Il Giardino delle Parole
Capitolo 2
Tra i fiori
che si scuriscono
La bianca
peonia
Cattura la
luna
- Kato Gyodai -
La strada era racchiusa tra grattacieli altissimi. Il
tramonto scintillava contro le vetrate scure, mentre la giornata lavorativa
finiva.
Goku aveva deciso di seguire Vegeta di nascosto, tra i
passanti, verso la stazione Otemachi. Così lasciò le sue impronte di fango sulla
scalinata all’entrata, giù, lungo claustrofobici cunicoli. Il soffitto basso, i
muri scuri e tappezzati di pubblicità.
La stazione Otemachi, come ogni stazione di Tokyo,
odorava di ramen. Lo vendevano le grandi catene di ristoranti ai lati degli androni;
lo offrivano in buste di plastica bianca su banchi di legno. File lunghe di
gente, il loro chiacchiericcio sommesso.
A Goku brontolò lo stomaco, quando Vegeta si fermò per
prelevare contanti da un bancomat.
In fila, al Kita
no Kaiō, Goku attendeva tranquillo, finché non si accorse che Vegeta era arrivato
al suo turno. Allora saltò la fila, con grande scombussolamento, strattonando
il morale ai presenti ed ad un ristoratore panciuto. «Che modi!»
«Prendo questo!»
Il ristoratore si sistemò gli occhialini rotondi e,
leggermente scocciato, ma obbligatoriamente amorevole, disse: «Vuole anche una
ciotola di riso?»
«Oh sì, grazie.» Disse Goku e ogni tanto controllava
Vegeta: stava digitando sullo schermo ATM, senza curarsi del baccano. «Si
sbrighi, però, vado di fretta!»
«In un lampo lampante[1]!»
Vegeta iniziò a prelevare le banconote. Goku iniziò a
correre sul posto. «Quanto ci mette?»
«Bubble tea?»
Sembrava gustoso, rinfrescante, ma «No, grazie!»
«È in offerta.»
«Non mi interessa!» Perché Vegeta stava già sfilandosi
il portafogli dalla giaccia.
«È due per uno! E se prende il dessert fanno due per
tre!»
Goku smise di saltellare. «Cioè?»
«Ne prende due, ne paga uno di ognuno e non resta
scontento nessuno.» Il ristoratore ridacchiò.
«Non ho capito.»
Il ristoratore si ricompose un po’ offeso, risistemò
gli occhialetti, «È un’ottima offerta.»
«Non lo metto in dubbio però…» Vegeta lontano! «Non lo
voglio.»
«Uno soltanto?»
«Non importa, tenga il resto!»
«Ma non ha pagato!»
«Tenga tutto!» A malincuore.
«Si fermi!»
Vegeta procedeva con le mani in tasca, si confondeva
con gli uomini d’affari, in pantaloni scuri e camicia bianca, lo zaino leggero in
spalla.
Turisti smarriti cercavano l’uscita tra scritte in
hiragana, «O forse è katakana?»
«Ha importanza, cara?»
Vegeta si fermò, quando un ragazzo platinato, con un
giubbotto rosso, gli andò incontro.
Goku venne distratto da una coppia: «Mi scusi, parla
inglese?» Sapeva dire soltanto “thank you” e la coppia soltanto chiedere in
giapponese se si parlasse inglese. Una cartina della metro aperta.
Vegeta, scocciato, rispondeva al ragazzo, che riprese a camminare in direzione opposta.
«E voi ce lo avete un accendino?»
Dopo ogni passante, le luci della stazione si
proiettavano sulle rotaie bagnate. Si arroccavano tra le intercapedini e baluginavano,
in quel punto all’aperto, sotto la notte scoperta. Pochi ciuffi d’erba.
Goku attendeva il prossimo treno dietro una colonna. Continuava
a spiare Vegeta, per scoprire se, per lui, dovesse essere più o meno contento. O
se avesse dovuto invece salvarlo. E sarebbe stato molto doloroso, se l’animo di
Goku non fosse stato sempre così, dolcemente, ben disposto. E, quando il treno
arrivò, Goku salì su un vagone diverso, ma senza perdere di vista Vegeta. Quando
il treno si fermò, scesero entrambi alla stazione Harajuku.
Tra Shibuya e Shinjuku, gli adolescenti di Tokyo
preferivano Harajuko, con il suo ventaglio di intrattenimenti, i negozi “trendy”
e colorati. A detta di Yamcha non esistevano strade migliori per un primo
appuntamento.
Ma Vegeta scelse Shibuya. E ogni rosea speranza morì
quando Goku lo seguì in biblioteca.
Mentre Goku sbuffava in un angolo, in attesa di vedere
un po’ di azione, Vegeta continuava a cercare libri. Controllava una corsia,
poi l’altra. Tornava indietro, ricontrollava. Ricominciava daccapo,
disattendendo le aspettative di chi avrebbe voluto vederlo godersi la sua età.
