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Autore: Adeia Di Elferas    08/11/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ad Achille Tiberti sembrava un sogno poter finalmente allungare le gambe sotto al tavolo e cenare.

Con lui non c'era una gran compagnia, ma gli faceva piacere, dopo tanto tempo, dividere il pasto con suo fratello Polidoro. Certo, doveva sorbirsi anche Ercole Bentivoglio, ma si trattava di un male necessario.

Era stato proprio il bolognese ad aiutarlo, nel momento in cui erano riusciti a entrare a Cesena, a occupare il comune, scacciare gli Anziani e bruciare le carte dei processi che ancora pendevano su di lui.

“Fossi stato in voi – disse proprio il fratellastro di Annibale ed Ermes Bentivoglio – non avrei lasciato che la vostra donna vi seguisse qui... Si rischia, a stare in Romagna, in questo momento.”

Tiberti, che non aveva alcuna intenzione di farsi dare lezioni dal bolognese, si sistemò meglio sulla sedia e, addentando un pezzo di carne, commentò: “Si tratta solo di una cortigiana. È bella, ma se l'ammazzassero, mi dispiacerebbe solo relativamente. Avete fatto bene, voi, a mandare la vostra sposa a Fermo, invece... Tutti dicono che la vostra Barbara sia molto bella. Avrebbe rischiato, a restare qui...”

Ercole, colpito sul vivo, cambiò espressione e poi, piccato, chiuse in fretta il discorso con un perentorio: “Un marito deve badare alla propria moglie.”

Tiberti fu felice di vedere come fosse bastata quella mezza insinuazione a far tacere il Bentivoglio, e così, tornando a masticare, dimenticò per un attimo sia la sua stessa amante, sia Barbara Torelli, la moglie di Ercole.

Pensoso, mentre afferrava il calice di vino, si indirizzò a Polidoro, chiedendo: “Ci sono novità di Vincenzo Naldi?”

L'altro Tiberti scosse il capo: “Continua a imperversare in Val di Lamone, ma di fatto impensierisce Astorre Manfredi solo di rado... Sembra più un'azione di disturbo, che non un qualcosa di ordinato dal papa...”

Achille fece un cenno di assenso, e schiuse appena le labbra, ma fu il Bentivoglio a rispondere all'affermazione di Polidoro: “Io mi impensierirei di più per i maneggi di Vitellozzo Vitelli e di Giampaolo Baglioni.”

“Perché dite questo?” Achille cominciava a trovare davvero insopportabile la spocchia che il bolognese sembrava riservare solo a lui e a suo fratello, quasi che volesse sottolineare la loro differenza di rango.

“Bagliono ha intascato una bella somma, per combattere contro Altobello Chiaravalle.” spiegò Ercole, incrociando le braccia sul petto: “Mentre Vitelli, dopo la storia di Acquasparta, si p preso Monte Campano. E si è fatto dare dagli sconfitti diecimila ducati. E poi, con il Baglioni e Paolo Orsini, è entrato a Viterbo, ha fatto credere ai Gatti e ai Colonna di lasciarli andare illesi e invece poi... Li ha bloccati sulla porta della città, li ha denudati, ha preso tutti i loro averi e ha messo a sacco la città.”

“Ha fatto quello che doveva.” commentò piano Achille, per cui tutti quei fatti non erano per nulla delle novità.

Tutti sapevano, ormai, quello che stava accadendo a opera di Vitellozzo, così come tanti altri – tra cui lui – erano a conoscenza del fatto che il bottino era ormai al sicuro a Città di Castello. Si trattava, si diceva, di almeno cinquantamila ducati.

“Dico solo che... Insomma, c'è un po' di differenza, in quello che stanno facendo loro e in quello che stiamo facendo noi.” insinuò il bolognese, scostando appena il piatto e facendo come per alzarsi: “Chi credete che il papa avrà più caro, alla fine? Qualcuno che ha fatto parlare di sé in tutta Italia, o noi, che ce ne stiamo qui a presidiare Cesena, aspettando che qualcun altro faccia le cose che contano?”

“Nessuno vi ha obbligato a seguirci in Romagna.” disse, freddamente, Achille, mentre Polidoro, in silenzio, guardava prima l'uno e poi l'altro: “Se non intendete più prendere parte alla causa, noi...”

