Capitolo 1. Who’s behind
the rain?
Strilli e grida del genere
affollavano la banchina del binario 9 ¾ di King’s Cross di Londra solo il primo
di settembre di ogni anno; quando quella massa eterogenea di individui composta
dall’incredibile quantità di studenti, genitori e animaletti domestici, si
accalcava attorno al treno scarlatto che attendeva sbuffante sui binari il
momento di partire. Lo sferragliare dei carrelli ingombri di bauli, le
raccomandazioni premurose sciorinate ai ragazzini più piccoli… tutti suoni che
contribuivano ad aumentare la già immensa confusione che appestava l’aria
circostante.
Appoggiò la fronte coperta dalla gonfia frangetta color
rame contro la superficie fredda del finestrino e sospirò; benché si trovasse
all’interno del treno, il chiasso la disturbava comunque.
Un inferno, col mal di testa che si ritrovava…
Socchiuse pigramente le palpebre orlate da folte ciglia
color cioccolato e si staccò dal vetro, andando ad appoggiare la nuca contro il
poggiatesta del sedile. Nella reticella sopra la sua testa, si pesava
pericolosamente la sua borsa; benché il treno fosse ancora immobile sulle
rotaie lucenti il bagaglio continuava ad ondeggiare aritmicamente su e giù… su
e giù.
Levando appena gli occhi color muschio le rivolse uno
sguardo intorpidito. Non aveva alcuna voglia di alzarsi e sistemarla meglio.
Lo stridio improvviso della porta dello scompartimento la
distolse violentemente, quanto improvvisamente, dai suoi pensieri.
“Bonjour, ma chére!” la vocetta squillante di una ragazza
dai lunghi capelli color castagna fu quel che ne seguì.
Dopo averle rivolto quello sfrontato saluto s’era
appoggiata allo stipite della porta, incrociando al petto le braccia. I capelli
lunghi e lisci, divisi in parti esattamente uguali sulla fronte da una riga
perfettamente ordinata, le ricadevano morbidi sulla schiena; solo qualche
ciuffo spettinato sfuggiva sulle spalle, andando a nascondere la stoffa verde
oliva della leggera maglia smanicata. Aveva le gambe magre e slanciate,
fasciate, quel mattino nebbioso, da un paio di jeans lisi sulle ginocchia,
lunghi fino a coprire quasi completamente le scarpe da ginnastica bianche.
Appoggiata alla spalla portava una borsa a tracolla sul cui davanti era stato
applicato un cartellino di stoffa con il suo nome ricamato sopra.
Griet levò un sopracciglio scuro e la guardò senza
muoversi dalla sua posizione, le labbra sottili arricciate in una smorfia quasi
infastidita, ma Caroline Masters non si spostava, limitandosi a fissare
l’interno dello scompartimento con un sorriso furbo dipinto sulle labbra rosse
come ciliegie.
La ragazza dai capelli color rame sbuffò massaggiandosi di
sfuggita le tempie pallide e Caroline scosse il capo sogghignando; poi, chiudendosi
la porta alle spalle, si andò a sedere sul sedile di fronte a lei, traendo una
mela verde brillante dalla borsa, che addentò con un morso rumoroso mettendosi
a fissare di sottecchi la ragazza di fronte a lei. Aveva di nuovo poggiato la
fronte contro il finestrino e stava fissando la gente sulla banchina con aria
assorta.
“Per quanto ancora hai intenzione di non dirmi nulla?”
La moretta aveva gettato la borsa nel posto accanto al suo
e sedeva scomposta con la mela a mezz’aria. Si ravvivò con un gesto frettoloso
i lunghi capelli castani e socchiuse le palpebre sui grandi occhi color
nocciola, assumendo un’aria infastidita.
Per tutta risposta Griet roteò gli occhi e spostò lo sguardo su di lei, arricciando le
labbra in un sorriso sforzato.
“Fino a quando questa diavolo di emicrania mi sarà
passata” annunciò con una nota acida nella voce.
L’altra scosse il capo in una risata sommessa mentre Griet
si puntellava con un gomito contro il vetro e appoggiava il mento contro il
palmo. Aveva di nuovo le sopracciglia aggrottate.
