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Autore: Melanto    29/06/2020    4 recensioni
[Sequel di 'Malerba']
Un figlio morto, uno che lo odia e una moglie che lo sopporta. Questo è ciò che possiede Akio Morisaki, oltre al suo lavoro, e pensa di non meritare nient'altro.
Ma quando la solidità che gli è sempre valsa il nomignolo di 'sequoia' inizia a vacillare, gli toccherà fare anche quello che non avrebbe mai pensato pur di tenere strette le proprie radici alla terra e capire, perduto nel tempo che aveva creduto di controllare, quanto profonde siano quelle della sua famiglia.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Roots - Capitolo 6

 

 

 

- VI: A volte ritornano -

 

Nel dormiveglia allungò la mano in cerca di contatto, ma scivolò sulle lenzuola vuote.

Mamoru aprì un occhio alla volta perché intontito dal sonno, ma sentire il letto freddo dal lato di Shuzo aveva acceso un allarme, tra i mille che di solito restavano in stand by.

Quando riuscì a forzare la stanchezza di un riposo che era già stato incrinato e ora si era spezzato del tutto, ebbe la certezza di essere da solo.

Il pallore della notte filtrava appena e affettava le coperte in righe più chiare e più scure che restituivano forme facili da interpretare: gonfie dalla sua parte, piatte da quella di Shuzo.

Mamoru contrasse le sopracciglia e si alzò, sbadigliando così tanto da farsi spuntare le lacrime. Adagio si mosse dalla stanza al corridoio senza neppure infilare le ciabatte. Ma il bagno aveva la porta aperta e tutto spento e allora si affacciò nella zona living.

Ammantato dalla luce della luna che entrava dal balcone come un faro puntato sul divano, Shuzo restava seduto con la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi. I piedi poggiati contro il bordo del tavolino basso su cui giacevano una ceneriera con un paio di mozziconi e l’odore del fumo ancora nell’aria, la bottiglia di Kuromori che avevano aperto a cena – e che ora era a meno di metà – e un calice in cui il vino sporcava solo il fondo, raccolto in tre gocce. Un altro calice era davanti al butsudan aperto.

Mamoru sospirò. Per quanto si fosse aperto agli altri e a lui, Shuzo manteneva sempre una parte ingombrante della propria riservatezza che funzionava come e meglio d’una cassaforte. Dentro vi chiudeva il peggio che poteva provare, quello che più delle altre cose lo destabilizzava e metteva in difficoltà. Lui ci combatteva da tempo per riuscire a forzare anche quella serratura, ma doveva essere sia a doppia mandata che a combinazione; non sarebbe bastato un semplice grimaldello né un ladro esperto. Ci volevano tempo e pazienza.

Raggiunse il divano in passi lenti e nel vedergli l’espressione tanto quieta, pensò di avere entrambi e che prima o poi lì dentro ci sarebbe entrato.

Allungò la mano con il desiderio di fargli una carezza e svegliarlo con calma, dirgli di tornare a letto, ma il polso venne afferrato con presa rapace che gli provocò una fitta di dolore. Gli occhi di Shuzo saettarono, vigili in un istante, illudendo che non si fosse appisolato per i momenti necessari a non riconoscerlo e a preparare tutto il corpo alla difesa.

Mamoru si augurò che gli dèi benedicessero sempre l’istinto di Malerba, la sua reattività aggressiva che a volte lo faceva sobbalzare con estrema teatralità e altre lo metteva sull’attenti come un soldato dei reparti d’assalto. Anche se era riuscito a tenere in ombra la parte agguerrita, quando era nervoso tornava alla carica.

E Shuzo era teso da giorni, settimane. Mamoru se n’era accorto, e si era accorto di come avesse sviluppato una certa simbiosi con il cellulare – che teneva accanto a sé, sul divano, anche in quel momento – quando prima era solito guardarlo un paio di volte al giorno o addirittura dimenticarselo. Adesso lo teneva sempre in tasca. Se all’inizio aveva addotto la cosa a qualche impegno di lavoro con la Scuola KadouEnshu per cui avrebbe dovuto essere reperibile, ora il reale motivo gli pareva chiaro.

Shuzo, però, restava un testardo che si confidava a metà e negava l’evidenza.

«Scusa, non ti avevo…» Malerba addolcì la presa, la trasformò in carezza che scivolò nel palmo e intrecciò le sue dita. Anche negli occhi e in viso si vide che l’animale feroce aveva ceduto il posto a un’espressione più mite.

Mamoru prese posto al suo fianco e non lasciò andare la mano, ma passò la punta delle dita tra i capelli e la tempia.

«Non dormi?»

«Avevo bisogno di bere un goccio con mio fratello.» Shuzo accennò al butsudan.

«Più di un goccio, direi. E poi in piena notte e a stomaco vuoto?»

«Dovevo scusarmi.»

«Di cosa?»

Shuzo abbassò il viso, si prese del tempo, e Mamoru glielo leggeva nei gesti che la risposta sarebbe stata articolata abbastanza da volerla evitare. Da parte sua avrebbe potuto dirgli che, se non avesse voluto, non avrebbe dovuto parlargliene per forza, ma i segreti erano amici che avevano scelto di non concedersi più. Si poteva omettere per un determinato limite di tempo, quello necessario a darsi il coraggio per affrontarlo, ma mentire e nascondere no.

«Tra i primini di quest’anno c’è una mia cugina.»

«Sei certo che sia-?»

«Una Yamaguchi di Nankatsu non è già una certezza di per sé?»

«Ti ha dato problemi?»

«Ma va. È una ragazzina, avrà sì e no appena finito il liceo. Semmai sono io a farla cacare sotto. Vedessi come va in panico quando le chiedo qualcosa o mi metto accanto a lei a osservare cosa fa. Lo ammetto: ne sono consapevole e lo faccio di proposito. Sono un maestro di merda.» Shuzo mostrò i denti in una sghignazzata maligna e sollevò le sopracciglia più volte. Scese i piedi dal tavolino e si allungò, il chiaro intento di versarsi un nuovo mezzo bicchiere, ma quando le dita toccarono il vetro, esitarono e non strinsero. Si limitò a spostare la bottiglia da un punto all’altro. Alle mani fece trovare una sorta di tregua solo intrecciandole tra le ginocchia.

«Il problema è che spesso è venuta a prenderla mia nonna. Akina.»

«Tua nonna paterna?» comprese Mamoru nella tensione con cui pronunciò il nome e poi nello sguardo affilato che gli rivolse.

«Non la vedevo da… occazzo, quanto? Più di vent’anni. Da quando mi hanno estromesso dalla famiglia e dalla minka non l’ho praticamente più incontrata.»

Mamoru serrò le labbra e prese un respiro profondo, cercò di nuovo la sua mano e la strinse con determinazione. «Qualsiasi cosa ti abbia detto non darle retta. I loro rancori non hanno importanza.»