“Certo che intendo prendere parte alla causa.” si infervorò il Bentivoglio, alzandosi: “Ma sia chiaro che io voglio essere in prima fila, quando il figlio di quel diavolo di un Borja si deciderà a tornare qui e a prendere Faenza!”

“Certamente.” ribatté Achille, stringendo appena gli occhi.

Mentre Ercole se ne andava, borbottando tra sé ancora qualcosa, i due Tiberti continuarono a mangiare in silenzio. Se Polidoro, però, ingurgitava con un certo appetito tutto quello che si trovava per le mani, Achille, dopo appena un paio di bocconi cominciò ad avvertire una certa stretta allo stomaco.

Non si trattava propriamente di nausea, quanto più di una somatizzazione di tante cose. Se da un lato era teso per la difficile situazione in cui vertevano le sue casse personali, dall'altro era anche agitato per la difficile posizione che aveva deciso di prendere, tradendo, di fatto, la sua terra d'origine per servire il papa. In più, si fidava sempre meno di Ercole Bentivoglio, ma sapeva, almeno per il momento, di non poterlo scaricare... Poteva ancora vedere il suo sguardo supponente, mentre lo fissava, insistendo sempre troppo sul profilo del suo grande naso a becco.

“Vado dalla mia cortigiana.” bofonchiò, asciugandosi i lati delle labbra con il dorso della mano, soggiungendo, quasi tra sé, passandosi la punta dell'indice sul dorso del naso: “Almeno lei non mi guarda come se fossi un mostro...”

“Ah!” esclamò Polidoro, apparentemente molto divertito: “Con quello che ti costa..!”

Achille si prese un momento, prima di ribattere. Si fece serio e si ricordò di come lui stesso avesse sempre trovato ridicoli gli uomini – e ancor più le donne, tra cui annoverava l'ormai deposta Tigre di Forlì – che per avere qualcuno a scaldare loro il letto dovevano sborsare soldi o elargire favori.

Eppure, ora, anche lui era uno di quelli...

“Non costano mai troppo, Polidoro.” gli disse, con un sospiro, e, senza aggiungere altro, se ne andò in camera, dove la sua bella cortigiana lo stava già aspettando trepidante, e che quell'entusiasmo fosse vero o artefatto, a lui non interessava più.

 

Da quando, qualche giorno addietro, il figlio del papa aveva firmato un nuovo trattato militare in presenza di Louis de Villeneuve, in Vaticano si stava di nuovo muovendo qualcosa.

Di fatto Alessandro VI aveva cercato di riprendere in mano le fila della guerra e aveva subito dimostrato la propria autorità imponendosi su Bartolomeo d'Alviano.

Siccome l'uomo, dapprima recalcitrante a seguire il cognato, Giampaolo Baglioni, aveva invece poi preso parte all'ingresso trionfale in Viterbo, per poi portarsi autonomamente a Orvieto, il pontefice voleva ridimensionarlo. Doveva essere chiaro a tutti che gli obbediva doveva farlo sempre e chi, invece, non voleva farlo, doveva essere considerato un nemico.

L'ultimatum dato a Bartolomeo fu semplice e chiaro: se voleva restare ben voluto dal papa, doveva lasciare immediatamente l'Umbria. Gli veniva concesso di tornare a occuparsi dei Turchi che premevano sul confine in Friuli, ma nulla di più.

Parallelamente, il Borja aveva deciso di mettere al seguito del figlio dei comandanti più affidabili, rispetto a quelli scelti nella prima parte della campagna in Romagna. Era vero, alla fine la Sforza era capitolata, ma a che prezzo? Era impossibile, ormai perfino a Roma, non sentire nelle osterie e nelle bettole canzoni che glorificano il grande coraggio e valore della Leonessa di Romagna, mentre sul Duca di Valentinois non si sentiva mai nemmeno mezza strofa, solo, al massimo, qualche motto di dileggio per essersi fatto quasi battere da un cavaliere in sottana.

A Rodrigo, dunque, pareva vitale che in quella seconda fase Cesare non solo fosse spalleggiato dai migliori, ma anche da quelli che conoscevano meglio la zona e che potevano aiutarlo a capire come vincere il cuore della gente e non solo le difese di qualche rocca. Senza il consenso popolare, il potere non significava nulla.