Ma poi, gli si avvicinò una ragazza carina e gli sorrise. Camicetta fucsia,
capelli corti. Aveva un solo orecchino. «Mi occorre un attimo.» Si separarono.
Goku si appiattì contro uno scaffale.
La ragazza riapparve con un libro in mano. «A quanto pare l’altro che cerca lo stanno
ancora leggendo, ma se vuole, appena lo lasciano, glielo porto.»
«Non importa. Non posso
aspettare!» Vegeta notò
l’ora.
Secondo i dati del governo giapponese, il quarantadue
per cento degli uomini era vergine, in Giappone. E per chi non se ne facesse un
vanto, all’occorrenza, esistevano i robu
hoteru, gli hotel dell’amore, a Kabukicho, Shinjuku (sempre in Giappone).
Bastava dirlo a bassa voce.
Si affittavano stanze, anche a tema, «Con letti doppi
oppure tripli!» Annunciò un vecchietto arzillo a Vegeta, nascondendo la bocca dietro
una mano. «Abbiamo anche sirene, donne serpenti ed hawaiane!» Per scoprire cosa
ci si perdesse, o per ritrovare quanto già perduto. Le ragazze erano giovani, svestite
e ben disposte: le migliori per tutta la notte, ma soltanto per una notte. «La
tariffa è oraria.»
Vegeta finì di allacciarsi la scarpa e andò oltre. Lo
zaino, pesante di libri, di nuovo in spalla.
I passi di Goku disegnarono pozzanghere, screziate dal
riverbero delle insegne colorate.
Il ristorante Porunga
vendeva la stessa ricetta da anni: brodo caldo di maiale e salsa piccante. Agli
studenti raccontavano fosse buono al punto da propiziarsi gli dei, i più
disperati, i meno bravi, se la bevevano. Così, nel periodo degli esami,
ordinavano quel desiderio di successo dalla macchinetta all’ingresso, self-service. Il romanticismo, però, non
veniva quasi mai invitato: i tavoli erano piccole nicchie di legno, da uno. Goku
si accorse di essere alla fine della corsa. Non gli restò che affrontare
Vegeta.
Attraversò la stanzetta, gli posò una mano sulla
spalla, «Ohi!»
«Ma che?!»
«Perché non me lo hai detto subito che preferivi
restare da solo, scusa?»
Bulma, sotto l’azumaya, aspettava che finalmente piovesse;
che un acquazzone tornasse e scomodasse gli uccelli nei nidi; che la nebbia
scendesse sul lago e si insinuasse tra le foglie sui rami; che desse un senso
alla sua attesa e che uno scrosciare, forte e improvviso, le scordasse le ossa.
Il cuore teso.
Si chiese se quegli sputi di cielo, quel pomeriggio, valessero
ad esaudire la promessa di rivedersi, Alla
prossima pioggia?
Spuntò l’arcobaleno tra i picchi delle nuvole, dietro
gli alberi sul lago. Il palazzo della FC disturbava il panorama nel cielo
sempre più terso.
Vegeta non arrivò.
Bulma tornò a casa.
Ogni giorno, alle sette di mattina, gli studenti riempivano
la mensa, in mano vassoi di plastica e scatole bento.
Bulma arrivò alle nove e quarantacinque. Si sporse e
considerò in quanti le stessero davanti. «Vi piacciono proprio le file, eh?»
E si sentì giudicata, da un’alzata di sopracciglio di
uno studente al suo fianco, spallucce. Gli cacciò la linguaccia.
Dopo, il sole si ribellava ancora alla pioggia, e Bulma
strizzava gli occhi nel fastidioso riverbero delle finestre: cercava un
tavolino a cui sedersi, o qualcuno disposto a cederle il posto, farle un po’ di
spazio, prima che i cereali si ammorbidissero nel latte e il caffè si
intiepidisse.
I cereali si ammorbidirono.
Il caffè diventò freddo.
La sua rabbia si infuocò. Anche l’indifferenza era una
forma di bullismo, pensò. «Accidenti!»
Le venne voglia di urlare, gettare il vassoio in testa
a qualcuno, ma notò un piccolo tavolo in un angolo in disparte. Una sedia vuota,
l’altra occupata da Vegeta. Correggeva i compiti dei suoi studenti. Un’ecatombe
di brutti voti e segni rossi, merendine smangiucchiate. Una tazza di tè
tiepido.
Quando Bulma gli fu abbastanza vicino, chinandosi su
di lui, gli solleticò accidentalmente il viso con la coda di cavallo. Gli tolse
un airpod dall’orecchio. Vegeta sollevò la testa in un colpo di sorpresa.
