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Autore: Adeia Di Elferas    02/11/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il palazzo dei Salviati era in subbuglio da ore. Erano quasi le quattro del mattino, di quel 12 agosto, e nessuno riusciva a dormire, perché la padrona di casa, Lucrezia Medici, stava per partorire.

Quando erano cominciate le doglie, Jacopo era ancora nella sala delle letture assieme ai tre figli più grandi, Giovanni, Lorenzo e Caterina, di dieci, otto e sette anni, mentre la moglie, che per tutto il giorno aveva cercato di riposarsi, era già in camera.

La donna, quando aveva sentito i primi dolori, per lei ormai inconfondibili, aveva subito chiamato una serva, e, con lei, il marito.

Se il Salviati simulava una certa calma nei modi, la sua voce, di punto in bianco acuta come quella di un'educanda, tradiva tutta la sua agitazione.

“Ne abbiamo già avuti sette – gli ricordò a un certo punto la Medici, stringendogli la mano con forza, mentre la levatrice preparava il necessario – so come vanno le cose. Andrà tutto come sempre.”

L'uomo, pallido come un cencio, annuì senza avere la forza di dire nulla e, in rimando, Lucrezia gli strinse le dita ancora di più, quasi che fosse lei a dover dare coraggio a lui e non viceversa. La contrazione che seguì, la più forte dall'inizio del travaglio, le strappò però un grido che sprofondò il marito nel panico.

“Lo dico per te, Jacopo...” soffiò la Medici, mentre la levatrice chiamava a sé le sue assistenti e si preparava al parto ormai imminente: “Esci di qui... Se sverrai, non avranno tempo di soccorrerti...”

Il Salviati non se lo fece ripetere. Le diede un bacio sulla fronte, già calda e sudata e poi, malgrado tutto a malincuore, lasciò la camera e si andò a mettere appena fuori dalla porta, pronto a tornare dentro non appena ce ne fosse stato bisogno.

Aveva dato ordine che i figli più piccoli, Maria, che aveva appena un anno, Battista, di due, Luisa, di tre, e Piero di quattro e mezzo stessero sotto il controllo di una delle balie, mentre aveva permesso ai tre maggiori di aspettare lì con lui e con gli altri abitanti del palazzo.

Ormai, aveva ragione Lucrezia, avrebbe dovuto essere avvezzo a quel genere di attese. Eppure, benché fosse agosto e non facesse affatto freddo quella notte, Jacopo sentiva le ossa gelarsi e il cuore battere troppo veloce. Non poteva non dirsi che sarebbe andato storto qualcosa. Era sempre stato così: se poteva pensare al peggio, lo faceva, salvo poi tentare disperatamente di convincersi che sua moglie, la donna più forte che avesse mai conosciuto, fosse semplicemente impossibile da scalfire.

Mentre sentiva le sue urla attraverso la porta, però, l'uomo non poteva non sentirsi in colpa. Anche se era stata lei a insistere per avere un altro figlio – e, probabilmente, avrebbe fatto altrettanto anche dopo quella notte – lui non poteva non dirsi che, essendo il più vecchio tra i due, sarebbe spettato a lui suggerire che sette figli erano già abbastanza...

“Messer Salviati...” erano da poco scoccate le quattro, e le urla della Medici si erano spente da almeno mezz'ora, quando la levatrice, stanca, ma visibilmente soddisfatta, andò ad aprire la porta, per chiamare il padrone di casa.

E lui, cercando di scorgere già oltre le spalle della donna qualcosa, tra la luce fumosa delle candele e l'affaccendarsi delle serve, quasi non sentì la voce di Giovanni, Lorenzo e Caterina che chiedevano di poter vedere subito il loro nuovo fratello.

“Dovrai dire ai tuoi figli che hanno una nuova sorellina, non un nuovo fratellino.” sorrise, stremata, Lucrezia, quando lo vide correre verso di lei.