“Vitellozzo Vitelli gli servirà...” disse, quasi tra sé, il papa, mentre si confrontava per l'ultima volta con il portavoce che avrebbe dovuto raggiungere i condottieri prescelti: “E Achille Tiberti conosco come nessuno quelle terre...”

“Devo cercare anche Giampaolo Baglioni, quindi?” domandò l'emissario papale, come ad avere conferma di una cosa che gli era stata già ribadita molte volte.

“Sì.” confermò il Borja: “Per quanto sembri assurdo, dopo quella brutta storia di Perugia, ora i soldati lo idolatrano... Vedremo di sfruttare questa cosa a nostro vantaggio.”

Sistemate le ultime cose, il pontefice congedò il suo portavoce e poi andò a cercare Cesare. Da che Alfonso d'Aragona era morto, non era strano trovarlo a vagare per le vigne del Belvedere, come assorto in qualche pensiero più grande di lui.

Infatti, anche quella volta, il Santo Padre lo trovò lì, mentre si perdeva tra le viti settembrine, al massimo della loro bellezza, pronte a essere vendemmiate.

“Quest'uva va colta.” disse piano Alessandro VI, strappando un acino a breve distanza dal figlio, che, non essendosi accorto della sua presenza, sussultò: “Tutte le cose, quando passa il loro tempo, finiscono a marcire...”

Il Valentino occhieggiò verso di lui, capendo che quella frase aveva un senso più profondo di quanto sembrasse, ma non fece domande.

Rodrigo, che ormai si era pienamente ripreso da tutte le traversie che il suo povero corpo aveva dovuto fronteggiare nell'estate, raddrizzò le spalle e, sovrastando in parte il Duca, lo afferrò per una spalla e, scuotendolo appena, spiegò: “Ragazzo mio, non ha senso che tu te ne stia qui a perdere le tue giornate! I tuoi luogotenenti stanno già organizzando la campagna! Pesaro, Faenza, Rimini..! Le terre del tuo impero aspettano te!”

Cesare deglutì e poi, sfuggendo lo sguardo del padre, annuì in silenzio.

“Gaspare Sanseverino è ridotto in povertà.” disse piano il pontefice, cambiando di colpo tono e strategia: “Stava scappando e gli hanno rubato tutto. I veneziani gli hanno fatto riavere i suoi forzieri e qualcuno gli ha addirittura regalato due cavalli perché impietosito dalla sua povertà...”

“Perché mi state dicendo questo?” domandò il Valentino, accigliandosi.

“Perché devi capire che le cose cambiano in fretta. I Sanseverino erano tra i più ricchi e arroganti signorotti del milanese e ora che lo Sforza è stato messo distrutto dal re di Francia, cosa resta loro?”

“Molto poco, a che mi dite.” rispose il giovane, sollevando un sopracciglio.

“Diciamo pure quasi nulla.” confermò Rodrigo, prendendo ancora qualche acino d'uva rossa e portandoseli alla bocca: “Nessun papa è vissuto in eterno. La Romagna non sarà alla tua portata per sempre.”

E, con quelle parole, mentre un rivolo di succo d'uva gli scivolava fuori dalle labbra, il papa diede una pacca sulla spalla del figlio, e lo lasciò solo a meditare. Prima di sera, il Duca di Valentinois arrivò nel salone in cui i luogotenenti stavano discutendo la logistica della battaglia e non se ne andò da lì fino a tarda notte.

 

Quando aveva cominciato a piovere, quel 19 settembre, Bernardino era in giro per la città. Aveva sentito alcuni mercanti dire che nel Mugello si stava scatenando un finimondo, tanto che la Sieve si era rigonfiata abbastanza da promettere a breve un'esondazione degna di memoria.

Così, un po' spaventato da quelle chiacchiere e un po' perché non ci teneva a infradiciarsi fino all'osso, il ragazzino, di quasi dieci anni, appena sentì le prime gocce di pioggia corse al palazzo degli Scali. Per la prima volta da che era a Firenze, nel momento stesso in cui varcò la soglia della porta di servizio delle cucine, ebbe la sensazione di essere a casa, o, almeno, in un luogo veramente sicuro.

Passò abbastanza inosservato, tra le cuoche, perché tutte erano già impegnate a preparare il pranzo, e così se la cavò senza domande, riuscendo in un lampo a tornare ai piani nobili del palazzo, raggiungendo i suoi fratelli.

