Anime & Manga > Sailor Moon
Segui la storia  |       
Autore: Miss Demy    03/11/2020    8 recensioni
C'è un'età per l'amicizia, per l'affetto fraterno, per le confidenze, e un'età per l'Amore capace di far scalpitare i cuori e mandare in tilt il cervello.
Tra l'amicizia e l'Amore, alcune volte il passo può essere breve, altre impiega più di dieci anni. E se razionalmente non fosse giusto? Ascolta il tuo cuore, non c'è nient'altro che tu possa fare.
Dal cap.1:
Un colpo di tosse li destò da quella pericolosa lite.
Voltandosi verso l’arco che collegava il salone al resto dell’appartamento, gli occhi spalancati e imbarazzati di Hana li osservavano. Non era l’unica.
Setsuna, aveva assistito. Era curiosa di ascoltare come il suo fidanzato avrebbe giustificato quella scena che lo vedeva ancora in ginocchio, tra le gambe dischiuse di Usagi, cingendole la vita e con il viso a pochi centimetri di distanza da quello della ragazzina. Che nervi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mamoru/Marzio, Nuovo personaggio, Setsuna/Sidia, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
blend-ufficiale-Listen


Capitolo 6: Flashback – parte seconda
 
Il giorno in cui aveva conosciuto la nuova vicina di casa, lei era intenta a spazzolare i capelli della sua bambola; gli era passata accanto, incrociandolo all’ingresso del palazzo e superandolo, come se lui fosse stato invisibile. In fondo era una bambina, non prestava attenzione ai ragazzi. 
Il giorno dopo, non si sarebbe mai aspettato di ritrovarla. In casa propria. Di nuovo concentrata. Quella volta, in una conversazione con gli scacchi che Hiroshi faceva avanzare da solo in vista del torneo.
Aveva sorriso divertito guardandola mentre usava gli alfieri a mo’ di cavalli galoppanti. Avrebbe rinunciato a uscire per una settimana di fila pur di vedere la reazione di suo padre; che cosa avrebbe detto a quella pestifera lui che raccomandava sempre di stare attenti a non spostare i suoi scacchi in corso di partita? 

Era entrato in casa e quella birbante lo aveva ignorato di nuovo; lui non se ne era capacitato, non gli era mai piaciuto essere considerato invisibile. 
Aveva deciso di sfidarla con l’intento di attirare la sua attenzione. Chiamarla per nome, solamente, avrebbe potuto non sortire effetto, in fondo non conosceva le reazioni di quella sconosciuta.
Aveva preferito stuzzicarla con una linguaccia e si era sentito soddisfatto, finalmente di nuovo visibile, quando lei era arrossita in un misto tra imbarazzo e vergogna. 

La parte bella era arrivata dopo, quando la piccola timidina lo aveva ripagato con una linguaccia rumorosa di chi vuole colpire per bene. Le sue guance paffute e rosse avevano donato a quel viso d’angelo un aspetto divertente e lui, dopo diverse settimane oramai, aveva riso di nuovo. 
Usagi Tsukino era diventata la sua coniglietta, da provocare con battute e dispetti per poter rivedere le sue facce buffe e sentirsi allegro. Era simpaticissima, una faccia di luna piena, rotonda come un ovetto pronto a scoppiare. 
 
L’imperiosa distesa di alberi verdi che si propinava all’orizzonte ritornò ad attirare la sua attenzione. Con gli occhi seguì le foglie dalle molteplici sfumature; gli apparvero simili a smeraldi che il vento smuoveva creando un suono rilassante. La brillante vegetazione conduceva al Monte Fuji; dietro la cima, il Sole dalle tonalità rossastre iniziava a scomparire, l’arancio e il rosa si fondevano attorno all’astro morente mentre il cielo assumeva un colore azzurro intenso. 
Che panorama mozzafiato.
Chiuse gli occhi, il fruscio delicato era in grado di placare il suo animo, lasciando spazio al barlume di nuove consapevolezze che negli ultimi giorni si era acceso in lui.
Usako faccia di Luna era diventata grande. Da molti atteggiamenti era rimasta quella bambina intenta a rincarare la dose dei dispetti subiti, eppure era accaduto davvero, e lui avrebbe dovuto pagare il prezzo di quella realtà.
Ma quando è diventata donna? Come ho fatto a non accorgermene prima?
Come sempre, anche quella volta aveva chiesto alla sua mente di guidarlo nella ricerca verso le risposte. Non era semplice trovarle e, per ovviare, aveva intrapreso un nuovo sentiero.
Quando avrei dovuto capire che Usa non è più né una bimba né una ragazzina?
Aveva preso il capo iniziale di un filo invisibile ed era andato a ritroso. Ricordare era troppo impegnativo; non aveva mai fatto caso a quel tipo di cose con Usako. Decise di concentrarsi almeno sugli ultimi giorni. 
Usagi aveva offerto opportunità per permettergli di accorgersene? 
Gli apparve, come una scintilla nel buio dei ricordi, la sera di ritorno dall’altura. 