Shuzo inclinò leggermente il capo.

«Aw, gioia. Quanto sei carino. Per il tuo compleanno ti regalerò una bella armatura scintillante. Vuoi anche un cavallo bianco?»

«Idiota.»

«Meglio un pony.»

Mamoru mollò la presa e gli diede una manata sulla spalla. Shuzo lo afferrò per il bavero della maglietta e lo tirò in avanti per rubargli dei baci affettuosi, distanti da quelli con cui erano soliti divorarsi a vicenda. Gli stava dicendo che aveva compreso le sue intenzioni, ma Shuzo era più bravo a fare il serio quando si trattava di incazzarsi che nel romanticismo. Anche se stizzito, Mamoru gli concesse di essere stupido e si prese quelle labbra che sapevano di vino.

Negli occhi, Shuzo aveva una luce stranamente quieta che non si sarebbe aspettato, visto che stavano parlando della sua famiglia. Avrebbe detto fosse malinconico, non arrabbiato.

«Nonna mi ha invitato a tornare alla minka

Mamoru drizzò la schiena, Shuzo appoggiò la nuca contro la testiera del divano e rilasciò un lungo respiro.

«Ha detto che non importa il nome che ho sulla carta, essere un Morisaki è una questione genetica, e io ho dimostrato di possederne tutte le qualità. Nemmeno fosse un quiz a premi o un test.»

«Si è scusata con te?»

«Se intendi una frase come ‘scusa, ci siamo comportati una merda’, no, non è mai stata il tipo da fare retromarcia sui propri errori, ma era tra le righe.» Girò la testa per guardarlo e negli occhi, illuminati dalla luna, c’era ancora quella tiepida malinconia che non arrivava a scaldarsi fino a diventare collera. «Sai da quanto tempo manco dalla minka? Venticinque anni. Yuzo avrebbe sempre voluto che un giorno potessimo riunirci tutti sotto quel vecchio tetto di legno. Avrebbe voluto che le cose potessero tornare a come erano state prima, quando eravamo bambini. Ed è per questo che dovevo scusarmi con lui… perché non ho la minima intenzione di rimettere piede in quel cesso. Gli anni che sono passati sono troppi perché un invito a caso possa cancellare ciò che è stato e che ho vissuto. E i ricordi di quando ero bambino non hanno poi tutto questo splendore. Per Yuzo era diverso, ma io lì non mi sono mai sentito a mio agio. Lui era abbastanza ingenuo da credere che ci fosse della bontà in quelle persone, dell’onestà. Io so che sono dei rancorosi di merda e non potrei mai fidarmi dei loro ripensamenti, adesso. In una parte della mia testa, ci sarebbe sempre quella fottuta vocina che direbbe ‘sono balle, stanno cercando di fotterti’. Lo penso anche di zio Tomohisa. È come se fossero degli estranei; nemmeno sapevo che zia Kozue avesse avuto un’altra figlia, pensa. Non so niente di quella famiglia, loro non sanno niente di me.» Shuzo prese un nuovo respiro profondo e si tirò a sedere stancamente. Questa volta, il vino se lo versò sul serio, scarse due dita. «Io non sono più un Morisaki né mi interessa tornare a esserlo, quella è una radice che si è seccata da tempo. Io sono Mori», aggiunse e negli occhi la malinconia era sparita, al suo posto c’era il cannibale con il suo sguardo feroce. «E la genetica può succhiarmi il cazzo.»

Buttò giù il vino in un solo sorso e alzò il bicchiere in direzione del butsudan.

«Scusa, fratello. Alla tua.» Appoggiò il calice, tappò la bottiglia e poi si alzò, barcollando leggermente da un lato. «E dopo questa bella dichiarazione d’amore, posso anche tornarmene a letto. Ah, che fenomeno… domani c’avrò un cerchio alla testa. Ma che cazzo mi dice il cervello? Che c’ho ancora vent’anni?»

Mamoru seguì con gli occhi i suoi movimenti instabili. Anche quando voleva scusarsi, la sua famiglia riusciva ferirlo e a lui dispiaceva che, per quanto seccata, quella radice continuasse a restare lì come una specie di monito, ricordandogli quanto certi legami facessero male anche da morti.

Si alzò e lo raggiunse. Si fece passare un braccio attorno al collo per sostenerlo e stringerlo al tempo stesso, dargli la sicurezza della propria vicinanza.

«Davvero non perdoneresti nessuno di loro?»

Aveva il naso di Shuzo che gli sfiorava il collo e le labbra che vi lasciavano dei baci umidi. Si era appoggiato a lui, accettando il sostegno senza rifuggirlo come avrebbe fatto un tempo. I passi avanti c’erano stati, parecchi, ma a tutti capitava di scivolare un po’ sulle vecchie ferite.

«Forse sarei disposto a fare un’eccezione, ma dovrebbe essere convincente», disse Malerba, separandosi dal suo abbraccio per avvicinarsi al bagno. «Molto convincente.»

Mamoru si appoggiò al muro, sospirò. «Perché non lo chiami per sapere come sta?»

«Chiamare chi?»

«Lo sai.»

«E chi stava parlando di lui? Ho un sacco di cugini e zii, io, mica ruota tutto attorno ad Akio. E poi chiamarlo perché? Non ho nemmeno il suo numero e quello sta meglio di me, te lo posso assicurare. Si starà solo rincoglionendo. Brutta bestia la vecchiaia. Spero di non fare la sua fine.»

Malerba si chiuse la porta alle spalle, sancendo la fine della loro conversazione e lasciandolo fuori a contemplare la sua testardaggine e le sue menzogne.

 

§

 

Yumeko e Rina si erano ritagliate un giorno alla settimana in cui si vedevano anche con le altre mamme della vecchia Nankatsu, proprio come quando i loro figli erano stati dei bambini che iniziavano a giocare e a costruire i primi legami importanti. Nessuno di loro – tra adulti e ragazzi – sapeva che se li sarebbero trascinati nel corso degli anni, facendoli divenire una parte solida della loro vita.

Era più corretto dire che Yumeko era stata reintrodotta in quei pomeriggi frivoli e di allegria dai quali si era allontanata dopo la morte di Yuzo. Affrontare persone che non facevano che ricordargli suo figlio era stato troppo doloroso, ma ora la sofferenza era stata compresa, superata, accettata. E tornare a parlare dei loro ragazzi, dei ricordi di quando erano stati bambini aveva lasciato solo il sapore della malinconia sotto i denti e un dolore che si poteva sopportare. Ai ricordi di Yuzo, aveva iniziato ad aggiungere quelli di Shuzo e poter parlare di entrambi i suoi figli era stata una liberazione.