Per la seconda volta nell'arco di pochi minuti, provò una sensazione piacevole, di calore e pace, qualcosa che il suo animo ramingo aveva sperimentato molto di rado. Se avesse dovuto dire quante volte, di preciso, si era sentito così, avrebbe potuto contare le occasioni sulle dita di una mano, se si escludevano i fumosi ricordi della sua prima infanzia, ovvero quando suo padre lo stringeva tra le braccia e lo copriva di baci.

Il 27 agosto, quindi relativamente da poco, era stato il quinto anniversario della morte del Barone, e il ragazzino, per quanto avesse cercato di non pensarci troppo, si era rattristato sapendo di non poter andare sulla tomba del padre, come invece faceva spesso, quando era a Forlì. In alternativa, era andato in San Lorenzo, su quella di Giovanni, ma non era stata la stessa cosa.

Cercando di scacciare la malinconia di quel pensiero, Bernardino, che ormai, proprio in memoria di quel padre che era morto cinque anni addietro, al di fuori dalla famiglia si faceva chiamare solo Carlo, raggiunse i suoi fratelli nella sala delle letture e restò con loro fino all'ora di pranzo.

Passato il pasto, abbastanza frugale, Ottaviano si ritirò nelle sue stanze, incupito più del solito perché Cesare, da un paio di giorni, aveva lasciato Firenze, con la promessa di tornare presto, per badare ai suoi affari a Pisa. Sforzino, invece, chiedendo di poter avere qualche biscotto secco da portare con sé, era tornato chino sui libri, distraendosi come faceva sempre in quei lunghi pomeriggi di inizio autunno, leggendo e studiando.

Bernardino, invece, aspettava di sentire cosa volesse fare Galeazzo. Fuori diluviava come mai aveva visto diluviare in vita sua, perciò di uscire ancora non se ne parlava. Però non voleva nemmeno stare da solo. Tendeva ad annoiarsi in fretta in quel periodo e, quando si annoiava, spesso i cattivi pensieri prendevano il sopravvento e lo rendevano più irrequieto del solito.

Così aveva ben pensato di stare con il fratello che, tra tutti, dava l'impressione di accettarlo meglio, anzi, di volergli proprio bene.

“Aspettami un attimo in stanza.” gli disse però il Riario, quando capì che il più piccolo voleva seguirlo a tutti i costi: “Devo scambiare due parole con Madonna Scali.”

“Vengo con te.” si offrì subito il Feo.

Galeazzo, con modi gentili, scosse piano il capo e, con un breve sorriso, gli spiegò: “Dopo ti riferirò tutto, ma voglio essere da solo.”

A quel punto, il più giovane non aveva più potuto aggiungere altro e, un po' risentito, era andato subito in camera. Sapeva che il fratello voleva domandare ad Alessandra se ci fossero altre notizie da Roma, e sapeva anche che le avrebbe chiesto qualcosa su Bianca e Giovannino. E magari anche di Fortunati, dato che nella sua ultima missiva aveva fatto sapere che, probabilmente, sarebbe tornato a breve a Firenze. Non capiva, dunque, perché il Riario non l'avesse voluto con sé.

“Che stai facendo?” la voce di Galeazzo arrivò dalla porta ben prima che Bernardino se l'aspettasse.

Nell'attesa, il ragazzino aveva guardato tra gli averi del fratello e aveva trovato i guanti imbottiti di pelliccia di coniglio che Bianca aveva confezionato per Giovanni Medici e che poi la loro madre aveva lasciato in dono a Galeazzo. Senza un motivo preciso, se li era passati tra le mani e aveva provato a infilarseli, trovandoli decisamente troppo grossi. Il calore, però, che vi aveva trovato, gli avevano dato un altro po' di conforto, unico sentimento che quel giorno cercava in ogni dove. E così aveva continuato a osservarli e passarli in rassegna, come se fossero un contatto diretto tra lui e il povero Medici, unico uomo che avesse mai considerato alla stregua di un padre, dopo la morte di Giacomo.

“Niente, scusami.” disse in fretta il Riario, rimettendo immediatamente a posto i guanti.