L’aveva fissata per tutto il tempo, incredulo, notando i suoi occhi colmi di lacrime e delusione; le sue labbra erano gonfie, maltrattate; il volto intriso di amarezza e dolore. Quando però lui aveva cercato di confortarla, lei si era voltata verso di lui, attenta alle sue parole, e finalmente l’aveva notata rasserenata. 
Non aveva saputo spiegarselo neanche lui, eppure la luce, che quel viso sofferto e quegli occhi azzurri e spenti avevano emanato, lo avevano fatto sussultare. 
Quella Usagi impaurita, che era stata abbandonata, che a quasi ventun’anni non riusciva a fare l’amore ma che si calmava lasciandosi cullare da lui, gli aveva fatto tremare il cuore per un istante. Erano solo quelle emozioni che riusciva a ricordare. 
Era così bella in quel dolore che aveva cercato di medicare attraverso il dialogo con lui, di lenire con la sua presenza, che non aveva potuto dissolvere quelle sensazioni mai provate con lei, e incapace di spiegarsi, attraverso una mera battuta. 
Usagi, con il viso dispiaciuto ma la luce della speranza che le brillava negli occhi, era incantevole e a lui non era importato se quando gonfiava le guance in preda ai dispetti era simpatica e lo rendeva allegro perché quella sera, Usagi, con quella inconsapevole e non ordinaria bellezza, lo aveva abbagliato più del chiaro di luna.  
Forse era stato per quello che la sera successiva aveva deciso di non prenderla in giro per la sua infantile paura dei tuoni. 
Forse, egoisticamente, aveva avuto bisogno di riprovare quelle inspiegabili e non razionalizzabili emozioni. Gli era apparsa di nuovo sofferente e quella volta non perché lo avesse ostentato come un capriccio, anzi, ricordava come avesse provato a fingersi serena, a mostrarsi matura. 
Usa, però, era un libro aperto; le sue espressioni malinconiche mentre stringeva il cuscino al seno e lasciava che la veste le scoprisse le gambe erano state una visione che aveva scosso tutto il suo essere. Era così inspiegabile quando lasciava i capelli finalmente sciolti. La sua ingenuità e quei modi infantili, fusi a espressioni distratte, la rendevano sensuale anche se lei non si rendeva conto dell’effetto che provocava senza neppure volerlo. 

Ma che stava pensando?!
Ebbene sì. Doveva accettare la realtà. Usagi Tsukino era diventata una bellissima ragazza sensuale. 
“Okay, Mamoru, è diventata una gnocca mentre tu eri distratto dalla tua vita, ma quando è diventata adulta? Perché ti logori il cervello alla ricerca del momento in cui hai capito che iniziavi a vederla come una bellissima adulta? Che poi, a che ti serve questa consapevolezza?” 
Il filo invisibile della ragione lo aveva condotto a nuove ricerche. 

Era accaduto giovedì mattina. Era tornato a casa per fare una doccia dopo aver trascorso la notte del post intervento con Usagi. 
Setsuna era in cucina avvolta nella sua vestaglia di raso viola che le lasciava scoperte le gambe ambrate, la stanza impregnata del profumo del suo tè ai frutti rossi. L’aveva raggiunta, abbracciandola, pronto a prendersi un bacio tanto agognato, ma lei aveva continuato a impugnare la sua tazza dal liquido fumante, scostando le labbra prima che lui potesse premerle contro le proprie in cerca di tenerezze, del loro buongiorno. 
Aveva aumentato la distanza tra di loro prima di voltargli le spalle. Lui era rimasto per qualche minuto immobile, poggiato al tavolo, sentendo la porta della stanza da letto richiudersi. 
Sets aveva il turno, di certo non aveva tempo per le ripicche emotive, stava per vestirsi aveva presunto. Ma perché chiudersi in camera? 
Aveva dovuto ammettere che lei aveva messo in atto un silenzio offesa. Che lui avesse trascorso la notte in ospedale con Usa a lei non era passata. Neanche fosse stato con amici a fare baldoria o in compagnia di un’amante, aveva pensato istintivamente. 
Quella volta non si sarebbe giustificato pur di evitare i suoi atteggiamenti, si stava stancando di quelle prese di posizione. Quella reazione era stata inaccettabile dopo averle dimostrato che per amore suo aveva deciso di partire ugualmente per le terme di Hakone. Il pensiero di Usa in convalescenza e di sua madre a doversi occupare di qualunque problema lo avevano tormentato, avrebbe preferito restare reperibile in città ma per Sets si era fatto coraggio lasciando il suo senso di responsabilità in un angolo della sua mente.
Aveva sbuffato, stanco di combattere guerre assurde, ed era andato a farsi una doccia prima di riprendere a lavorare. Quando aveva riaperto la porta del bagno, la casa era vuota.
Sets non lo aveva aspettato. 
Aveva iniziato a sentire il sangue ribollire nelle vene, una rabbia che nasceva da dentro, agitando il suo animo, e che cercava di lasciar uscire attraverso respiri affannati. La parete del corridoio gli era apparsa perfetta per sferrare un pugno e potersi sentire meglio subito dopo. Se non avesse dovuto lavorare con le mani, lo avrebbe fatto.
Aveva sospirato, affondando le dita tra le ciocche dei suoi capelli.