Era da uno di questi pomeriggi passati a scambiarsi ricette e consigli che Yumeko stava rientrando. Il passo sostenuto ma non affrettato, lo spirito leggero e la testa piena di chiacchiere. Si sentiva rilassata. Una sensazione di cui era divenuta pienamente consapevole solo negli ultimi due anni, quando aveva realizzato che la notte dormiva bene e la mattina si svegliava riposata. Fin da quando erano iniziati i primi problemi con Shuzo, il suo riposo era stato frammentato. Di notte, soprattutto: Yumeko, anche se addormentata, restava vigile e le bastava un rumore più forte degli altri per farle spalancare gli occhi. Il timore che il telefono squillasse in piena notte. Il terrore.

Poi, un anno e mezzo prima, una mattina si era svegliata e si era sentita riposata. E dopo aveva realizzato che era accaduto anche il giorno precedente e quello prima ancora, e così a ritroso.

La serenità era tornata quando ormai si era rassegnata a dover convivere con quello stato di ansia perenne. L’unico neo era che la propria tensione fosse passata a suo marito: adesso, chi aveva smesso di dormire era Akio, chi persisteva in uno stato di ansia era Akio, chi accusava dolori di stomaco, era iperteso e con le palpitazioni era proprio Akio. Suo marito, la sequoia dei suoi ricordi, aveva dimostrato di possedere uno spirito logorato dal tempo, dalle acredini e dagli eventi. Era lui che non riusciva a trovare pace né serenità. Anche se forse l’ultimo periodo… questione di quanto? Due mesi circa o forse più? Ecco, in quegli ultimi mesi le cose sembrava stessero cambiando anche per Akio. Da che la sua mente sembrava sempre troppo lontana e distratta, a poco a poco qualcosa era cominciato a riemergere. Una maggiore concentrazione e presenza, positività, voglia di fare che non fosse legata al lavoro. Akio si era trovato un hobby, ed era stata la prima cosa che non avrebbe mai creduto possibile in uno come lui, che gli hobby li aveva sempre considerati solo dei riempitivi tra le pause lavorative o proprio una perdita di tempo. Ora, giusto quell’hobby che, a quanto pareva, il medico gli aveva imposto di trovarsi, lo stava tirando via dagli abissi di sé stesso in cui era sprofondato come fossero state sabbie mobili. Ma un tipo come lui, non poteva affidarsi a un hobby qualunque.

Quando le aveva detto di essersi iscritto a un corso di ikebana erano trascorse già tre settimane e nove lezioni. Non aveva saputo che rispondere a quella rivelazione straordinaria, aveva però guardato suo marito negli occhi e lo aveva visto diverso. Il suo cambiamento era iniziato da tempo, graduale e lento, misurato in ogni passo che a volte aveva dovuto ripercorrere più volte per farlo diventare parte del cammino. Aveva preso a parlare un pochino di più, ad aprirsi a rivelazioni impensabili ogni tanto, e poi a tornare a nascondersi nelle proprie frasi che dicevano il necessario, ma non tutta la verità. Poi d’un tratto, era cambiato ancora.

Yumeko aveva provato a immaginarlo con dei rami tra le mani, delle foglie, dei fiori; che chiamava le cose con il loro nome, che creava. E ad ogni pensiero, l’immagine di Akio si fondeva e sfumava con quella di suo figlio, l’artista. Ne aveva pianto senza farsi vedere, chiedendosi cosa avrebbe mai pensato Yuzo, quanto sarebbe stato felice di vedere suo padre cercare di andare incontro a suo fratello affrontando proprio lo scoglio più grande di tutti e scoprire che la radice rimaneva la stessa, a dispetto delle distanze o colpi di scure.

La radice che univa Shuzo a suo padre era lì, viva, forte, pulsante.

Ci stava pensando ancora quando il telefono le vibrò tra le mani, cogliendola di sorpresa. Lo aveva controllato fino a qualche istante prima per vedere gli orari dei bus e poi non l’aveva più posato. Si sorprese ancora di più quando lesse il nome di Mamoru sul display.

«Mamoru-kun?»

– Yumeko-san, la disturbo?

«No, affatto. Pensa, ho da poco salutato tua madre.»

Mamoru rise: – Non lo dica a suo figlio o penserà che stiate ‘complottando’ qualcosa.

«Avrebbe ragione. Lascia che ci tema un pochino», rise anche lei. «È tutto a posto?»

– Sì. In realtà la chiamo per sapere se domattina potesse dedicarmi qualche minuto. Passerò per Nankatsu, le andrebbe di bere qualcosa insieme? Avrei bisogno di parlarle…

«Certo. Di cosa si tratta?» per istinto, Yumeko aveva portato una mano al petto.

– Di Shuzo e suo padre.

Yumeko rilassò le spalle nel sentire tirare in causa anche Akio. Era certa che qualcosa si sarebbe smosso, prima o poi. Shuzo non era uno sciocco e anche se aveva infarcito di commenti più o meno pesanti le sue osservazioni si era accorto che qualcosa non andava. Qualche domanda vaga, presa alla larga, una battuta: si era informato con costanza e discrezione, credendo di poterle far credere che non gli importasse. Forse sì, pensare di ingannarla era stato da sciocchi, ma non era quello il punto. Yumeko aveva pensato spesso che il cambiamento che Akio stava affrontando non sarebbe potuto rimanere nascosto troppo a lungo. Alla prima cena insieme, al primo incontro tra suo marito e suo figlio qualcosa avrebbe finito con lo sfuggire di bocca. Parlarne con Mamoru, forse, le avrebbe permesso di condividere il peso e magari avere qualche buon consiglio.

«Ma certo. Va bene se ci vediamo per le undici alla Sala da tè ‘Umino’

– Perfetto. Grazie, Yumeko-san.

«A domani.»

Chiuse la chiamata con il sorriso sulle labbra. Era serena nonostante i nodi minacciassero di venire al pettine o forse proprio per quello. A differenza di suo marito non aveva paura che la bolla esplodesse; tante di molto più terribili le erano scoppiate tra le mani, ne avrebbe portato i segni per sempre. Quella, invece, doveva esplodere, era nata apposta, e qualcosa le diceva che non ci sarebbero state vittime. Era una sensazione forte, a dir poco una convinzione. Akio e Shuzo avrebbero fatto collidere i loro mondi e qualcosa sarebbe nato, dopo; nulla sarebbe morto.

Mise via il cellulare e nella borsa frugò alla ricerca delle chiavi. Ci mise un po’, non facevano che perdersi tra il portafogli, i fazzoletti, l’ombrellino, il portamonete e tutta quella serie di cose all’apparenza inutili, ma che finivano per trovare la necessità nei momenti impensabili – e sempre quando di solito non si portavano mai – come una spilletta da balia o un rotolino di filo con l’ago. Nonostante lei fosse sempre stata una donna abituata a fare affidamento su una governante, aveva sviluppato – grazie a quest’ultima – una praticità poco da ‘ricca’. Era certa che la sua borsa non aveva niente da invidiare al contenuto di quella di una mamma qualunque. Aveva anche i cerotti!