Galeazzo, con un sospiro, andò a sedersi sul letto, accanto al fratello. Avevano cinque anni di differenza, eppure in momento come quelli, si sentiva quasi un padre per lui. Malgrado l'espressione battagliera, Bernardino gli sembrava un bambino spaventato e bisognoso di protezione e lui, che aveva già quasi quindici anni, si sentiva in dovere di fornirgli l'appoggio che cercava.

“Cosa ti ha detto Madonna Scali?” chiese il Feo, abbassando gli occhi.

“Mi ha detto che ti scusa per le tue continue uscite, ma ti prega non scappare più di casa.” rispose il ragazzo: “Si accorge, di quando esci di nascosto, e ha paura che ti succeda qualcosa. Ricordati quanto ha investito, e quanto ha già perso, per aiutarci. Non possiamo ripagarla dandole dei problemi.”

Bernardino si accigliò e poi, cercando le iridi verdi del maggiore, domandò: “Avete parlato solo di me?”

“Sì.” ammise il Riario: “Madonna Scali mi aveva già detto di redarguirti, e oggi ho capito che era irritata, quando ti ha visto rientrare di nascosto... Non voglio che ci siano attriti. Per favore, cerca di limitarti.”

Il piccolo Feo strinse i denti e poi, con un sospiro pesante, concesse: “Tanto, finché piove a questo modo...”

Fuori, in effetti, la pioggia continuava a battere con insistenza, aumentando la sua violenza via via che passavano le ore.

Tanto per dire qualcosa, Bernardino riferì a Galeazzo quanto aveva sentito quella mattina, riguardo la Sieve e la situazione nel Mugello. Il fratello, dopo aver ribadito una volta di più che quel genere di uscite erano da evitare, sia perché qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo, sia perché la città era pericolosa a prescindere, si alzò dal letto e andò alla finestra.

“Vieni a vedere...” lo chiamò.

Il Feo gli arrivò accanto e osservò attraverso il vetro. Si vedeva male, non si trattava di una finestra molto trasparente, ma anche così poteva capire che cosa avesse attirato l'attenzione dell'altro.

Con cautela, rispondendo alla propria curiosità e anche alla tacita richiesta di Bernardino, il Riario aprì appena l'imposta ed entrambi videro subito la strada trasformata in una sorta di fiume.

“Dici che è uscito l'Arno?” chiese, molto preoccupato il Feo.

L'altro scosse il capo: “Fosse così, avremmo l'acqua anche in casa...” poi sospirò, mentre richiudeva per impedire alla pioggia di bagnarli: “Ma di certo tanta pioggia tutta assieme dubito che cada spesso, qui a Firenze...”

“Chissà se piove anche a Roma...” sospirò il più piccolo, quasi soprappensiero.

Galeazzo si schiarì la voce e raddrizzò le spalle. Anche lui aveva pensato la stessa cosa, ma non aveva avuto il coraggio di dirla a voce alta. Pensava di continuo alla loro madre e si interrogava senza sosta su come stesse e su dove l'avessero rinchiusa, alla fine. In certi momenti di profondo sconforto, specie di notte, si convinceva addirittura che fosse già morta.

“Mi mancano i nostri fratelli, Bianca e Giovannino.” proseguì Bernardino, sentendo la gola bruciare, ma lasciandosi trascinare dai suoi pensieri, come se lo scrosciare della pioggia su Firenze gli desse un particolare permesso, quello di lasciarsi andare.

Il Riario intravide gli occhi velati di lacrime del fratellino e, cercando un contatto fisico a cui non era molto avvezzo, ma che sapeva molto apprezzato dal Feo, gli strinse un braccio attorno alle spalle e mormorò: “Mancano anche a me, ma sono al sicuro, è questo che conta.”

“Lo so, però...” provò a dire Bernardino, ma l'altro lo interruppe subito.

“Non potevamo restare tutti in questo palazzo.” gli fece presente: “Siamo già in tanti. Giovannino non deve temere solo i francesi, ma anche suo zio Lorenzo: andava protetto il più possibile. Nostra madre ha scelto Bianca, per stare con lui, perché sa che tra noi è l'unica capace di cavarsela veramente da sola.”

“Mi mancano lo stesso.” ribadì Bernardino, con tono triste e tirando su con il naso.

Galeazzo, allora, un po' riluttante, ma ben deciso a dar sollievo al fratellino, lo strinse a sé, abbracciandolo per qualche secondo e poi, posandogli le mani sulle spalle, lo fissò negli occhi e gli disse: “Nostra madre ha fatto tutto quello che poteva, per metterci al sicuro. Dobbiamo fare del nostro meglio per non vanificare i suoi sforzi.”