Il traffico di quella mattina era stato più intenso del solito; a causa di un incidente, le auto avevano dovuto procedere a rilento. Si era sentito come una molla pronta a saltare, una bomba a orologeria in fase di esplosione. 

Era arrivato al desk delle infermiere del reparto con venti minuti di ritardo; la prima cartella clinica era proprio di Tsukino Usagi. Il nervoso gli aveva allargato le labbra in un sorriso di incredulità inducendolo a battere velocemente i polpastrelli sul bancone in cerca di uno sfogo. 

Setsuna l’aveva lasciata a lui di proposito. Che scema. 

Usagi era apparsa alla sua visuale non appena aveva varcato la stanza 3006. Era seduta sul letto, le gambe ricoperte dal vassoio per la colazione. Era così intenta a seguire i dialoghi tra i personaggi del suo telefilm preferito, nella tv di fronte a sé, da masticare lentamente ciò che mancava alla fetta biscottata nella sua mano. Aveva un’espressione assorta, incorniciata da lunghe ciocche che le accarezzavano le braccia scoperte. 
Quella scena gli aveva mostrato una ragazzina tenera che, nonostante i presunti drammi, conduceva una esistenza estranea ai problemi di cui lui si faceva carico. Quella consapevolezza gli aveva disteso le labbra in un sorriso, permettendo a una insolita energia di vibrare intorno al suo cuore.
Per la prima volta, quella mattina, era riuscito ad allentare la tensione accumulata fino a quel momento. 
Aveva avanzato nella stanza; lei si era voltata, le labbra distese dalla serenità che provava quando lui arrivava, una luce diversa sprigionata dalle sue iridi azzurre. Lui percepiva i cambiamenti dell’umore di lei e, per quella ragione, aveva deciso di farsi presenza, nonostante tutto.
«Buongiorno, Dott. Chiba» lo aveva accolto con tono di chi volesse giocare, scrutandolo nel suo camice bianco; la sua voce aveva vibrato su alte frequenze. 
Lui aveva sorriso. Era strano sentirsi chiamare in quel modo da Usako.
«Come sta la mia paziente preferita?» Era stato al gioco, ponendosi con un tono professionale, mentre la testa si abbassava verso i fogli della cartella in cerca delle ultime analisi. 
«Mi sento meglio» lo aveva rassicurato lei, ma la sua voce era stanca, debilitata. Usagi che non si lamentava lo aveva sorpreso.
«Tu, invece, come stai, Mamo-chan?»
Era stato strano di nuovo. Aveva lasciato uscire una sottile risata che gli aveva incurvato le labbra serrate. I suoi occhi si erano sollevati dai valori delle analisi incontrando le iridi di lei, fisse su di lui in attesa di una risposta interessata. Usagi si preoccupava veramente per lui, era il volto curioso e serio che glielo rivelava. 
«Sto bene, piccola» l’aveva rassicurata, mentre una carezza invisibile aveva sembrato confortare la propria anima, rendendola più leggera. «Scusami, ma da quanto in qua è il paziente che domanda sulla salute del medico?»
Il suo tono era diventato ironico; scherzare con lei aveva il potere di calmarlo. 
«Sei rimasto qui tutta la notte per me, e adesso devi lavorare. Sarai distrutto, Mamo-chan.» Il suo sguardo colpevole e l’espressione dispiaciuta dipinta su quel viso etereo gli avevano incendiato il cuore. 
Era riuscita a spiazzarlo per la terza volta di fila. Quella non era la solita Usagi; che fine aveva fatto la sua amica? E chi era quella dolce e attenta ragazza che riusciva a metterlo in soggezione, a sorprenderlo con delle semplici frasi di affetto, in quella situazione che la sua amica avrebbe di certo reso più difficile? Le sue parole erano state di riconoscenza e premure. Setsuna, invece, non gli aveva chiesto nulla, aveva giocato a fare l’offesa e a fargli saltare i nervi.
«Il labbro sta guarendo» le aveva fatto notare, non sapendo cosa risponderle. 
Usagi aveva annuito, un sorriso triste, malinconico, sofferto. L’aveva vista spingere con le mani il carrello del vassoio verso i piedi, scostando il lenzuolo che le ricopriva le gambe. 
«Che stai facendo?» Lui aveva continuato a scrutarla con attenzione. 
«Devo andare in bagno» gli aveva chiarito, mettendosi seduta, voltando il busto e le gambe e cercando con i piedi le pantofole.
Lui l’aveva percepita debole dal tremolio delle sue braccia mentre cercava di poggiare le mani al materasso, in cerca di un sostegno per alzarsi; lo sguardo basso sulle gambe, di chi non voleva mostrare il proprio malessere. 
Si era affrettato a posare sul letto la cartella clinica che ancora teneva tra le mani e, allungando le braccia verso i fianchi di lei, le aveva sussurrato: «Vieni qui, tieniti a me.»
Respirava a fatica, stropicciando le labbra per trattenere il dolore piuttosto che lasciarlo andare in un lamento. Quando si era messa in piedi, le aveva cinto la schiena in una presa più stabile, stringendola al suo fianco e accompagnandola a piccoli passi verso la porta del bagno in camera. 
«Ce la fai?» le aveva chiesto con tono preoccupato, notando le sue gambe trascinarsi. «Ti chiamo un’infermiera?»
Lei aveva scosso la testa e, flebilmente, aveva sussurrato: «No, Mamo-chan, ce la faccio» mentre lo sguardo non aveva avuto la forza di incontrare gli occhi di lui. 
Era rimasto in attesa accanto alla porta, pronto a riportarla a letto. Quando lei era comparsa, aveva notato la mucosa delle sue labbra troppo chiara, il colorito del volto troppo pallido e un senso di sofferenza riversarsi su quel corpo coperto da una camicia da notte smanicata di cotone grigio. 
Lei, senza sibilare alcuna parola, si era subito aggrappata al braccio di lui con entrambe le mani, in cerca di un appiglio per non annegare; lui aveva portato il braccio libero a circondarle la vita stringendola a sé, mentre lei allentava la presa dandogli la possibilità di avanzare di qualche passo.
Si era arrestata subito dopo; il respiro affannato, le palpebre abbassate, la tensione dei muscoli allentata. L’aveva vista quasi svenire nella sua stretta e, mantenendosi lucido, l’aveva ingabbiata portando anche l’altro braccio a stringerla per la schiena. 