Quando sollevò lo sguardo, dopo essersi fermata davanti al cancello, la sagoma scura della macchina di Akio fu la prima cosa che i suoi occhi catturarono. Yumeko ne rimase sorpresa, guardò l’orologio: appena le sei del pomeriggio, era troppo presto perché suo marito fosse già rientrato dal lavoro.

Entrò nel cortile, richiudendo il cancello in tutta fretta. Come di fretta entrò in casa.

«Akio?» chiamò, appoggiando le chiavi nel portaoggetti accanto alla porta d’ingresso. Nessuno rispose.

Yumeko lasciò la borsa a terra, tolse le scarpe. Quelle di suo marito erano lì, segno che era tornato davvero.

«Sei rientrato presto. Akio?» Alzò la voce, chiamò ancora, magari era nello studio o nella sala da pranzo, ma ancora una volta le rispose solo il silenzio.

Il primo pensiero fu che non si fosse sentito bene al lavoro, anche se ultimamente aveva riposato meglio e i dolori che lo avevano assediato per mesi si erano attenuati in maniera drastica.

Yumeko andò spedita nello studio, ma era vuoto, e allora raggiunse la cucina, però non c’era nessuno neppure lì. Se si era sentito male, magari Akio si era messo a letto, così decise che si sarebbe affacciata prima alla sala da pranzo e poi sarebbe salita al piano superiore. Ma quando fece capolino e vide le tende della portafinestra oscillare a un lieve filo di corrente, si accorse che era aperta. A passo incerto la raggiunse; non si era neppure tolta il trench lungo al ginocchio, sotto cui si apriva la svasatura di una gonna plissettata che le sfiorava la caviglia. Appoggiò una mano allo stipite, con l’altra tenne la tenda. Fuori c’era ancora la luce della sera che si intratteneva un po’ di più nel cielo di maggio. L’aria aveva un odore buono, ed era insieme coda di primavera e presagio d’estate. Gli occhi trovarono quasi subito la porta della serra aperta e ombre che si muovevano dall’altra parte dei vetri smerigliati. Luci accese, poi spente, poi accese di nuovo. L’eco di qualche rumore e musica soul indietro con gli anni; la valigetta degli attrezzi era aperta e abbandonata come fermaporta.

Aveva colto più volte Akio nella serra. Ci andava attirato da una forza invisibile come non era mai accaduto da che l’aveva comprata per i suoi figli. Quando Yuzo era stato ancora vivo e Shuzo faceva già dentro e fuori dal riformatorio, Akio c’era stato sì e no due volte, dimostrandosene per lo più disinteressato, poi infastidito e infine come se neppure esistesse nel cortile. Non sapeva quando fosse accaduto che il richiamo verso quel dimenticato passato fosse diventato tanto forte da attirarlo a sé una, due, tre volte. Poi quattro, cinque e chissà quante ancora si era chiuso lì a pensare, domandare, capire.

Yumeko indossò le ciabatte da esterno e camminò per l’erba sistemata di fresco dal giardiniere; era passato da un paio di settimane, aveva anche sistemato il melograno nonostante fossero in ritardo – di cui Akio aveva tenuto alcuni rami. Vederlo gironzolare attorno al signor Oishi, mani dietro la schiena e poi nelle tasche cercando di dissimulare il reale interesse, salvo poi spulciare tra i rami tagliati, era stato buffo. Forse il signor Oishi, tra le occhiate perplesse che gli aveva lanciato, aveva pensato fosse impazzito di colpo; lei aveva ridacchiato a ridosso dei vetri, ma non aveva detto nulla. In passato, Akio si sarebbe mosso con tutta la sicurezza di un carrarmato prendendo ciò di cui aveva bisogno, incurante del resto, ora cercava di fare poco rumore, essere discreto, mentre tentava di acquistare confidenza anche con quel nuovo mondo che aveva accettato nella propria vita. Un mondo che forse nessuno dei due pensava potesse travolgerlo con così tanta energia. Yumeko se ne rese conto quando si affacciò nella serra e si trovò a sgranare gli occhi, restare a bocca aperta.

Via la polvere, via la terra, via resti sbeccati di vasi spezzati o attrezzi arrugginiti dal tempo.

Nella serra c’era luce calda che pioveva da tre grandi lampadine appese in maniera alternata dalla trave principale che collegava le due parti della struttura. Il filo elettrico girava attorno alla trave di legno e poi scendeva lungo la facciata, ma non era ancora stato sistemato a dovere. Alla trave erano stati appesi dei vasi dalle felci rigogliose, le cui fronde, lunghe e pesanti, ricadevano verso il basso. Altre, in vasi di terracotta, riempivano le scaffalature attorno. Una Caesalpinia che ricordava dal giardino della minka dei Morisaki – e anche quella che suo marito aveva regalato a Kumi e Mamoru per la riapertura del locale – era stata messa nella posizione più centrale, quasi le fosse stato conferito un posto d’onore sulla parete principale della serra. Poi bocche di leone lilla, delle roselline chiuse in boccioli gialli, fiori di cosmo arancioni come il tramonto, crisantemi in attesa dell’autunno, gerbere abbaglianti. E più lontano, sulla parete di fondo, piante grasse di cui non conosceva i nomi, ma dalle spine spesse e altre senza. Potevano essere una trentina di piante in tutto, quindi gli spazi vuoti erano ben più della maggior parte, ma avevano ridato colore e vita a un ambiente lasciato morire per anni interi. Era bastato poco e Akio l’aveva fatto risorgere.

Lo cercò con gli occhi e lo trovò in piedi sulla pietra del piano da lavoro al centro della serra. Gli era stato tolto il grosso dello sporco e del tempo, ma doveva ricevere ancora la passata finale. Suo marito era allungato verso la trave, stava sistemando il filo elettrico di un’altra serie di lampadine più piccole di un dito e destinate a essere decorative. Sembrava stesse ricercando quanta più luce possibile, dopo aver vissuto nel buio per anni. Ai suoi piedi il cellulare disperdeva musica, e a terra vasi da ikebana freschi d’acquisto, sacchetti vari di terriccio, attrezzi da giardinaggio, cocci per i rinvasi e i rami recuperati dalla potatura del melograno.

«Dove sono appena entrata?» chiese, avanzando di un paio di passi. Si fermò accanto alla lunga scala aperta poco distante dall’ingresso.

Akio trasalì, abbassando lo sguardo. «Sei già qui?»

«Lo chiedi a me? Sei tu quello che è ‘già’ rientrato.»

Akio passò le mani sul paio di jeans e poi le puntellò ai fianchi; Yumeko glieli aveva visti sempre di rado addosso, troppo moderni e poco giapponesi per il lavoro che faceva; troppo casual. Alzò lo sguardo al lavoro incompleto.

