FIN.
Il ticchettio dell'orologio, dietro di me, serviva per ricordarmi che il tempo stava passando. E che stava passando molto piano. A pensarci bene, non credo di aver mai sentito il peso del tempo, non proprio, ma dovevo immaginare che questa sarebba stata la mia prima volta. Non ci avevo mai pensato, perché non ero stata abbastanza ottimista da pensare che sarei arrivata ad oggi. Eppure, mi avevano smentito così tante volte... che era diventata una vera stupidaggine, cavolo. Persino il mio riflesso nello specchio se la stava ridendo alla grande, mentre ripensavo al mio cosiddetto pessimismo cronico, che per anni mi aveva accompagnato.
«Sei nervosa?», mi chiese. Feci una smorfia con le labbra, spostando gli occhi verso di lui. Beh. Se ero nervosa.
«Sì, un po' sì», risposi. Dovevo ammetterlo. «Forse perché dovrò... mettermi a nudo di fronte a molte persone e... ».
Sorrise. «Non è nel tuo carattere. Su questo ci assomigliamo, eh?».
Annuii. «Siamo due gocce d'acqua, su queste cose, purtroppo». Ce l'avevano detto in moltissimi. Vidi il suo sguardo diventare benevolo, e fu abbastanza per farmi diventare felice – come una bambina.
«Non ti lascerò da sola. Non devi preoccuparti di niente».
Oltre quelle porte, c'era un lungo tappeto rosso.
Eccoci qua. Wow. Ci siamo.
Inspirai profondamente, mi ricaricai i polmoni, e mormorai un dannazione. Adesso ero pronta.
Così, camminai. Attraversai quella navata, tinta di un colore che forse non meritavo. Reggevo altre sfumature tra le mie mani, lasciandomi alle spalle sangue, lotte e spade che sapevano di tombe.
Andavo, guardando la strada che mi si presentava – con la decisione di percorrerla a testa alta. Osservando tutto ciò che mi appariva dinanzi, confrontando ogni singola cosa. Vedevo i vostri visi, vi vedevo ora, e i vostri sguardi mi accompagnavano, sospingevano lungo questo sentiero – dopo tutti questi anni, dopo che avevamo attraversato le montagne, adesso avremmo visto solo pianure.
E alla fine di questa lunga strada, c'eri tu. Ah, ora potevo sospirare di sollievo.
Sai... quando ero bambina, vivevo come se fossi in una gabbia. Non fu una mia scelta, è stata più una conseguenza. Niente del mio sangue era normale, no? – nemmeno vicino alla normalità. Non lo era per umani, per vampiri, per demoni, e nemmeno per dei.
Quelle sono strane creature. Siamo strani esseri viventi, eppure desideriamo cose tanto normali – come l'amore? Come, la lealtà? Calore. E io non ero niente di diverso.
Accettai in silenzio la solitudine.
Perché mi andava bene, era cucita dentro di me e l'accettai, perché pensai di meritarla. In questo modo, non fu mai difficile guardarmi allo specchio – guardandomi, potevo ricordarmi qualcosa di importante. Guardavo la mia immagine e dicevo: "Sì, sei ancora qui. Sei ancora qui". Era abbastanza.
Fino a quando non mi hai raggiunto. Le tue mani mi toccarono la schiena. Il tuo sorriso illuminò la mia anima perduta. I tuoi occhi mi sussurrarono.
Non potevi lasciarmi andare, a quanto pare. E io riuscii ad accettarlo.
Erano le mie cose normali. Il mio amore. La mia lealtà. Il mio calore.
La mia luna e il mio sole.
«Yuki», sussurrasti. «Sei così bella che non so dove guardare».
«I miei occhi sono un buon inizio. Siamo in una chiesa, comportati bene!».
«Okay», e ridesti. «okay, hai ragione. Te lo prometto. E io sono un uomo di parola».
Takeshi. Grazie.
Perché, alla fine di questa strada, tu c'eri ancora.