«Usa!» aveva urlato, rendendosene conto solo dopo, mentre lei aveva continuato a rilassarsi fino a cedere in quell’abbraccio, con gli occhi chiusi e la testa pronta a piegarsi indietro. 
Il suo cuore aveva iniziato a martellare nel petto, un senso di angoscia e paura avevano dilagato nelle sue vene. Che stava succedendo? In fondo lo sapeva, realizzò ripensando alle analisi sulla cartella.
Si era incurvato in avanti, per afferrarle le gambe con un braccio e sollevarla da terra, tenendola ben stretta a sé. Il volto di lei aveva trovato conforto sull’incavo della sua spalla mentre una mano rimaneva ferma sul ventre all’altezza dei punti. In quella posizione gli era apparsa talmente indifesa da scatenare in lui una sensazione di dolore; avrebbe voluto lasciar uscire quel dispiacere avvinghiato alle sue ossa, e aveva deciso di farlo premendo le labbra sulla fronte fredda di lei in un bacio che sapeva di dolce, che odorava di buono.
«Stai tranquilla, Usako, stai tranquilla…» aveva ripetuto come un sussurro sul suo viso, una nenia per tranquillizzare anche se stesso. L’aveva stesa a letto, sedendosi sul bordo del materasso e premendo il campanello sulla parete della testata. 
Usagi aveva aperto lentamente gli occhi, lui non aveva smesso di accarezzarle la fronte, le guance, la testa fino alle lunghezze dei capelli.
«Va tutto bene, piccola, sei solo molto debole ma tra poco starai bene, te lo prometto» le aveva spiegato tenendo una mano sul materasso accanto al fianco di lei mentre l’altra non smetteva di accarezzarla ancora. 
Il suo sguardo era stato rassicurante verso quel viso privo di energie e, quando le labbra di lei avevano iniziato a muoversi piano, desiderose di lasciar uscire una parola, il pollice della mano aperta sul viso di lei aveva interrotto le carezze sulla guancia per premere sulla sua bocca.
«Shhh, non ti affaticare, va tutto bene, ci sono io qui con te.»
I passi dell’infermiera erano divenuti sempre più intensi, lui aveva voltato lo sguardo verso la porta e, prima che la ragazza potesse dire qualcosa, aveva ordinato: «Preparate una soluzione elettrolitica. Immediatamente!»
Le ciocche castane della coda di cavallo della ragazza avevano librato all’aria mentre si era affrettata ad annuire e a voltarsi, per poi scomparire a passo svelto dalla camera. 
Lui aveva sospirato, tornando con gli occhi sulle ciglia di lei che sbattevano indicando che le palpebre lottavano per rimanere alzate. Le aveva sorriso, desiderando di infonderle rassicurazione. La mano di Usagi si era posata sulla propria, ferma sul materasso. Era fredda, un tocco flebile, una conferma di presenza reclamata. D’istinto, aveva roteato la propria per poterla custodire e accarezzare con il pollice. 
«Va tutto bene, Usa, sono qui con te» le aveva ripetuto, mentre le nocche dell’altra mano avevano continuato a scorrere sulla guancia, alternandosi a scie delicate dei polpastrelli sulla fronte e sui capelli.
Lei aveva lottato ancora, contro la debolezza, pur di accennargli un sorriso. Le palpebre si erano abbassate di nuovo. 