«Speravo di terminare prima del tuo arrivo. Ma immagino ci voglia un po’ più del previsto. Non sono mai stato molto bravo con queste cose; Ryuusei era più pratico di me.»

«Tu hai una manualità diversa.»

«Dici?»

Yumeko accennò col mento verso i vasi da ikebana. «Chiedilo a loro.»

Akio sbuffò un sorriso a labbra chiuse e poi scese adagio dal ripiano. Si avvicinò e Yumeko poté vedere da più vicino i capelli spettinati che avevano bisogno di una spuntata, la camicia bianca dalle maniche tirate fino ai gomiti macchiata dalla polvere e dalla terra. Ma, soprattutto, osservò la noncuranza con cui Akio si mostrava in disordine, anche se era solo ai suoi occhi.

«Da quanto sei qui?» domandò infilando le mani nelle tasche del trench.

«Ho staccato per pranzo e sono andato a fare un po’ di shopping. Si dice così?» Akio guardò alle proprie spalle. «Sono passato dal solito fioraio, mi sono fatto dare qualche consiglio.»

«E lo hai svaligiato.»

«Ho esagerato? Non ti ho nemmeno chiesto se potessi usarla. La serra, dico.»

«Perché avresti dovuto chiedermelo? È tutta tua. Yuzo sarebbe stato felicissimo di vederti qui dentro.»

«Shuzo no, immagino.» Akio abbassò lo sguardo e poi lo spostò alla scala; vi poggiò contro la mano. «Shuzo non credo che ne sarà contento.»

«Shuzo si arrabbierà qualunque cosa tu farai, lo sai questo.» Yumeko tolse l’impermeabile e lo appese alla maniglia della porta della serra. «Quindi fai quello che senti sia giusto, non pensare a cosa dirà lui. Sulle prime, ti risponderà sempre male, perché stai andando contro le sue aspettative e visto che non sa come reagire, si arrabbia.»

«No, sì, questo lo so, ma-… ehi, che fai? Attenta, così ti sporchi!» Akio strinse le mani attorno alla scala, mentre lei saliva piano i primi pioli. Abbandonata sulla sommità c’era un’altra felce.

«Ti do una mano, non vedi? Completiamo la fila.»

Imperterrita salì ancora. Sporcare un vestito non era importante, quando si trattava della sua famiglia. Si era sporcata tante volte con Yuzo e Shuzo quando erano piccoli, tra parole, fatti e piante, ma mai con Akio. Le loro parole erano sempre state troppo pulite, asettiche, e l’unica volta che avevano vomitato fango era finita a minacce e fedi lanciate addosso. Avrebbero potuto sporcarsi un po’ senza tirare fuori il peggio, ma il meglio che ancora avevano in riservo l’uno per l’altro. L’amore sporcava dappertutto, come una tela impiastricciata con le tempere, era così che parlava: a rimanere bianco e puro significava che non aveva avuto nulla da dire, nulla da creare.

«Attenta.»

«Ma sì, ma sì. Pensi che non sappia salire su una scala?»

Yumeko si allungò, da tempo non aveva più paura né del vuoto né di cadere, con tante volte che si era schiantata; appese la felce e osservò il risultato con un sorriso soddisfatto. Scese di qualche scalino e si fermò alla stessa altezza di Akio; ora poteva guardarlo negli occhi senza alzare la testa. Si addossò ai pioli; una mano a sostenere il viso.

«Verrà bella come in passato, stai facendo un buon lavoro.»

«Ma non è detto che serva a qualcosa.»

«Magari no se ti distrai a pensare troppo.»

«Perché credi abbia messo su della musica, altrimenti?» Akio guardò verso il cellulare e lei fece lo stesso, abbozzando un tono di sottile presa in giro.

«Hai imparato a usare YouTube

«Me lo ha insegnato Miyoko-chan. Io non sapevo nemmeno a cosa servisse; lei ha scaricato la applicazione sul mio cellulare, per fare questo e quello. Boh.» Agitò una mano e si massaggiò il centro della fronte.

Yumeko assottigliò lo sguardo e il sorriso.

«Miyoko la nuova segretaria?»

«Sì.»

«Quella giovane e carina.»

«E troppo ficcanaso. Non sono abituato a tutta questa tecnologia non necessaria. Odio avere il telefono ingolfato di inutilità.»

Akio non diede segno d’aver colto il tono che lei aveva usato. Yumeko scandagliò con attenzione tra le rughe che gli tagliavano i lati degli occhi in solchi profondi; non ricordava quando fossero comparse, mentre aveva memoria di quella che affondava al lato della bocca: nata fin da giovane per il vizio del fumo, era diventata ora una specie di ferita di guerra in cui leggere il tempo che era passato, e le vicissitudini, le distanze troppo nette e i riavvicinamenti silenziosi e discreti, i dolori. Attorno a loro, il pianoforte di Ray Charles.

«Hai mai pensato come sarebbe stato rifarsi una vita con un’altra persona?»

Akio sgranò gli occhi. «Che dici?»

«Magari con una ragazza così giovane. L’occasione di ricominciare da capo.»

«No.»

«Sei sicuro?»

«Sono sposato con te. Perché dovrei voler ricominciare da capo? Con una bambina che potrebbe essere mia figlia, per giunta.»

«Il fatto che tu sia sposato con me, non significa che sia ancora quello che vuoi.»

Vedere il panico guizzare nelle sue iridi la lusingò, ma durò un attimo e fu sostituito da una consapevolezza antica.

«Cosa vuoi dirmi?»

«C’è stato un periodo in cui io l’ho pensato. È stato tanto tempo fa, queste rughe qui ancora non c’erano.» Yumeko sfiorò la tempia, vicino la coda dell’occhio. «Ero così arrabbiata con te, così amareggiata. Non ti riconoscevo nella persona di cui mi ero innamorata. Quando hai picchiato Shuzo avrei voluto distruggerti con le mie stesse mani. E tutte le altre volte in cui l’hai lasciato andare, avrei voluto fare lo stesso con te: abbandonarti come se non me ne importasse niente. Ho tenuto duro solo per Yuzo, per non dargli anche questo dispiacere, però credo che l’amore non dovrebbe perdonare tutto. Eppure, ho continuato a perdonare te, chissà poi perché…»

Yumeko era convinta che la risposta fosse nel bacio che gli diede subito dopo. Un gesto che in passato – quando lei era stata una margherita e lui una sequoia – aveva ripetuto tante volte con naturalezza ed emozione. Avevano perso tanto nelle incomprensioni, nei sentimenti sbagliati, ma quelli che avevano radicati nel petto erano sopravvissuti lo stesso. Tutti i cuori erano nodi di radici. I nodi a volte facevano male e quel dolore poteva trasformare l’amore in odio. Altre volte rendevano sicuri e si desideravano come l’aria per non trovarsi persi nel mondo. E l’odio tornava a essere amore, e con esso quei piccoli gesti animati dai sentimenti giusti.

