccupavano di tenere buoni i bambini e non fargli sospettare quello
che
stava per avvenire.
Strinsi con tutta la forza
concessami Bella,
accarezzandole i capelli. «Presto passerà tutto,
promesso. Non farà più così
male, lo giuro».
Si aggrappò a me,
stringendo i denti e cacciando un
grido di dolore, la testa riversa e i muscoli del viso tesi.
«Ha
delle
contrazioni tetaniche» pensò velocemente
mio padre, prima di riservarmi
un’occhiata velocissima. «Vuoi
uscire?».
Non ci fu neppure bisogno di rispondere. Vidi il mio volto nei suoi
pensieri mentre
capiva che non mi sarei mosso di lì.
Rose entrò nella stanza
con la sua borsa. Carlisle
controllò velocemente l’interno: bisturi, cannule,
divaricatore, pinze, fisiologica,
morfina, garze, betadine, deflussore.
«Un bolo di morfina 10
mg» mormorò velocemente
Carlisle, per un momento incerto se lanciare la boccetta a me o Rose.
L’afferrai al volo, e in
un attimo avevo individuato
una vena del braccio piuttosto lunga e dritta. Le sistemai un accesso,
in modo
che Carlisle avrebbe potuto usarlo anche più tardi. Ci misi
due secondi e
mezzo. «Non sentirai più nulla» la
rassicurai, sfiorandole il viso, prima di
premere lo stantuffo e lasciare che il medicinale andasse in circolo.
Darle
sollievo in quel modo mi sembrava l’unica cosa che potessi
fare.
I suoi movimenti si fecero sempre
più lenti. Carlisle
aveva già preparato il campo operatorio. Mi feci vicino al
suo capo, facendola
voltare nella mia direzione. «Non guardare. Va tutto bene,
non guardare».
«Ed-ward»
mormorò piano,
mentre la lama del bisturi tagliava veloce la sua pelle bianca. I suoi
occhi
facevano difficoltà a mettermi a fuoco.
«Sono qui».
Si umettò le labbra.
«Se… se non…»
sospirò «chiamala
Camilla, va bene?».
Sorrisi, stringendole forte la
mano. «Camilla».
Ricambiò il mio sguardo,
poi le sue palpebre
fluttuarono verso il basso. «Ti amo»
sussurrò, perdendo finalmente i sensi.
Ciao
amici!
Non
so davvero da quanto tempo avevo questo capitolo sul PC in
attesa di essere pubblicato… anni.
Meglio
tardi che mai.
Nell’ultimo
periodo ho rimesso pesantemente mano ad alcuni capitoli
di Cullen’s
Love che non mi convincevano, qualcuno mi
ha contattato perché ha notato le differenze. Mi fa piacere
che dopo così tanto
tempo vi salti ancora in mente di leggere questa storia!
Un
nostalgico abbraccio,
la
vostra Francesca.