Come ogni volta, il Salviati volle per prima cosa accertarsi che la moglie stesse bene e, dopo averla baciata, pretese di vedere la nuova nata.

Stringendo al petto il fagottino caldo che ancora non riusciva ad aprire gli occhi abbastanza da ricambiare il suo sguardo, Jacopo si aprì finalmente in un sorriso disteso e, rivolgendosi a Lucrezia, le sussurrò: “Sono così felice... Lei è bella come te...”

Lucrezia, che dopo Maria si era attesa di avere un maschio, sollevò l'angolo della bocca e commentò: “Però ha il tuo naso.”

L'uomo non trattenne una risata e poi, rifiutandosi categoricamente di andarsene mentre le serve sistemavano meglio la moglie, chiamò la balia e le chiese di mostrare la piccola a Giovanni, Lorenzo e Caterina, in modo che potessero poi dire anche agli altri fratelli quanto fosse bella, la piccola Elena.

“Elena Maria...” sussurrò la Medici, quando, finalmente, lei e il marito rimasero un momento da soli: “Mi piace, questo nome.”

Jacopo, che aveva spinto molto per quella scelta, volendo omaggiare la memoria della madre, ravviandosi i capelli, sudati quasi quanto quelli della moglie, annuì e confermò: “Elena Maria Salviati. Suona molto bene.”

“Ricordati sempre che i nostri figli, per metà, sono Medici.” lo rimbrottò bonariamente Lucrezia.

“Non me lo scordo, tranquilla.” confermò lui, gonfiando orgoglioso il petto, quasi che quella consapevolezza lo rendesse un padre ancor più fiero di quanto non apparisse.

 

Dopo la prova muscolare data a Perugia, Giampaolo Baglioni aveva deciso di cavalcare la propria rabbia e approfittarne pure per mostrare ai suoi sudditi di quanta forza fosse realmente capace. E dunque, appoggiare Vitellozzo Vitelli – a cui era pure debitore, per il sostegno fondamentale che aveva fornito nel riprendere Perugia – e Paolo Orsini nel ternano gli era subito parsa un'occasione da cogliere al volo.

Così si era immediatamente schierato contro i Chiaravalle, i Savelli e i Colonna. Il pretesto, poi, per opporsi a quelle tre famiglie, era ideale: con i loro atti sconsiderati, stavano insanguinando l'Umbria. Cosa c'era di più nobile e valoroso, specie per famiglie guelfe, opporsi a un simile vilipendio di una terra fino a quel momento abbastanza tranquilla?

Altobello Chiaravalle era a capo dei nemici e il papa in persona aveva deciso che un esercito di tredicimila uomini, compresi quelli alle dirette dipendenze di Lucrecia Borja, Governatrice di Spoleto, andasse a combattere contro gli ottomila dei ghibellini.

Giampaolo aveva provato anche a coinvolgere il cognato, Bartolomeo d'Alviano, convinto che quella fosse per lui una buona opportunità per sguanciarsi un po' dal gioco veneziano e riottenere una certa popolarità in Vaticano. Questi, però, si era rifiutato, facendogli sapere che era già troppo impegnato e che, al suo posto, poteva raccomandare suo fratello Bernardino.

Il Baglioni sapeva bene che i due Alviano si conoscevano a stento, e che, probabilmente, Bartolomeo non aveva voluto scendere in Umbria per non ritrovarsi nelle terre che gli avevano dati i Natali. Perciò aveva fatto finta di credere alle scuse del cognato e aveva accettato di buon grado il sostegno di Bernardino d'Alviano, Abate, pronto a guidare parte delle truppe pontificie, inseguendo l'ambizione di farsi strada nei quadri dell'esercito papale.

Quel 12 agosto, tutto sembrava facile, a Giampaolo. Il castello di Lagusello, vicino ad Amelia, era quasi sguarnito, e in cielo si intravedeva un sole un po' pallido, coperto a tratti da nuvole sfilacciate e scure. Con quelle condizioni climatiche, l'assedio si era preannunciato fin da subito semplice.