Erano rimasti in quella posizione per un tempo che a lui era apparso eterno. Aveva riflettuto su Usagi che, con la sua assurda paura degli ospedali, era sempre apparsa ai suoi occhi infantile ed esagerata; lui le aveva promesso che tutto sarebbe andato bene e, in quel momento, aveva riconosciuto che Usa non si era lasciata intimorire da uno dei suoi incubi reali bensì si era dimostrata forte, matura, addirittura premurosa verso di lui; aveva preferito trattenere il proprio malessere piuttosto che lamentarsi.
Forse aveva voluto stupirlo. Forse, stava crescendo.


«Non trattarmi come una bambina, non lo sono più.» Le parole proferite da lei nel salone dell’appartamento rischiarito dai lampi, il giorno in cui era andato a trovarla prima dell’intervento, avevano illuminato la sua memoria.
E lì, in quella stanza ospedaliera senza testimoni, aveva permesso alle lacrime, intrise di consapevolezza, la possibilità di bruciargli gli occhi e rigargli le guance. 
“Mi dispiace” il suo cuore aveva pianto, e le parole non erano bastate; aveva avuto bisogno di un contatto fisico con lei, di trasmetterle ciò che il proprio animo urlava spingendolo a incurvarsi in avanti e a premere le labbra ancora una vota sulla fronte di lei.

Quando Usagi aveva sollevato le palpebre, lo aveva trovato ancora lì, seduto sul letto, con la mano a custodire quella di lei. Si era guardata attorno, scorgendo una striscia di cerotto attraversarle la piega del braccio; un filtro trasparente la collegava a una flebo che, a goccia lenta, le veniva trasfusa nella vena. 
«Come ti senti, Usa?» le aveva domandato. «Avevi i valori degli elettroliti bassi, ecco perché hai avuto un mancamento, ma con questa flebo tornerai a stare bene.»
«Sei rimasto qui tutto il tempo?»
Lui aveva annuito, sorprendendosi per l’ennesima volta. Usagi aveva attribuito importanza a quel dettaglio, evidenziandolo, come se tutto ciò che veramente contasse consistesse nel non essere da sola. «Te lo avevo promesso che sarei rimasto con te.»
«Come farei senza di te, Mamo-chan?» 
Era stata una voce consapevole più che una domanda, mentre due iridi azzurro cielo gli avevano trasmesso gratitudine, dichiarato quanto fosse indispensabile.
Si era abbassato verso di lei, tanto da poter percepire il suo respiro regolare, il suo odore naturale che stranamente lo riportava alle feste cittadine intrise di zucchero filato e odango, e le aveva premuto le labbra sulla fronte. Quando si era staccato da quel bacio, lei aveva sollevato il mento, le labbra di lui, ancora ferme, erano separate da quelle di lei da pochi millimetri d’aria. 
Si era arrestato e allontanato lentamente sempre di più, riportandosi seduto e avvertendo un bruciore al cuore. Era come se il proprio corpo gli parlasse, urlasse, avvertendolo attraverso un malessere che era in disappunto con lui. Era curioso, desideroso di scoprire il gusto di quel contatto con la parte di lei che non aveva mai assaggiato. 


“Bene, Mamoru, hai finalmente trovato un momento dove lei è un’adulta, una bellissima adulta. Ora però spiega perché ti sei arrovellato la mente? A cosa è servita questa indagine certosina?”
La risposta era arrivata dal suo cuore come un lampo nella notte.
“Perché non riesco a smettere di pensare a lei.”
 