«Queste rughe ti donano», sorrise. «Non le ricordavo.»

«Non ci siamo più guardati in faccia da tanto…»

«Anche se l’avessimo fatto dubito che ci saremmo visti davvero.»

Nascosti dietro ciò per cui strenuamente combattevano: il proprio orgoglio, i figli. Ma ora non avevano più nulla da difendere: l’orgoglio era stato abbandonato e i figli erano cresciuti, morti e risorti. Restava solo l’amore, e quello aveva già perdonato da tempo.

Yumeko accolse Akio nel calore del proprio abbraccio, stringendo quel nodo che non si era mai voluto lasciare andare, nella gioia come nel dolore. Lei, ancora ferma sulla scala, Akio in piedi con la testa sul suo cuore; ne sentiva il respiro incerto che abbandonava ogni positività vera o presunta, per mostrare le ombre delle insonnie notturne. Mentre accarezzava l’argento sempre più presente nei suoi capelli, attorno alla vita avvertiva la stretta forte che non voleva solo abbracciare, quanto serrare allo stesso identico modo quel nodo, per paura che potesse rischiare di sciogliersi ancora. Quell’abbraccio le ricordò il tempo di una gonna a ruota, di vecchie biciclette e spruzzi di mare contro i frangiflutti delle spiagge di Fuji City.

«Mi sto solo illudendo, non è così? L’ikebana, la serra…» Il sussurro di Akio parlò direttamente al suo cuore. «Non mi perdonerà. Lui non mi perdonerà. Qualsiasi cosa faccia, sarà sempre troppo tardi e sempre troppo poco. Ho perso il tempo in cui avrebbe potuto valere qualcosa… O il tempo ha perso me troppo a lungo. Credevo di essere il migliore, ma non ero nessuno. E ho ferito i miei figli. Ho fallito, deiji. Che devo fare, ora?»

Akio chiuse l’insieme nascosto dei suoi pensieri con un lungo rifiato. Il respiro inquieto di un uomo che non riusciva a trovare pace né sapeva darla a sé stesso.

Yumeko poggiò la guancia sulla sua testa, lo tenne più stretto. «Tentare ancora.»

 

§

 

Mamoru era arrivato in anticipo sull’orario accordato e si era già fatto portare un tè matcha. Glielo avevano servito con tre piccoli mochi di gusti diversi. Ma Mamoru non aveva fame e neppure molta sete. Passava l’attesa a guardarsi le mani e poi la gente attorno che beveva silenziosa, conversava, gustava il proprio dolce o stava al cellulare. Il cellulare era la stessa cosa che faceva girare nella mano, senza guardarlo né riuscire a rilassarsi.

L’ansia che qualcosa di spiacevole potesse profilarsi all’orizzonte lo lasciava pensieroso.

Poco prima di metà mattinata, e con una scusa riguardo al frutteto, aveva lasciato il Kokoro ed era arrivato a Nankatsu. Shuzo non aveva più pensato alle questioni della sua famiglia o, almeno, questa era stata l’impressione che ne aveva avuto, ma considerando la bravura di Malerba nel tenersi dentro le cose, Mamoru non ci avrebbe messo una mano sul fuoco.

Parlando con Yumeko, sperava di trovare risposte a quelle domande che Shuzo si ostinava a non voler porre perché doveva fare l’orgoglioso e l’arrabbiato. Doveva far vedere di essere il più forte, quello che ne sarebbe uscito vincitore, mentre l’uomo aveva deposto le armi e restava a guardare senza fermare la sassaiola della vendetta.

Quando scorse la figura della madre di Shuzo, Mamoru si alzò in piedi per farsi vedere. Yumeko ordinò qualcosa parlando con la cameriera che l’aveva accolta, poi lo raggiunse rivolgendogli un sorriso che a volte gli dava un senso di déjà-vu tanto forte da stringergli il cuore. Ma era questione d’un attimo e la stretta virava in malinconia, diluita e accettata. In quel momento fu lo stesso: ricordò Yuzo nel sorriso della donna e il petto punse in maniera intensa.

«Scusi se sono arrivato in anticipo e mi sono permesso di ordinare, Yumeko-san.»

«Di che ti scusi, caro? Piuttosto, deve essere qualcosa che ti agita parecchio se sei arrivato tanto in anticipo. Aspetti da molto?»

«Cinque minuti.» Ma sarebbe bastata un’occhiata attenta al tè che aveva smesso di fumare per capire che i minuti erano stati minimo dieci.

«E cos’è che ti preoccupa? Shuzo sta bene? Immagino non sappia di questo nostro piccolo incontro.» Yumeko lo guardò da sopra la carta dei dolci. Lui abbassò lo sguardo e si fregava le mani.

«Sta bene, ma immagina giusto. Se glielo avessi detto sa che sarebbe successo.»

«Sì, lo so. Dei chinsuko, grazie», disse infine, rivolta alla cameriera che si era approcciata silenziosa come una farfalla. Un inchino e volò via di nuovo. «Questa sala da tè è molto buona, ma preferisco i dolci di Kumi», aggiunse Yumeko, nascondendo quella piccola confessione dietro le dita e un tono più basso.

Mamoru si rilassò e tornò a girare il tè ormai freddo per smuovere quel po’ di polvere matcha che si era depositata sul fondo.

«In verità sono varie le cose di cui vorrei parlarle, ma prima di tutto, vorrei la sua totale sincerità su quanto sto per chiederle: c’è qualche problema con Akio-san?»

Mamoru tentò di interpretare il lungo sguardo della signora Yumeko. Sperava di capire la risposta ancor prima che lei ammettesse, in modo da prepararsi al colpo. Ma la signora Morisaki alla fine sorrise.

«Shuzo ti ha detto della sera in cui ci ha incontrato all’izakaya

«Sì, e anche se non lo ammetterebbe mai per orgoglio, testa dura o solo stupido infantilismo, è preoccupato per suo padre. Molto. Crede che lei stia nascondendo qualcosa sulla salute di Akio. È così?»

Yumeko nascose le labbra dietro l’intreccio delle mani; gli occhi, adesso, le brillavano di aspettative. «Davvero è preoccupato? Avevo notato che chiedesse più spesso di lui, anche in maniera trasversale, diciamo. Si è convinto che non me ne sia accorta; lo fa sempre.»

«Da che lo abbandonava al mattino per riprenderlo solo la sera, ora porta il cellulare ovunque. Lo ha sempre in tasca e mi è capitato più volte, durante la giornata, di sorprenderlo a guardare lo schermo. Credo si aspetti una sua telefonata in cui gli dica di andare con urgenza in ospedale.» Mamoru si passò le mani nei capelli. «Dobbiamo aspettarcela sul serio?»