“Adesso – aveva decretato Vitellozzo, ben prima che il castello cadesse, ma accorgendosi, come il Baglioni, che non era certo quella, la parte complicata della missione – non ci resta che schiacciare Altobello Chiaravalle.”

“Si è asserragliato con i suoi ad Acquasparta.” aveva commentato prontamente l'Abate Alviano: “E lì possiamo prenderlo solo se agiamo in fretta e con furia.”

Il Baglioni si era subito detto d'accordo, e Vitellozzo aveva dato il suo assenso con un breve cenno del capo.

Giampaolo, tuttavia, si chiedeva cosa avrebbe portato davvero, quella breve campagna. Se da un lato, fin dall'inizio, era stato certo che a lui sarebbe stata utile per mantenere meglio il potere a Perugia, dall'altro stava vedendo con i suoi occhi tanto l'Alviano quanto il Vitelli alzare la cresta, come due galli che combattono per lo stesso pollaio, dimenticandosi del lupo, ovvero il papa, unico vero proprietario delle galline.

“Trecento lance e mille fanti li ho lasciati da parte, per Altobello.” soffiò il Vitelli, appena prima di dare l'ordine di prendere una volta per tutte il castello di Lagusello: “E, tra chi sopravvivrà a questo assalto, faremo le nostre cernite. Non meno di diecimila uomini.”

“Non meno.” fece eco l'Abate, e, ancora una volta, al Baglioni parvero entrambi due illusi, convinti di poter farsi grandi di una guerra che stavano combattendo per altri.

 

La peste, a Firenze, si era come spenta. Era stata una cosa più veloce del previsto, molto più indolore di quanto avrebbe potuto essere, e Bianca, benché non avesse minimamente preso parte alla battaglia contro il morbo che si era combattuta all'esterno delle Murate, si sentiva ugualmente una vincitrice.

Nel monastero non c'erano stati grossi cambiamenti. L'unica cosa degna di nota era stato il non ritorno del giardiniere che curava i chiostri delle Murate. All'inizio nessuna delle monache aveva osato fare domande e poi, quando l'attesa aveva iniziato a farsi più evidente, Suor Elena aveva presentato loro il nuovo responsabile dei guardini e degli orti.

Bianca, nel momento stesso in cui l'aveva visto, aveva capito che la Madre Superiora l'aveva scelto con il medesimo criterio di quello precedente, dando molto più peso a qualità che con il giardinaggio avevano ben poco a che fare. E in effetti, prestante, di bell'aspetto e abbastanza giovane – anche se più maturo del suo predecessore – il nuovo manovale aveva subito suscitato un forte interesse nelle recluse.

La stessa Bianca, vinta dall'isolamento e dall'incertezza delle notizie che le arrivavano dall'esterno, aveva finito per cercarlo e provare in prima persona se il sostituto equivaleva o meno al vecchio titolare.

Forse per la situazione in generale, o forse perché una nuova disillusione la stava cogliendo, in quel luglio, alla Riario parve un amante accettabile, ma nulla di più. Le era bastato, ma se non fosse stato giustappunto utile a una distrazione di qualche ora, vitale, in un posto come quello, probabilmente l'avrebbe considerato non abbastanza, per lei.

Anche quella notte, per esempio, l'aveva reclamato per sé, eppure, non appena non le era interessato più, l'aveva mandato via con modi quasi bruschi, tanto avulsi da lei da ricordarle da vicino quelli di sua madre. Le era capitato di vedere la Tigre trattare con sufficienza gli uomini a cui si era concessa, ma fino a quel momento non l'aveva mai capita.

Arrivata la mattina, Bianca si era sistemata, si era vestita con il suo abito da suora, e poi era andata nella cella di Suor Ubbidienza che, come sempre, era stata felice di tenerle i bambini. Cornelia dormiva ancora, mentre Giovannino era ben sveglio, e giocherelleva da solo con un pupazzo che la sorella aveva cucito per lui qualche giorno addietro.