«Più resto ad Hakone e più vorrei non dover ritornare al lavoro. Questo luogo è incantevole.»
Mamoru si voltò alle sue spalle verso la voce che aveva cacciato via i suoi pensieri. 
Il viso di Setsuna era rilassato, la nuca poggiata alla parete rivestita in pietra grigia, i capelli raccolti in uno chignon alto dal quale sottili ciocche ribelli scivolavano per aderire al collo della donna, ritrovandosi immerse nell’acqua termale all’interno della vasca privata. 
«Sì, devo dire che Haruka ti ha consigliato molto bene, è un luogo incantevole che trasmette serenità.»
Lei annuì sorridendo, gli occhi fissi di fronte a sé verso il panorama per alleviare la sua anima, mentre l’acqua calda coccolava il suo corpo. 
«Dovremmo venirci più spesso» propose.
«Già» sospirò lui, rimuovendo l’accappatoio e raggiungendola dentro la vasca.
Setsuna lo osservò mentre le si sedeva accanto. Rimase attratta dal modo col quale, portando le braccia lungo i bordi della vasca di pietra, i suoi bicipiti apparivano tonici, i pettorali ben definiti. Si sciolse alla vista di lui che inclinava la testa indietro, chiudendo gli occhi e permettendo alla sua mandibola spigolosa si venire evidenziata da quella posizione. Aveva quella solita paura di perderlo che l’attanagliava ogniqualvolta si abbandonava alla consapevolezza che lui fosse tutto ciò che avesse sempre desiderato.
A volte le sembrava troppo per lei. Troppo bello, troppo serio, troppo gentile e generoso.
Gli sedette cavalcioni, lasciando scorrere le mani bagnate sul petto di lui, mentre le labbra raggiungevano l’angolo della mandibola, il punto dietro l’orecchio, la guancia poco ruvida che la faceva impazzire. 

Oggi sei stato molto silenzioso, qualcosa ti preoccupa? Si era stancata di osservarlo assorto nei suoi pensieri. Avrebbe voluto farglielo notare ma quella domanda era stata frenata dal timore che lui negasse l’evidenza, dalla paura che bastasse una frase fuori luogo a far esplodere di nuovo un litigio. 
La casa era stata vuota negli ultimi giorni. Da martedì aveva dormito da sola. I turni non coincidevano quasi mai e lei lo aspettava consolandosi al pensiero di recuperare il tempo trascorso senza di lui al suo rientro. Mamoru non era rientrato per tre notti, però. Il letto era rimasto freddo, così come il suo cuore che si riscaldava solo quando lui la stringeva a sé, nutrendosi di quell’energia, rassicurandosi a quel contatto. 
Si era sentita incompresa. Non riusciva a fargli capire il suo malessere, a lui sembrava non importare, come se fosse tutto frutto della sua fervida e suggestiva immaginazione. Che motivo c’era di restare notte e giorno in ospedale con Usagi? Aveva subìto un’appendicectomia, non un trapianto al rene. Perché non si era lasciato convincere da Hana? Sua madre si era offerta di occuparsi di quella paziente, e la stessa Usa aveva cercato di rassicurarlo. Perché per lui era stato così importante non ascoltarle e rimanere lì accanto a lei? 
Si chiedeva se prima o poi tutto ciò sarebbe cambiato, ma poi realizzava che il tempo le era ostile, lasciandola nella sua solitudine e incomprensione, accanto a un uomo bellissimo che tuttavia non riusciva mai a sentire veramente suo. Si era domandata tante volte il significato di amore, e la risposta che il proprio cuore offriva atteneva alla complicità di sguardi, alla sintonia inspiegabile capace di far riconoscere anche agli altri un legame tra due persone. Era quello l’amore che desiderava da sempre e che ritrovava osservando Mamo e Usa, scaturendo e alimentando in lei insicurezze e paure. Lei le considerava sensazioni e per quel sesto senso restava incompresa, annegando in un pozzo di solitudine interiore in un luogo senza tempo dove l’amore sembrava rimanere irrealizzabile per lei.