«Ehilà!» Gli sorrise e con la punta dello stivaletto indicò
la sedia libera. Un calzino rosso di spugna arricciato alla caviglia. Il
vassoio ancora in mano. «Posso?»
Da quel calzino corto, per le gambe scoperte, oltre la
maglietta succinta, Vegeta percorse la sua figura fino a raggiungere i suoi
occhi. Nessuno li aveva come i suoi: grandi, di un blu indeciso come il mare d’inverno,
in tempesta. Languidi, ma strafottenti e curiosi.
Poi lui raccolse la propria roba, l’airpod dalla sua
mano, cartacce comprese. Si alzò. Ma lei non voleva restar sola! Lo avrebbe
rivisto? «Vegeta!»
Si voltarono tutti.
Si voltò. «È Ōji-sensei, per te.»
Durante le lezioni “Vegeta Ōji-sensei” camminava.
Saliva le scale dell’anfiteatro e parlava loro alle spalle, un generale ai suoi
soldati in trincea. Gli studenti rivolti alle diapositive o ai suoi calcoli
assurdi scarabocchiati alla lavagna. I numeri si affaticavano a rincorrere
equazioni. Le sue mani sempre imbrattate di gesso bianco.
Bulma seguiva la lezione dall’ultimo banco e sperava che
Vegeta aspettasse la pioggia tanto quanto lei. Sollevò la mano per rispondere
alla domanda appena fatta.
Fu costretto a guardarla, un piede sul gradino.
Gli occhi neri non erano tutti uguali. Quelli di
Vegeta erano una notte profonda, brucianti anche senza stelle. Corrucciati, trattenevano
a stento i suoi pensieri in fermento, sfumati da qualcosa ogni volta diverso.
Di questa soppesava l’importanza con un insulto, se tirava le labbra in un
ghigno.
Per Bulma fu di nuovo indifferenza.
Vegeta si rivolse al resto della classe. «Qualcuno che,
invece, la sappia, la risposta?»
Nella stagione delle piogge, Tokyo aveva l’odore
del cielo[2].
Goccia dopo goccia, i marciapiedi si coloravano
d’acqua. Il petricore risaliva dalla strada alle finestre aperte e l’aria
diventava un respiro fresco.
Ma non pioveva da giorni e la freddezza di Vegeta era
diventata più pesante della pressione. La sua presenza era assente.
Le passò accanto in corridoio e la lasciò sospesa
nella distanza che li divise.
Bulma si fermò, in bilico sulla voragine del proprio
orgoglio. Strinse le labbra e il libro al petto.
Gli corse dietro e osò afferrarlo per un braccio. «Vegeta!»
Infastidito, si strappò dalla presa. «Che diamine vuoi?»
Sbocciò curiosità tutto intorno. Cadde il silenzio e
il tempo si fermò.
«Se…sensei.» Balbettò Bulma sorridendo, ma il suo
imbarazzo, per pregiudizio contro una personalità troppo sfacciata, parve un
frutto di impertinenza.
«Cosa vuole?»
Ripeté con più forzata compostezza Vegeta.
Sapere se l’avrebbe rivisto alla prossima pioggia, «Non
riuscirò a consegnare il compito in tempo.» Avrebbe dovuto portarglieli lui, i
libri su cui studiare. Era parte del piano.
«E quindi, vuole rinunciare?»
«Ovviamente no, per chi mi hai presa?»
«Allora inizi a studiare.»
I want to walk in the open wind
I want to talk like lovers do
Want to die into your ocean
Is it raining with you?
Continua…
Ciao a tutti! :D Questo capitolo è stato una tragedia
da scrivere! Per una volta ho avuto la malsana idea di farlo leggere al mio
compagno, che lo ha bocciato dicendo che il punto di vista deve essere
costante, come nella scrittura professionale. E quindi, per una volta, ho
seguito il suo consiglio, togliendo anche due scene, alleggerendo altre. Ma il
capitolo non funzionava, così l’ho riscritto seguendo il mio stile di sempre.
Per questo vorrei ringraziare Died, che ha letto
entrambe le versioni (le tante versioni) e che, come sempre, mi legge in
anteprima e sa consigliarmi! Al mio compagno non chiederò più niente :D
Alla prossima! :*
Nda: la descrizione dei luoghi, tranne i nomi presi da
Dragon Ball, sono reali. Non sono mai stata a Tokyo, ma Google e YouTube mi
hanno aiutata molto.
Ppppps: La canzone citata alla fine, è “Here Comes the Rain Again” degli Eurythmics.
[1]
Citazione dal film Love Actually,
messa in bocca a Re Kaio mi pareva appropriato! Anche la scenetta è ispirata
allo stesso film.
[2]Citazione
dal film. Nell’anime il Giardino delle
Parole la frase è qualcosa tipo “Il cielo odorava di pioggia”.
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