Il bambino, che ormai aveva più di due anni, era sempre più insofferente ai vestiti da femmina che gli venivano puntualmente messi, ma non tanto perché avesse coscienza della loro inadeguatezza, quanto perché di giorno in giorno si faceva più agitato e irrequieto, troppo per degli abiti tanto fini.

“Bianca!” esclamò, quando vide la sorella.

Mentre il piccolo, di colpo, mollava in terra il pupazzo e correva ad abbracciare la Riario, Suor Ubbidienza sorrise, dicendo: “Non ha fatto che chiedere di voi fin da quando si è svegliato... Parla poco, ma quando vuole essere insistente...”

La ragazza la ringraziò e poi, mentre anche Cornelia si svegliava e, riconoscendo la zia, tendeva le mani verso di lei per farsi prendere in braccio, commentò: “Ha preso da nostra madre... Poche parole, ma..!”

La monaca fece un sorriso di circostanza, in difficoltà come sempre, quando la giovane parlava della Leonessa di Romagna. Ufficialmente, lei non avrebbe dovuto sapere la vera identità né dei bambini, né di Bianca, ma era impossibile, ormai, fingere che fosse davvero così.

“Suor Elena mi ha cercata, questa mattina, prima delle preghiere...” disse la donna, mentre aiutava la Riario a prendere in braccio Cornelia, con buona pace di Giovannino, che, come sempre, si dimostrava molto geloso della sorella: “Mi ha detto di dirvi che, probabilmente, messer Fortunati tornerà presto a Firenze.”

Quella notizia, apparentemente innocua, fece accigliare la ragazza: “Sappiamo il motivo?”

Fin da quando il piovano era partito per Roma, Bianca aveva dato per scontato che ne sarebbe tornato o perché la Tigre era morta, o perché fosse stata liberata. Al momento, però, non le sembrava che fosse accaduta nessuna delle due cose.

“Non mi è stato detto.” ammise Suor Ubbidienza, alzando un po' le spalle: “Ma la Superiora non era di molte parole, oggi. Sembra che Pisa abbia attaccato Altopascio, e che ora anche Pistoia si stia levando in armi e...”

La Riario aveva sollevato una mano, per zittirla. Tutti quei discorsi, in quel momento, le sembravano solo una colonna di fumo che si disperdeva nel vento. Le sembrava tutto astratto e lontano. Specie se pensava che in quel momento, per colpa della confusione che regnava in Italia, sua madre languiva in una cella, forse senza cibo, preda della disperazione.

“Grazie ancora per aver tenuto i piccoli.” sussurrò la giovane e poi, dopo aver dato un bacio in fronte a Cornelia, si rivolse a Giovannino, chiedendo: “Hai dormito bene, stanotte?”

“Dormo meglio vicino a te.” rispose lui, con voce cupa, quasi ridicola, in bocca a un bambino tanto piccolo.

Suor Ubbidienza li salutò e poi li guardò uscire dalla cella. Sedutasi sul letto, con un sospiro, si chiese cosa sarebbe successo in futuro. Ormai si era affezionata a tutti loro, specie a Cornelia, che aveva curato fin da piccolissima. Se fossero andati via per qualche motivo, per lei sarebbe stato così penoso, dover dire loro addio...

 

C'erano voluti circa quattro giorni, per far breccia nelle difese di Acquasparta, e quel 16 agosto sembrava proprio che si fosse giunti alla battaglia finale.

Giampaolo Baglioni, dopo un paio d'ore dal primo assalto, si era reso conto che l'unica via per entrare in città e porre fine una volta per tutte all'assedio fosse sgretolare le mura con l'artiglieria.

Bernardino d'Alviano, in un primo momento, si era opposto, ma poi, su spinta di Vitellozzo, che si era messo a magnificare i loro pezzi d'artiglieria francese, aveva ceduto e aveva avvallato la decisione.