La cameriera-farfalla tornò di nuovo ed entrambi si allontanarono dal tavolino, su cui avevano finito per appoggiarsi e avvicinarsi, attirati da ciò che volevano sentire l’uno dall’altro. A dividerli una teiera fumante di vetro, dove le foglie galleggiavano in infusione, era moderna dal manico in metallo, e un piattino con i biscotti richiesti dalla signora Yumeko.

Seguirono ogni suo movimento con gli occhi e quando la farfalla volò via un’altra volta, non tornarono ad avvicinarsi.

Yumeko aveva le mani sulle gambe e lo sguardo sul tè; sulle labbra aleggiava un sorriso che cambiava forma di continuo: più leggero, più profondo. Mamoru non sapeva come interpretarlo ed era nervoso, ma prima che potesse incalzarla ancora, la piega delle labbra assunse un’espressione definitiva e il suo sguardo familiare tornò a parlare con lui.

«No, nessuna tragica telefonata in arrivo. State tranquilli.»

Mamoru non trattenne il sospiro di sollievo, tanto da socchiudere gli occhi. Quando li riaprì sentiva che il macigno avuto sullo stomaco era sparito. «E allora che sta succedendo?»

«La vita è venuta a chiedere il conto. Ce n’è sempre uno più o meno salato che ci aspetta. Akio credeva di aver già pagato il proprio, ma non era così e ha cercato di tenere tutto per sé. Lo sai, che non è un tipo molto loquace.»

Mamoru annuì.

«La morte di Yuzo e il ritorno di Shuzo sono stati un po’ i colpi di scure che lo hanno abbattuto: uno da un lato e uno dall’altro. Credeva di poterli affrontare, ma anche una sequoia come lui cade se le accettate sono così profonde.» Yumeko aprì la teiera, inspirò l’aroma che saliva con il vapore e poi riempì la propria tazza. «Non me lo ha mai detto apertamente, ma credo abbia un esaurimento.»

Mamoru non nascose la sorpresa riflessa nella schiena tesa. Un’altra maschera cadeva, rivelando tutta la fragilità nascosta. Dopotutto, se i suoi figli erano bugiardi cronici, da qualcuno dovevano pur aver dovuto prendere.

«Ha cercato di far fronte alla cosa in maniera piuttosto rozza e imbranata, con i risultati di cui sai già. Mio marito sta cercando un modo per riuscire a sistemare i propri errori, però sa di non poter riavvolgere il tempo. Vedere che Shuzo respinge ogni tentativo lo abbatte, e quando cerca di rimettersi in piedi, lui lo abbatte ancora. Sembra un po’ un gioco al massacro, non ti pare? Si massacrano a vicenda: per ogni passo avanti, lasciano un pezzo alle spalle; un braccio, una gamba, una mano. I propri nervi.»

«Credevo che avrebbero risolto. Si ricorda? Alla prima cena tutti insieme a casa dei miei, qualche anno fa… Credevo fosse il punto di partenza definitivo, e invece, in tutti questi anni…» Allargò le braccia, cadde a peso morto contro lo schienale della sedia. Era stata una delusione vederli restare sempre allo stesso punto, quando era chiaro cosa volessero l’uno dall’altro. Aveva creduto fosse tutta colpa del rancore di Shuzo, del cannibale. E invece era la paura: non avanzava più di così perché aveva paura di ciò che avrebbe ottenuto.

«Anch’io l’avevo creduto, ma sono così spaventati…» Sulla fronte di Yumeko comparvero delle rughe. Teneva la tazza con entrambe le mani senza decidersi di portarla alla bocca. «Si sono fatti del male tante volte, da non sapere come riuscire a farsi del bene. Lo vorrebbero, ma temono di rovinare tutto.»

«Sono uguali.» Stizzito, Mamoru aprì e chiuse il pugno. Padre e figlio sfoggiavano quella cocciutaggine come fosse stata un trofeo. E lui aveva solo insulti, lì, sulla punta della lingua. «Quei due sono davvero… In maniera imbarazzante! Due enormi…»

«…cretini.»

«Grazie per averlo detto.»

Mamoru perse un po’ d’acredine con la risata divertita di Yumeko. Gli tornò anche l’appetito, e allora afferrò un mochi. «Gliel’ho detto più volte di chiamarlo, ma Shuzo fa come al solito: nicchia, si arrabbia, impreca e dice che non gli importa niente. E si aspetta anche che io ci creda.» Mangiò il dolce in un solo boccone; sollevò un sopracciglio. «Ha ragione. Kumi è più brava.»

«Non sai quanto mi renda felice sapere che si preoccupa per suo padre…»

«Io vorrei che lo ammettesse una buona volta, invece di fare l’idiota orgoglioso! E poi…» Scosse il capo. «Sua nonna paterna lo ha fermato.»

Yumeko fermò a mezz’aria il gesto di portare la tazza alla bocca. La sorpresa disse che non ne era al corrente. «Dove?»

«Fuori della scuola di ikebana. Pare che una delle sue allieve sia la figlia di una sorella di Morisaki-san.»

«Di Kozue, sicuro. Cosa ha detto sua nonna?»

Mamoru prese un respiro profondo. «Lo ha invitato a tornare alla casa di famiglia.»

Ora, se possibile, la signora Yumeko era sconcertata. Appoggiò la tazza nel piatto senza averla neppure toccata.

«Ha detto questo?»

«Sì.»

«E Shuzo cosa…»

«Che i Morisaki non sono la sua famiglia. Non tornerà.» Che era un po’ il riassunto edulcorato del discorso che avevano avuto. Mamoru pensò fosse sufficiente il concetto, senza tutti i folklorismi.

«Non me lo sarei aspettato. Akina, sua nonna, è una donna molto dura. Più Morisaki di un Morisaki, mi verrebbe da dire. È una sorpresa.»

«Tra la situazione con Akio e quella inaspettata con sua nonna, Shuzo ne è uscito un po’… frastornato, ecco.» Per non dire smarrito.

«Oh, non deve preoccuparsi per suo padre. Le cose stanno andando meglio, e immagino possano solo migliorare. Forse, il tempo che stavamo aspettando non è più così lontano.» Yumeko aveva ripreso la tazza con decisione, questa volta bevendo un sorso di tè. Sorrideva più a sé stessa che a lui, e Mamoru non capì.

«Sta prendendo qualcosa?»

«Credo, anche. Ma, soprattutto, ha trovato un hobby.»

«Un hobby?» fece eco, inarcando un sopracciglio.

«Sì», sorrise ancora Yumeko, ed era tanto smagliante da non aver timore di snudare i denti. Se i figli avevano ereditato tutte le ombre del loro carattere dal padre, da lei avevano ereditato tutte le luci. «Un hobby.»

 

§

 

Intorno alle cinque di un pomeriggio di giugno, Shuzo si sentì abbastanza sicuro da passare per casa dei suoi senza che la minaccia di trovare Akio lo fermasse. L’insieme dei ‘no’ che lo animava era piuttosto aggrovigliato e si era ingrandito da quando aveva parlato con sua nonna.