“La tua voce è peggio della sirena del treno…” mormorò,
mordendosi il labbro distrattamente.
Con aria rassegnata, Caroline si lasciò cadere contro lo
schienale, un sorriso obliquo le solcava ancora il viso a forma di cuore mentre
fissava la ragazza di fronte a lei. Era decisamente più adulta di quando si
erano salutate, lo scorso giugno, si poteva dire che l’estate avesse modellato
i suoi lineamenti da bambina per trasformarla in una giovane adulta. A partire
dal suo viso. Osservò gli zigomi alti e modellati, fin troppo magri per poter
essere ancora definiti infantili, spruzzati di lentiggini chiare fin sulla
punta del naso sottile, leggermente schiacciato. Anche le labbra si erano come
modellate per assecondare la logica di quel visino magro, non erano né carnose
né sottili, solo il labbro inferiore era leggermente più pronunciato
dell’altro.
Indossava già la divisa grigio scuro listata di giallo e
scarlatto, nonostante il treno non fosse ancora partito; anche quella rivelava
quanto fosse cresciuta. La gonna plissettata sfuggiva quasi volontariamente
sulle gambe fasciate da un paio di leggere calzamaglia grigio chiaro, il
maglione, che l’anno passato avvolgeva il suo corpo da ragazzina in maniera
piuttosto abbondante, aderiva al suo ventre piatto e ad un petto, nonostante
tutto, ancora acerbo. Con un sorriso, Caroline notò che aveva tirato le maniche
fino a metà degli avambracci magri, probabilmente perché si erano fatte troppo
corte anch’esse.
Fece scorrere ancora una volta lo sguardo lungo tutta la
sua figura slanciata; non vi era in lei alcuna traccia di sensualità voluta,
nessun’aria provocatoria che ci si sarebbe aspettato di trovare in una giovane
ragazza nel fiore degli anni. Scivolava addosso alle sue forme essenzialistiche
quella concezione maliziosa, scivolava senza lasciar traccia.
E, nonostante ciò, quella smorfia accigliata, quelle
labbra arricciate, senza un velo di lucidalabbra, gli occhi semichiusi,
lontani, ad osservare i movimenti degli estranei, persino l’angolo strano ed
innaturale formato dalle sue ginocchia ossute… tutto ciò convolava a formare il
perfetto quadro che una studentessa diciassettenne avrebbe dovuto mostrar di
sé. Non sapeva spiegarselo, eppure vi era in Griet una qualche traccia di
adulta consapevolezza del suo fascino quasi androgino.
Affascinante, sì, ma senza riuscire a suscitare quella
voglia volgare di una provocante giovane donna racchiusa nel corpo di una
bambina.
Bambina… lo era stata, un tempo, ma ora le sue forme erano
troppo spigolose, troppo asciutte per poter possedere alcuna grazia infantile.
“Smetterai prima o poi di fissarmi?”
Caroline sussultò. Aveva tenuto il tono basso, quasi come
un ringhio strascicato.
Soleva fare così, alle volte. Non se ne rendeva conto né
voleva ammetterlo, ma anche quello tradiva le sue origini altolocate.
L’osservò quietamente, quando scopriva a malapena i denti
regolari, schiudendo le labbra rosate, le guance si facevano ancora più
sfuggenti, s’infossavano appena sotto gli zigomi.
Le avrebbero dato un tono molto carino un paio di
fossette, appena accanto delle labbra, ma in quel viso né troppo ovale né
troppo squadrato non c’era posto per tratti tali.
Sarebbe stato fuori posto, sarebbe stato semplicemente…
sbagliato.
“Perché hai già messo la divisa?” Caroline si era imposta
le dita sottili davanti alla bocca per evitarsi di scoppiare a ridere,
guardando dirimpetto l’amica.
Ora gli occhi verdi di Griet la fissavano da sotto le
palpebre abbassate pigramente, sembravano assenti e sonnacchiosi, ma la ragazza
sapeva che la scintilla dell’attenzione non poteva essere più viva.
Sbuffò piano, staccandosi dal vetro e accavallando le
gambe dall’altro lato.
“Non avevo voglia di perder tempo dietro ai vestiti,
stamattina, sai…” scosse la mano con aria vaga mentre faceva correre lo sguardo
sulla banchina che si stava lentamente svuotando.