Altobello Chiaravalle, capito che ogni sforzo era ormai vano, e vedendo i suoi scappare, cercò la salvezza inoltrandosi nelle vie della città. Aveva combattuto strenuamente fino all'ultimo, si era anche guadagnato qualche piccola ferita, ma tutto il valore che aveva dimostrato non sarebbe servito a nulla, se non fosse sopravvissuto.

Non appena un boato accompagnò il crollo delle mura della città, Altobello capì di essere finito.

Gli pareva di sentire alle sue spalle l'alito fetido della morte, mentre correva, ruzzolando di quando in quando, perdendo l'orientamento, con i muscoli che non rispondevano più ai suoi comandi e la gola in fiamme.

“Eccolo! È là! È là! Prendiamolo!” le grida che cominciarono a circondarlo lo atterrirono.

Non erano quelle dei pontifici, ma quelle degli abitanti di Acquasparta, gli stessi che fino a pochi giorni prima lo appoggiavano. Adesso, invece, lo inseguivano brandendo bastoni, torce e forconi.

Trovò la via per un fienile, ma nel momento stesso in cui vi si infilò, illudendosi di potersi nascondere sotto al fieno, sentì delle mani afferrarlo per le braccia e trascinarlo via.

Quando Baglioni e Vitelli arrivarono nella piazza, trionfanti, il Chiaravalle era già stato catturato dai suoi stessi sudditi. Senza che vi fosse bisogno di ordinarne la morte, il popolo l'aveva legato e si stava iniziando a linciarlo.

“Sono un povero compagno..!” provò a gridare Altobello, sperando, ormai privo di armatura e con gli abiti stracciati, di poter passare davvero per un contadino.

Giampaolo fu impressionato dalla reazione della folla. Sempre senza che vi fosse necessità di orchestrare alcunché, tutti i presenti cominciarono a picchiarlo, fino a farlo a pezzi, mentre ancora le sue grida squarciavano l'aria.

Vitellozzo era molto disinteressato a quello scempio, mentre Bernardino d'Alviano sembrava molto divertito da tutta la situazione, tanto, almeno, da indicare sghignazzando due contadini che si stavano portando via rispettivamente un piede e una gamba del Chiaravalle.

Quando anche la testa venne strappata di forza dal collo di Altobello, qualcuno accese un fuoco in mezzo alla piazza e si cominciò ad abbrustolire le carni del mal capitato. Tutti ne volevano un pezzo.

Al Baglioni, che pure era sempre stato considerato da tutti un pazzo sanguinario, quella scena diede il voltastomaco. Dopo aver vomitato, chiede scusa agli altri e si allontanò.

Il Vitelli, invece, spinto dalla curiosità di vedere fino a che punto la gente di Acquasparta si sarebbe spinta, rimase, e così fece l'Abate, che, infervorato, batté le mani di eccitazione, quando una vecchia, curva e sporca, prese il cuore di Altobello e, dopo averlo appena scottato sulla fiamma, lo morse.

“Sparviera! Sparviera!” l'acclamarono subito tutti, e anche l'Alviano fece eco a quel grido.

“Quando questa trovata da guitti sarà finita – fece Vitellozzo, cominciando a trovare disgustoso l'odore della carne umana sul fuoco – voglio che vengano decapitati tutti i fuoriusciti di Todi, Terni e Narni.”

Bernardino d'Alviano, che sapeva di essere subordinato al Vitelli, ma che non voleva comportarsi come se fosse così, ribatté, secco: “Datelo voi l'ordine, perché lo dite a me?”

Vitellozzo sospirò e poi, sollevando la mano con sdegno, convenne: “Avete ragione, i comandanti devono comandare, non i cani...” e poi, voltandosi verso la sua guarnigione ristretta, soggiunse: “Si metta subito a sacco la città. Non possiamo tollerare questi comportamenti barbari. Che ogni casa venga saccheggiata e bruciata, e così il castello. Non tollereremo altri disordini.”