No, non voleva incontrarlo.

No, non voleva che Akio lo vedesse a casa.

No, non voleva assistere a un’altra scena come quella dell’izakaya.

No… non voleva scoprire in che modo stavano davvero le cose.

Forse a tutti quei no, la risposta più semplice sarebbe stata non passare per casa, eppure, trovandosi a Nankatsu per recarsi alla scuola, Shuzo aveva scelto di fare quella deviazione.

E lì, invece, entravano in gioco i . Molti di meno e meno complicati, ma allo stesso modo forti.

, voleva vedere sua madre.

, voleva vedere la casa in cui era cresciuto.

… voleva chiedere come stavano le cose senza sbilanciarsi troppo.

La richiesta di tornare alla minka di famiglia gli aveva messo addosso un desiderio bislacco che era andato avanti per giorni.

Tornare a casa.

Vedere cosa ne ricordasse.

Vedere quanto fosse cambiata nel frattempo.

E al solito affrontò quella questione con troppa leggerezza e sicurezza di sé stesso, tanto da guidare sciolto fino alla città e parcheggiare, addirittura, sapendo esattamente dove avrebbe potuto lasciare l’auto. Con la stessa disinvoltura scese dalla macchina e si incamminò.

Poi mise piede nel quartiere e qualcosa cambiò all’istante. Alle caviglie trovò due blocchi di pietra e nella mente una pioggia di déjà-vu che non gli dava tregua, lo bombardava da tutti i lati con suoni, odori, immagini.

I ricordi.

I ricordi lo crivellarono come un condannato a morte e lui rimase immobile, tra le villette dai giardini ampi e parcheggi personali da due o anche tre macchine, tra le abitazioni a doppio piano e i tetti spioventi, il legno, i cancelletti. Qualche cane che correva ai recinti per abbaiare allo sconosciuto di passaggio e poi quiete. Un silenzio composto che era diverso da quello di Obuchi quando calava la sera. Questo era pervaso di buon’educazione, scuole prestigiose e aziende da centinaia di milioni di fatturato. Un silenzio che non doveva farsi notare e stare attento a quello che gli altri avrebbero detto. Il silenzio del vicino è sempre più silenzioso.

Shuzo prese una lunga occhiata del posto, girando la testa da destra a sinistra, e i suoi occhi erano cinepresa della vita: giravano la panoramica della scena prima dell’ingresso del protagonista.

Entrò in quel vecchio mondo di cui era sempre stato disturbatore seriale e, assieme al silenzio, iniziarono ad arrivare i nomi.

I Sugawara che avevano il Pitbull, ma ora c’era un pigro Akita Inu che sonnecchiava e non alzava neppure la testa. I Manojirou e i Todashi; si erano poi sposati i figli? All’epoca della sua fuga dal quartiere si frequentavano già. I Sakurazuka in fondo alla strada con il grande cancello di legno dove non si riusciva a vedere niente di niente dell’interno, e poi… la casa della vecchia Saito, due abitazioni più in là rispetto quella dei suoi. Chissà chi ci viveva adesso. Shuzo si fermò, e nel momento in cui se lo chiese vide proprio quel cancelletto aprirsi e una signora con due bambini uscire, chiudere l’uscio alle proprie spalle e poi prendere la direzione opposta alla sua.

Si era forse aspettato che il tempo non sarebbe passato? O forse aveva sperato che potesse stravolgere tutto tanto da cancellare ogni residuo di ricordo per sovrascriverlo con altri nuovi di pacca?

Shuzo sospirò e quando guardò alla propria destra la sua casa era lì, dopo ventidue anni, con la sua struttura sempre uguale, con i suoi colori sempre uguali e l’aura al contempo accogliente e spaventosa. Sempre uguale, anche quella. Uguale alle volte che aveva avuto paura di tornarci, uguale alle volte che vi sgattaiolava dentro di nascosto a notte fonda per andare a trovare Yuzo. Anche le piante, più o meno, avrebbe detto fossero uguali. Di sicuro, lo era quel melograno che spiccava florido e spuntato ad arte.

«È ancora lì, tu pensa…» abbozzò un sorriso e un po’ non ci credeva. Era passato troppo da quando lui e Yuzo l’avevano piantato, era stato convinto che Akio se ne fosse sbarazzato, avesse cambiato le cose. Invece il tempo era solo shiftato, lasciando una patina sottile del suo passaggio, mettendo qualche ruga qua e là. Casa si portava bene i suoi anni e, purtroppo o per fortuna, portava bene anche i ricordi.

Togliendo le mani dalle tasche del chiodo, prese coraggio e orgoglio e suonò il citofono. D’improvviso lo colse il dubbio che sua madre non fosse in casa; non le aveva telefonato per avvertirla, sempre preda di quella sciocca sicurezza che l’aveva portato lì tronfio tronfio. Adesso sembrava più un palloncino sgonfio che Malerba, il mezzo teppista, mezzo maestro, tutto idiota.

Chi è? – gracchiò una voce, interrompendo le solite paranoie.

Shuzo sorrise. «L’Uomo Nero, mamma.»

Ci fu un momento di silenzio e poi il clangore della porta che veniva aperta. Yumeko comparve sull’uscio in tutta fretta e con ancora addosso le ciabatte di casa avanzò per il vialetto di due, tre passi.

«Shuzo…?» Masticò una sorpresa che lo intenerì. Si strinse nelle spalle e si fece vedere bene.

«A volte ritornano.»

 

“Una volta ho voluto essere il più grande.

Né vento né cascate avrebbero potuto bloccarmi.

E poi venne la scarica del diluvio,

le stelle della notte si trasformarono in polvere.

Mi sciolsero in una grande armatura nera.”

 

The Greatest – Cat Power

 

 


 

 

Note Finali: …è tornato a casa <3

Penso non ci sia niente di più forte come la sensazione di tornare a casa propria. ‘Casa’ per me è sempre stato un luogo fondamentale; nel bene e nel male lo è anche per Shuzo. Quella sensazione di ritrovare il vecchio che si era lasciato alle spalle, un po’ timore, un po’ eccitazione. Tantissima malinconia.

Shuzo rimette piede a casa Morisaki dopo ventidue anni di assenza (l’ha lasciata definitivamente che di anni ne aveva 15 e ora sono 37 T^T).

È tornato in quella casa di cui Akio si sta finalmente prendendo cura, soprattutto di quell’angolo dimenticato che era la serra. Ha sfondato il muro del distacco, dell’odio. Lo ha preso a picconate e ci ha aperto un buco abbastanza grande per passarci in mezzo e iniziare a scoprire quel mondo che non aveva mai voluto conoscere.

E intanto, Shuzo è casa… sapete che cosa vuol dire? :3

Scopritelo la prossima settimana! :D  

 

 

   
 
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