Di lì a poco l’Espresso sarebbe partito.
“Avresti potuto venire nuda, no?”
Entrambe si voltarono verso il ragazzo poggiato alla porta
che le stava guardando con aria divertita. Griet socchiuse gli occhi fino a
farli diventare due fessure e serrò repentinamente le labbra.
“Davvero divertente Joel. Davvero divertente.” sibilò.
Joel sorrise passandosi distrattamente una mano tra i capelli
scuri ed ebbe appena il tempo di muovere un passo all’interno dello
scompartimento che Caroline gli si precipitò al collo; il ragazzo fu quasi
sbilanciato dall’eccessivo slancio che ci aveva messo, ma con spavalda baldanza
le passò le braccia attorno alla vita, andando a sfiorarle il collo in un
rapido tocco di labbra.
Poco distante, Griet, aveva sollevato i piedi e li aveva
poggiati sul sedile, traendo a sé le ginocchia in una posa raccolta. Pareva
disinteressata. Joel sospirò divertito, avanzando verso il sedile in fronte a
lei; si lasciò cadere pesantemente a sedere, mentre la ragazzetta mora andava
ad accoccolarglisi accanto in una lasciva espressione di evidente gioia.
“Temo te l’abbia già chiesto Caroline, ma… come mai
quest’aria imbronciata, stamane?” il suo tono suonava divertito.
“No. Non me la già chiesto” e lei aveva risposto seccata,
senza scostarsi dal vetro.
Poteva sentire sulle labbra il freddo del vetro.
Joel le si rivolse sarcastico, voleva indurla a staccare
gli occhi dagli estranei e concentrarsi sui suoi amici? Non ne aveva motivo,
Griet li vedeva benissimo, riflessi pallidamente nel vetro.
“Me lo dirai o mi tedierai con la tua solita filosofia
spiccia?”
Di nuovo un sospiro e la mano andava ad urtare con
malagrazia il mento magro. Si era portata l’unghia dell’indice alle labbra e ne
mordicchiava distrattamente il bordo.
“Ho mal di testa” sbiascicò.
Il suo sguardo a metà tra l’ocra e il verde trapassò le
figure dipinte sul vetro del finestrino andandosi a perdere tra la folla che
s’accalcava a pochi metri da lei.
A quanto sembrava, il treno era proprio in procinto di
partire…
“Oh, avanti, sarebbe come dire che il cielo è azzurro…
voglio dire…” si passò le dita tra le ciocche corvine.
“Qualunque cosa tu abbia da
dire, non dirla” l’interruppe Caroline sorridendo divertita “c’è il rischio che
ti mangi. Lo sai com’è fatta… quando ha la luna storta…”
Joel scrollò le spalle poi s’alzò, gettando un ultimo
sguardo a Griet, ancora languidamente poggiata al finestrino, non dava segni di
cedimento.
O era molto testarda o…
“Griet, noi andiamo a fare un giro”
Non che non le importasse di loro…
“Torniamo dopo”
Non ottenne altro che una sorta di basso grugnito
d’assenso.
“Lunatica”
“Guarda che t’ho sentito…”
Ma la porta scorrevole era già tornata al suo posto
lasciandola sola a borbottare col muro.
La banchina ora era occupata solo dai parenti che
salutavano freneticamente gli occupanti del treno, affacciati ai finestrini dei
vagoni; qualche fratellino più piccolo si fregava il viso, con la manina stretta
in quella della madre. Griet aggrottò la fronte, aveva detto a suo padre di non
restare ad aspettare la partenza ed era sicura che l’avesse ascoltata.
D’altronde era improbabile che si fosse intrattenuto con i
suoi zii…
Sorrise amaramente staccandosi da finestrino vibrante
mentre il treno partiva fischiando e sbuffando, poi tornò ad appoggiarvisi e a
volgere lo sguardo fuori del suo scompartimento. Con il palmo premuto contro il
mento sbuffò svogliatamente; di lì a poco, il fissare insistentemente fuori dal
vetro, come stava facendo da quando era arrivata, le sarebbe costato
un’emicrania ancora più violenta.