 

“Ho detto che vi cercano.” insistette Cesare, guardando fisso Lucrecia, e poi dedicando un'occhiata anche a Sancha: “Trovo di cattivo gusto ignorare così le vostre dame di compagnia. Qualcuna di loro potrebbe offendersi e sarebbe un peccato, se nascesse qualche incidente diplomatico proprio ora che nostro padre sta portando avanti un progetto tanto complicato... E poi l'avete detto voi stesse, no, che Alfonso sta bene? Se per qualche minuto resta solo con il suo gobbetto e i suoi medici, di certo non morirà...”

In effetti negli ultimi giorno l'Aragona era anche riuscito a fare qualche passo da solo, portandosi fino a una delle finestre che davano sulla vigna. Anche se la Borja stentava a crederlo, era probabile che a breve si sarebbe rimesso del tutto.

“Un attimo solo...” fece lei, tornando un istante in camera e avvicinandosi al marito: “Devo uscire qualche minuto, torno subito.”

Alfonso avrebbe voluto dirle di no, imporle di stare al suo fianco, ma la sua stanza era affollata di uomini, tutti napoletani e fidatissimi, quindi si sentiva abbastanza tranquillo.

“Va bene.” le sussurrò: “Ma fai presto.”

La ragazza gli diede un veloce baciò sulle labbra e tornò alla porta. Però, già mentre era a metà strada, verso gli alloggi delle sue dame, avvertì un brivido gelido lungo la schiena. Si impose di ignorarlo e continuò a camminare.

Nel frattempo, dopo che il Valentino se n'era andato augurando al ferito una buona giornata, l'Aragona aveva socchiuso gli occhi. Era pomeriggio, ed era il 18 agosto: faceva molto caldo e lui si sentiva stremato. Quella mattina aveva provato di nuovo a muovere qualche passo e, anche se ci era riuscito, quello sforzo gli era costato molto.

Si stava quasi assopendo quando la porta si aprì di schianto e vide entrare Miguel de Corella a capo di un manipolo di soldati armati fino ai denti.

Tutti i presenti si appiattirono contro la parete, come se in camera fosse appena apparso il diavolo in persona, e nessuno osò parlare prima che lo facesse lo stesso Michelotto: “Sappiamo che sono i Colonna ad avervi armato, per uccidere il papa e suo figlio Cesare.” disse, in un italiano un po' stentato, ma comunque temibile: “Sappiamo che voi – soggiunse, guardando verso Alfonso – vi siete permesso di puntare una balestra contro vostro cognato, mentre lui era nella vigna.”

“Ma che state dicendo?” provò a ribellarsi l'Aragona: “Non riesco nemmeno a stare in piedi e a mangiare da solo... Come potrei sollevare una balestra?!”

“Arrestateli tutti.” ordinò Miguel, come se il genero del pontefice non avesse nemmeno aperto bocca.

Mentre i soldati si avventavano sui malcapitati, compresi messer Galiano, il chirurgo, e messer Clemente, il medico, Alfonso riuscì a dare qualche grido d'allarme.

Lucrecia e Sancha, non ancora abbastanza lontane da non sentire, si scambiarono un'occhiata atterrita, e, senza bisogno di dire nulla, invertirono il senso di marcia, sollevando appena le sottane per poter correre più veloci verso gli alloggi di Alfonso.

“Che cosa state facendo? Che succede?!” chiese la Borja, non appena arrivarono alla stanza, trovandola chiusa.

Michelotto, che svettava come una montagna davanti all'uscio, spiegò dell'arresto e delle motivazioni che l'avevano dettato, per concludere: “Sto solo facendo quanto mi è stato ordinato. In realtà non ho altre informazioni, se non il motivo che vi ho detto già.”