Quel giovedì mattina aveva visto Mamo raggiungerla a passo svelto. Le guance più rosse del solito contrastavano con il camice bianco. Le labbra serrate, lo sguardo intenso e inquieto, e quel movimento con la mano a sfregare la barba poco ruvida, che ormai sapeva essere indice di nervosismo. Aveva voluto comprendere se lui avrebbe avuto il coraggio di farle notare il silenzio di qualche ora prima, a casa. 
Mamoru avrebbe dovuto comprendere sulla propria pelle le sensazioni di invisibilità che lei stava provando in quei giorni.
«Devi occuparti anche delle altre cartelle cliniche per oggi» le aveva detto raggiungendola. Il suo respiro era agitato. 
Certo, c’era Usagi, non poteva dedicarsi al suo lavoro. I pazienti non erano tutti uguali e non lo sarebbero stati fin quando quella ragazza sarebbe rimasta lì. Un senso di frustrazione e nervoso stava iniziando a riaffiorare nel suo animo. Era stanca di sentirsi considerata solo se si parlava di Usa.
«Perché?» si era limitata a chiedere, scommettendo con se stessa sulla risposta.
Lui aveva sbuffato, passando una mano tra i capelli, dandole l’idea che stesse cercando di trattenersi. Si era guardato intorno in quel corridoio affollato da infermieri e colleghi. L’aveva presa per un braccio e l’aveva condotta nella stanza in fondo al reparto, adibita a magazzino. Lì, al riparo da occhi e orecchie, aveva dato sfogo al suo nervoso. 
«Possiamo ignorarci quanto vuoi, se è questo che vuoi.»
Ancora una volta quelle parole l’avevano ferita. Per lui era indifferente, la faceva sentire come se non contasse davvero nella sua vita, se esserci o meno non portasse distinzione.
«Ma al lavoro non voglio vederti fare giochetti del cazzo!» Aveva lasciato andare un respiro agitato e avvicinandosi di più a lei, aveva continuato. 
«Perché la cartella di Tsukino Usagi stamattina era al desk? Hai controllato la conta degli elettroliti quando sei arrivata?»
Quegli occhi incendiati da fiamme di rabbia l’avevano fissata, il suo respiro le aveva sbattuto sul viso quel rimprovero.
«Non potevo prenderle tutte. Sapevo che stavi per arrivare, e sapevo anche che avresti preferito seguirla tu dato che-» “hai un rapporto in simbiosi con lei.” 
Avrebbe voluto urlargli la realtà, ma lui era così agitato che aveva temuto di restare incompresa ancora una volta. «Dato che l’hai seguita dall’intervento.»
Lui aveva trovato spazio sull’estremità di una sedia sulla quale era poggiata una scatola aperta contenente provette vuote.
Lo aveva visto mentre poggiava i gomiti sulle gambe e le mani a sostenergli la fronte. In quella posizione curva le era apparso un essere logorato da un demone che lui stesso non riusciva ad accettare.
«Gli elettroliti erano bassissimi.» Si era voltato verso di lei riprendendo. «Mi è svenuta tra le braccia. Sai cosa significa questo?»
Che Usagi si era trovata tra le sue braccia prima di svenire? Perché? 
Se lo avesse detto, sarebbe risultata la solita gelosa. Era rimasta in silenzio.
«Che se non ci fossi stato io, qualcuno avrebbe riferito tutto a Galaxia e tu saresti passata per un medico negligente.»
Ah, tutto quel nervoso perché si era preoccupato per lei? Il proprio cuore aveva sentito che non era credibile.
«Ti sei preoccupato per me?»
«No» le aveva dato conferma lui. «Ma cerca di non lasciarti influenzare sul lavoro da Usagi e dalla tua gelosia insensata.»
«Ti sto dicendo che non è stata negligenza e non c’entra nulla la gelosia. C’erano dieci cartelle del post intervento, non potevo prenderle tutte, te ne ho lasciate cinque tra cui lei perché la segui dal suo ricovero, conosci bene la sua situazione clinica e sapevo che avresti voluto occupartene tu. Dimmi se sbaglio.»
L’agitazione le si era avvinghiata alla gola. Si era sentita svuotata delle buone intenzioni che, nonostante tutto, cercava di mantenere, per venire riempita da accuse e pregiudizi. 
Perché lui non comprendeva le sue parole? Perché pensava male di lei? Quelle domande martellavano la sua mente togliendole energie. 
Lui si era alzato, quegli occhi blu e profondi, carichi di rabbia, erano attraversati da scintille di dubbi. Aveva portato le mani sui fianchi, continuando a fissarla ma restando in silenzio. Era stato un no tacito, di chi non aveva avuto il coraggio per ammetterlo. Non si era sbagliata.
«Vai al diavolo, Mamoru» aveva pronunciato, avvertendo un nodo alla gola. Si era voltata, aprendo la porta e permettendo che un fascio di luce penetrasse all’interno della stanza buia, prima di richiuderla alle sue spalle.

 
«Vuoi scendere al ristorante o preferisci fare un giro e fermarci a mangiare qualcosa in paese?»
La voce calda e rilassata di lui la riportò alla realtà. 
«Decidi tu, è la nostra ultima sera qui, cosa preferisci fare?»
Lui lasciò che una risata gli stendesse le labbra mantenute chiuse; scosse la testa limitandosi a lasciare le labbra sulla spalla spigolosa di lei. 
«Ma perché per una volta non decidi semplicemente invece di rispondere con un’altra domanda?»
Di lei non comprendeva quel non saper decidere, lasciando a lui la scelta definitiva in tutte le questioni di poco conto, finendo invece a litigare per le situazioni importanti nelle quali avrebbe desiderato averla complice.
“Con Usa è al contrario; litighiamo per le cazzate come i programmi tv e siamo in sintonia su ciò che conta.”
Il ricordo della lite per il telecomando, la sintonia al ritorno dall’altura e in ospedale ritornarono a riecheggiare con insistenza nella sua memoria, scandendone come una melodia i punti salienti.
«Va bene, allora restiamo qui, adoro il loro dolce del giorno.»
«Così mi piaci di più» le dichiarò percorrendo la sua schiena nuda con le mani aperte fino ad arrestarle sui glutei. Lei iniziò a dondolarsi lentamente, le sue iridi nocciola contenevano scintille di desiderio che scrutavano negli occhi blu di fronte a sé un mare dal quale lasciarsi travolgere. Gli baciò le labbra, addentando l’angolo della mandibola per poi percorrergli la linea del collo con la lingua. Mamoru chiuse gli occhi, lasciando che quelle sensazioni prendessero il sopravvento conducendolo nell’oblio dei ricordi. Almeno per un po’.
 