*
Non sapeva esattamente dire quanto fosse passato quando
avvertì quella strana sensazione di nausea. Fu sicuramente poco dopo che il treno
si fu fermato, in un’inspiegabile ed insolita sosta, quando era ancora ben
lontano dal castello.
Stava sfogliando senza particolare attenzione un libro
babbano che sua madre le aveva infilato in borsa prima di partire (un racconto
scialbo e tedioso che aveva ricevuto in omaggio con la copia mattutina del Times
– una di quelle iniziative culturali per cui ogni settimana era regalato un
testo di narrativa moderna o classica, straniera o inglese), quando lo
strattone della frenata non glielo fece scivolare dalle mani fin sul pavimento.
Non si curò del libro. Levò gli occhi chiari e li volse vigili alla porta,
tendendo le orecchie nella speranza di cogliere qualche particolare indizio che
le potesse rivelare il motivo di quel brusco stop.
Ma dal corridoio, oltre la porta, proveniva solo il
vociare confuso degli altri ragazzi, agitati e sorpresi almeno quanto lei.
Socchiuse gli occhi e sbuffò, chinandosi a recuperare il
libro, scivolato quasi sotto al sedile di fronte.
Un nuovo strattone scosse la vettura e Griet si ritrovò
goffamente seduta con le palme poggiate dietro la schiena e le ginocchia
piegate davanti al busto.
Qualcuno aveva gettato un grido, oltre il legno della
porta scorrevole e il chiassare s’era fatto più insistente. Rialzandosi
contrariata gettò malamente il libro sul sedile e s’apprestò alla porta.
Fu allora che lo avvertì.
Si portò una mano alle tempie, pulsanti per quel malore
così improvviso, e s’appoggiò fiaccamente al muro. Era come se d’improvviso
tutte le sue energie fossero state concentrate e poi assorbite da quel gesto di
sfiorarsi il viso con le dita. Indietreggiò con incertezza, tenendo di continuo
la mano destra a ridosso della parete, fino a giungere al sedile. Si lasciò
scivolare (scivolare, sì) mollemente con gli occhi semichiusi sulla stoffa
vellutata e trasse un profondo respiro.
Si sentiva inspiegabilmente inquieta e… era solo una sua
sciocca impressione o aveva iniziato a far freddo? Che quella sosta improvvisa
fosso dovuta a qualche guasto?
Scosse energicamente il capo come a voler scacciare ogni
pensiero che le si affacciasse alla mente e corrugò la fronte, concentrandosi
su quel malessere che non accennava a lasciarla.
Sì, s’era fatto più freddo. Un brivido leggero la scosse
da capo a piedi e Griet si svolse rapidamente le maniche, coprendosi quei lembi
di pelle bianca e nuda sugli avambracci sottili.
Freddo. Freddo.
Seguì un tonfo. Uno spiffero gelido entrò da
un’improbabile fessura della porta e di nuovo la ragazza fu scossa dai brividi.
Alzò lo sguardo, notando solo in quell’istante che le voci chiassanti s’erano
quietate. Ora non si sentiva altro che il suo aritmico respiro. Stette qualche
secondo trattenendo anche quell’unica fonte di rumore mentre con cautela
raccoglieva le gambe al petto e si rannicchiava nell’angolo vicino al
finestrino.
Con un mezzo gemito riprese a respirare normalmente: il
vetro era freddo come una lastra di ghiaccio e la sua schiena era completamente
inondata di sudore. Con un’espressione deliziosamente stupita in viso si torse
fino ad accarezzarsi la schiena madida con il dorso della mano pallida, per poi
ritrarla immediatamente quando un secco rumore proveniente dal corridoio attirò
la sua attenzione.
Sgranando gli occhi chiari si volse alla porta (la
sensazione di freddo e inquietudine si acutizzava attimo dopo attimo) con il
cuore che le martellava in petto. Le era parso di scorgere una fuggevole ombra
agitarsi sulla superficie semitrasparente del vetro cesellato che occupava la
parte superiore della porta.
Stette in attesa. Qualcosa come una mano invisibile e
gelata le opprimeva il petto facendo sì che ogni suo respiro a denti serrati le
graffiasse la gola come una lama di rasoio.