Le due donne, sempre più concitate, si misero a gridare, passando dal chiedere pietà per Alfonso, ad avanzare minacce di ogni sorta se non le avesse lasciate entrare immediatamente in stanza.

Dopo almeno dieci minuti di rimostranze, fingendosi vinto dal fervore delle due giovani, Miguel de Corella sospirò e concesse: “Perché non andate dal pontefice, che in questo momento è là – e indicò una porta poco più avanti – e non sollecitate voi stesse la liberazione dei prigionieri? Fate in fretta, però, perché altrimenti dovrò portarli nelle segrete.”

Guardandosi ancora una volta, come fatto poco prima, le due donne non sentirono il bisogno di parlarsi: quanto proposto da Michelotto pareva loro la cosa migliore da fare.

Miguel le osservò rimettersi a correre e attese di vederle sparire laddove aveva detto loro di cercare il papa. Sgombrata la strada, quindi, andò dritto come una freccia.

Tornato nella stanza dell'Aragona, si chiuse la porta alle spalle e avanzò lentamente verso il letto di Alfonso. Questi, pietrificato, aveva capito cosa stesse per accadere. Non poteva credere, non poteva proprio credere, che Lucrecia fosse caduta in un simile tranello, lasciandolo di nuovo solo...

Chiamando a sé le sue poche forze, il ragazzo lasciò le lenzuola e si mise in piedi. Era tutto inutile, lo sapeva, ma non voleva morire steso come un vecchio: sarebbe morto in piedi, da uomo.

Fece appena in tempo a formulare quel pensiero, che le mani grosse e ruvide di Miguel trovarono il suo collo. La stretta fu veloce, così forte da spezzargli subito l'anima. Alfonso cadde in terra con un tonfo sordo, e una mano appena sollevata, come a cercare di chiamare qualcuno, forse la sua Lucrecia.

La Borja e Sancha stavano già tornando. Non appena videro, però, la porta sbarrata da un manipolo di soldati, entrambe capirono subito cosa fosse accaduto.

Avevano alle loro spalle dei portavoce del papa – il pontefice, purtroppo, non era là dove Miguel aveva detto – ma ormai anche la loro presenza appariva del tutto inutile.

“Cos'è successo?” chiese Lucrecia, trattenendo a stento le lacrime, mentre il Corella usciva e le fronteggiava.

“Vostro marito è morto.” disse l'uomo, senza scomporsi, ignorando le grida disperate e il pianto di Sancha e, altrettanto, il cupo e sordo dolore della Borja, tanto stordita da non saper nemmeno versare una lacrima: “Purtroppo è caduto accidentalmente, ha avuto un'emorragia ed è morto.”

“Voglio vederlo.” disse in fretta Lucrecia, mentre alle sue spalle i portavoce di suo padre cominciavano a parlottare.

“Non si può.” concluse lui, perentorio: “Tornate nei vostri alloggi.”

Il papa stesso impedì a Lucrecia e a Sancha di vedere il corpo di Alfonso. Disse che lo faceva per proteggerle, per risparmiare loro una vista tanto orrenda, affinché ricordassero l'una il marito e l'altra il fratello come il giovane biondo e pieno di vita che avevano sempre amato.

Di fatto la Borja immaginava il motivo di tanta segretezza: l'Aragona non era caduto, non era morto dissanguato. Probabilmente nel suo corpo c'era il foro di uno stiletto, o attorno al suo collo il segno cadaverico delle dita di Miguel de Corella...

Quella sera stessa, al lume di venti torce, accompagnato da qualche frate orante, dall'Arcivescovo di Cosenza – lo stesso che aveva che aveva battezzato qualche mese prima il piccolo Rodrigo – e pochissimi altri, il feretro del Duca di Bisceglie venne portato a Santa Maria delle Febbri, una delle chiese più piccole, buie e tristi di Roma.

 

“Come mai oggi mi avete portato da mangiare così tardi?” Caterina non si aspettava di ricevere risposta alla sua domanda.