«Mi dispiace, ho esagerato, sono stati giorni pesanti.»
Il calore di quelle parole le aveva scaldato il cuore, accarezzato il volto, mentre le mani di Mamo l’avevano avvolta in un abbraccio. Tregua.
«Domattina accompagno Usa a casa e partiamo per Hakone.» Gli occhi di lui si erano accesi di scintille di amore, un misto tra pentimento e richiesta di perdono.
«Dimmi che vuoi partire ancora, Sets.»
Si era abbandonata a quelle carezze sul suo volto, chiudendo gli occhi e lasciando che un balsamo invisibile curasse le ferite provocate dai loro litigi. Lo aveva appena ritrovato, contava solo quello per lei. Aveva annuito, come una coccola sul petto di lui mentre si stringeva in quell’abbraccio. Era di nuovo a casa.
«Certo che voglio partire, Mamo.» Si era allontanata dalla sua stretta, solo per poter vedere i suoi occhi, permettergli di leggere nei propri. «Non pensare più male di me, per favore.»
Lui aveva abbassato le palpebre, tenendo custoditi dentro di sé i propri dubbi e limitandosi ad annuire prima di posare un bacio sulla sua fronte, sulle guance, sulle labbra. Si era finalmente sentita compresa, riemersa dal pozzo della solitudine. Sorrise.
 
Finì di ripensare a quel giovedì sera quando il suo dischetto di cotone si colorò di nero avvertendola che le sue ciglia erano del tutto struccate dal mascara. Aveva ancora sulle labbra il gusto degli odango, il dolce del giorno che amava di quel luogo paradisiaco.
«Sono stati carini a regalarci un sacchetto di odango.» La sua voce cercò di raggiungere Mamo nella stanza da letto, prima di affondare il volto tra le mani giunte colme di acqua tiepida per risciacquare il volto completamente struccato. 
Nello spazio limitato che separava il bagno dalla stanza matrimoniale, rimase per un attimo appoggiata allo stipite della porta. 
Mamoru sdraiato, gli occhi chiusi e un’espressione serena sul volto le riempirono il cuore di gioia; comprese il motivo della mancata risposta alla sua esclamazione nostalgica. Si adagiò accanto a lui, poggiando la testa sul suo petto e accoccolandosi nel suo abbraccio.
Lui le baciò la testa, girando il volto a sinistra in una posizione più comoda. C’era la sveglia da puntare, l’indomani avrebbero dovuto lasciare la camera. 
L’orologio riposto sul comodino segnava le 23:30. Accanto, un sacchetto trasparente stretto da un nastro blu, contente i dolcetti rotondi omaggiati dal ristorante del resort.
Richiuse gli occhi, passando la lingua tra le labbra. Il sapore degli odango continuava a rimanergli in bocca, protagonista assoluto dei suoi sensi, rievocandogli l’odore delle cose buone, di Usako.
 “Odango…” Fu un pensiero istintivo, accompagnato da un tacito sorriso di rassegnazione e consapevolezza. Anche senza volerlo, lei continuava ad affiorare tra i suoi pensieri, mai invadente, in modo dolce. 
«Buonanotte, amore mio» sussurrò tra i capelli di Setsuna prima di richiudere gli occhi e abbandonarsi a un sonno profondo. Tra meno di dodici ore sarebbe ritornato alla routine frenetica della città.
Non vedeva l’ora. 


 
Il punto dell'autrice

Dopo un'estenuante pausa, eccomi ad aggiornare questa storia, completando il capitolo dedicato ai flashback dei personaggi Mamo e Setsuna.
Chi mi segue su Facebook alla pagina Moonlight fan club (siete tanti e vi ringrazio di cuore), sa già che questo doveva essere un capitolo incentrato sulla coppia Mamo&Setsuna eppure, ancora una volta, il mio cuore mi ha spinto a rendere Usa protagonista, spero riuscirete a perdonarmi anche questa! :D
A parte gli scherzi, in questo capitolo ho cercato di far comprendere meglio a Mamoru ciò che pian piano inizia a pensare di Usagi, di come inizia a vederla dato che per tanti anni è stata solo un'amica di famiglia, una piccola amica di famiglia.
Questa fanfiction nacque come esperimento per cercare di saper descrivere l'evoluzione di un sentimento che nasce come amicizia e si trasforma lentamente.
Spero che questo capitolo vi abbia potuto tenere compagnia e che vi sia piaciuto.
Se vi va, vi sarei grata per i vostri commenti in una recensione; fatemi sapere cosa vi è piaciuto, cosa non avete apprezzato e le frasi più belle per voi del capitolo, così da poterne fare delle note su Facebook per tutti voi.
Un abbraccio, a presto

Demy 

 
Seguimi al Moonlight fan club - Facebook
   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Sailor Moon / Vai alla pagina dell'autore: Miss Demy