E poi ancora, ancora quell’inspiegabile senso di crescente
ansia che si andava trasformando in qualcosa di più oscuro e angosciante. Come
non riuscisse a star tranquilla. Cambiò per l’ennesima volta posizione e si
mordicchiò il labbro inferiore, torcendosi nervosamente le mani.
Lo scorse. O meglio, quando vide quella macchia scura che
s’andava allargando man mano che s’avvicinava alla porta (voleva entrare, Griet
lo seppe con certezza non appena lo vide), non era certa di cosa fosse. Se un
ragazzo, o una ragazza, spaventato quanto lei o chissà che altro.
Beh, inghiottendo l’aria ghiacciata e appiccicosa, seppe
che era qualcos’altro.
Emise un basso gemito, allentandosi il colletto della
camiciola e si rannicchiò contro il vetro sempre più mentre la maniglia
s’abbassava e con lentezza esasperante la porta andava a scorrere sui cardini
mal oliati.
Ne aveva sentito parlare, oh sì, ma non aveva
nemmeno mai lontanamente immaginato che potesse essere così… annientante.
Era la parola giusta. L’aveva annientata fin nel profondo.
Aveva osservato, madida di paura, quel putrido mantello
scuro aleggiare sulla soglia e il cappuccio stracciato ondeggiare, in un vento
invisibile e impalpabile, nella sua direzione. L’aveva guardata e aveva
emesse una sorta di basso rantolio, che doveva somigliare molto ad un vagito di
approvazione per aver avvertito il suo terrore.
Un Dissennatore.
Inutile dire che la domanda *cosa ci fa un Dissennatore
sull’Espresso di Hogwarts?* non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello.
Era chiaro come, al momento, la sua mente fosse completamente occupata
da altri pensieri.
Tipo il rimanere lucida nonostante quell’essere
putrescente s’avvicinasse inesorabilmente a lei.
Tipo tentare di non cedere allo sconforto e a quella nera
sensazione di non poter essere mai più felice.
Tipo il non svenire di paura. Ed il restar viva.
Sbattè con forza le palpebre ormai pesanti e mugugnò
qualcosa, agitandosi sul posto. Nella sua testa, voci confuse a rivangare i
momenti peggiori dei suoi diciassette anni di vita.
Esanime, ciondolò la testa di lato, su una spalla e si
lasciò cadere contro il vetro.
L’angoscia era ormai opprimente, le scorreva nelle vene
assieme al sangue…
Chiuse gli occhi.
Si sarebbe abbandonata a lui senza lottare. Sospirò ed
inalò quell’umido schifoso.
Non era in grado di preoccuparsi per ciò che sarebbe
successo se qualcuno non avesse sbattuto con violenza la porta, gridando parole
confuse all’essere ammantato.
E una luce. Una luce.
Sono forse morta?
“Apri gli occhi”
Chi mi parla?
“Sei un angelo?”
Risatina sommessa e una mano calda (innaturalmente calda,
le venne da pensare) passata sulla sua fronte gelida di sudore. Avrebbe voluto
tendersi ed obbligarla a sostare, per riscaldarla.
Quel contatto quasi vitale stava per interrompersi.
“No. Resta…”
L’aveva pronunciato ad alta voce…
Le dita affusolate e leggermente ruvide che si soffermano
a disegnare il contorno caffelatte delle sue sopracciglia, che le asciugano le
gocce fitte sulla pelle incredibilmente pallida.
Un senso di calore improvviso…
Sì… sei un angelo.
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Oh!
Commenti di fine capitolo! :’D non ne faccio mai ma una piccola eccezione va
fatta (diciamo che voglio il mio spazio per sentirmi importanteXDD)! Prima di
tutto una precisazione, il rating e le avvertenze che ho messo le ho messe non
tanto perché sarà una sordida storia di sesso (cielo, almeno non credo!XD) ma
per gli sviluppi della storia che potrebbero dar fastidio ai lettori. Seconda
cosa (ampiamente marginaleXD) i titoli sono tutti tratti da canzoni che adoro
particolarmente (ma che, probabilmente, dati i miei gusti, nessuno conosceXD).
Quello di questo capitolo è tratto da “Quicksand Jesus” degli Skid Row *___*
Baci baci
Momo :’D