L'aveva posta più per avere l'illusione di parlare con qualcuno, dopo tutte quelle ore di solitudine, che non per avere una reale delucidazione. E, invece, il soldato che le aveva lanciato dentro la ciotola di zuppa fredda, ebbe un attimo di esitazione.

Siccome la donna non aveva visto richiudersi subito lo sportellino attraverso cui le era stato servito il pasto, insistette: “Deve essere successo qualcosa di grave, se nessuno si è ricordato di me... In fondo, fino a poco fa, ero la preda più ambita di tutta Italia...”

Il ragazzo – perché tale era, dalla voce – dall'altra parte della porta, ribatté: “Se sapeste... Se sapeste..!”

“Ditemelo e lo saprò.” ancora una volta, la Tigre nutriva in realtà poco interesse per qualsiasi cosa stesse accadendo fuori dalla sua cella buia e umida, ma voleva trattenere quella parvenza di contatto umano finché poteva.

“Il Duca di Bisceglie...” rispose il soldato: “Alfonso d'Aragona, lo sposo di Madonna Lucrecia, è morto ieri pomeriggio...”

Quella notizia frenò di colpo la lingua della Sforza. D'improvviso cercare qualcuno con cui scambiare due parole non era più la sua priorità.

“Com'è morto?” chiese, dopo un po', vedendo che il soldato non aveva ancora chiuso lo sportellino.

“Dicono siano caduto...” rispose lui, incerto.

La Leonessa fu certa che il povero Alfonso fosse stato ucciso. E avrebbe anche saputo dire da chi, o, se non altro, per conto di chi.

“Fate le mie condoglianze a Madonna Lucrecia.” disse piano, pur sapendo che di certo un soldato addetto alle carceri mai avrebbe potuto avvicinare davvero la figlia del papa.

Pensando la stessa cosa, il ragazzo chiuse finalmente lo sportellino, lasciandola da sola con il suo misero pasto.

Caterina cominciò a sorbire la zuppa – dal gusto così indefinibile da farle quasi venire nausea – e provò a immaginare il volto di Alfonso d'Aragona. Se assomigliava ai suoi parenti, di certo era stato di bell'aspetto, probabilmente biondo e con due occhi da bambino, ma svegli come quelli di una lince.

Non sapeva dire quanti anni avesse di preciso, ma di certo non arrivava ai venti.

Senza preavviso, la donna si trovò a provare per lui una pena così profondo da scoppiare a piangere. Singhiozzava tanto forte da non riuscire nemmeno più a mangiare.

Che cosa crudele, pensava, che anche un ragazzo così giovane, con ancora tutta la vita davanti, fosse caduto nella tela del Valentino... Perché di certo era stato lui, a volerlo morto. Cesare era come un diavolo, capace di far marcire tutto quello che toccava.

Stava facendo marcire lei in gabbia e ora stava facendo marcire il cognato in una tomba...

Finendo a fatica la sua ciotola di zuppa, la Leonessa si asciugò le lacrime, senza riuscire, però, a levarsi dalla mente un paragone forse azzardato, ma che a lei sembrava perfetto. Così come Cesare Borja aveva portato a una morte prematura il cognato, probabilmente per gelosia, così anche il suo Giacomo era stato condotto alla tomba giovane, troppo giovane, da Ottaviano e, anche in quel caso, volendo scavare nel profondo, era stata la gelosia a guidarlo.

Con il ricordo di Giacomo che si faceva via via sempre più presente, Caterina tornò a mettersi contro la parete, e, guardando verso l'altro, messa sull'attenti dal rimbombare di un tuono in lontananza, forse foriero di un nuovo temporale, si chiese che senso aveva essere ancora viva.

Avrebbe preferito mille volte essere al posto di Alfonso. Almeno, si diceva, sarebbe già stata di nuovo tra le braccia dell'uomo che aveva amato più di chiunque altro: il suo Giacomo.

   
 
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