Il Feo annuì e poi, quando entrambi si furono risieduti sul letto, pronti ad ammazzare il tempo fino all'ora di cena parlando di armi e guerra – come spesso facevano, in effetti – Bernardino non si trattenne e sospirò di nuovo: “Chissà se piove anche a Roma...”

Il Riario guardò verso la finestra, che ormai veniva colpita da raffiche impazzite di vento e pioggia, e, come se volesse davvero che quella tempesta diventasse un tramite tra loro e la loro madre, soffiò: “Forse sì...”

 

Caterina aveva la testa che scoppiava. Le faceva male tutto: era come se l'umidità della sua cella fosse diventata ormai un tutt'uno con lei.

Era riuscita a dormire per un po', non avrebbe saputo dire di preciso per quanto, ma da quando si era risvegliata, non aveva più trovato pace. Se solo avesse avuto accesso, come un tempo, ai suoi preparati, avrebbe preso qualcosa per spegnere l'emicrania, o, ancor più probabile, avrebbe assunto una buona dose del suo rimedio a far dormire, in modo da perdere la coscienza anche per un giorno intero.

Tutto, secondo lei, era meglio che vegliare in una gabbia come quella.

Di quando in quando, stringendo gli occhi nel buio, cercava di intravedere qualcosa al di sopra della sua testa. Il cortile, però, era estremamente tranquillo. Poteva essere un sabato... Da quei pochi calcoli che aveva imparato a fare, aveva scoperto che quello era il giorno della settimana più pacifico, a Castel Sant'Angelo.

Stava per riassopirsi, quando sentì qualche goccia sfiorarle il viso. Stava piovigginando, su Roma, e poteva solo sperare che quella pioggia non si trasformasse in un acquazzone. L'ultima volta le era bastata per capire che un simile evento atmosferico, per lei, poteva significare come minimo prendere una polmonite.

Si sentiva grata al destino, pensando che, almeno, nell'Urbe nevicava molto di rado.

Istintivamente, la Leonessa si domandò se si suoi figli fossero al riparo dalla pioggia, sempre che anche a Firenze ci fosse quel clima. Ovviamente lo erano, lo sapeva. Aveva fatto in modo di assicurare loro un tetto sopra la testa. Sperava solo che Fortunati riuscisse a impedire a Ottaviano e Cesare di vendere Giovannino a Lorenzo Medici. E sperare, ormai, era davvero l'unica cosa che potesse fare in merito a ciò.

Mentre si rintanava il più possibile contro la parete, per non infradiciarsi prima del tempo, la Tigre venne scossa da qualche colpo di tosse. Si toccò la fronte con la mano, e si rese conto di scottare. Le venne quasi da ridere: ormai a nessuno importava più della sua salute, dunque avrebbe anche potuto prendere fuoco per colpa della febbre, mandare in cenere l'intero castello, e nessuno avrebbe battuto ciglio.

“Che hai da ridere?!” la guardia, Caterina la riconobbe subito, era la più collerica tra quelle che presidiavano la porta della sua cella.

Non era la prima volta che la riprendeva a quel modo, quando sentiva qualche rumore strano provenire da dentro. In un certo senso, la Sforza si divertiva, quando era lui a tenerla d'occhio.

Non l'aveva mai visto, ma dalla voce se lo immaginava grande e grosso, eppure era evidente che avesse paura di lei. La solerzia, per esempio, con cui indagava su ogni cosa, come quella risata, secondo lei denunciava la sua scarsa sicurezza in sé.

'Come se io adesso – pensò la donna, sollevando a fatica le braccia, che avevano già perso quasi tutta la massa muscolare che le avevano sempre contraddistinte – potessi davvero aver ragione di un uomo adulto...'

“Che giorno è oggi?” chiese la Tigre, approfittando dell'attenzione che stava ricevendo.

Malgrado tutto, quello restava sempre uno dei suoi crucci maggiori. Non avere idea di quanto tempo di preciso fosse trascorso da che era stata messa a Castel Sant'Angelo, a volte la faceva quasi impazzire.

“Che ti importa?!” ribatté l'uomo, da fuori: “Ai morti le date non interessano.”

Facendo un calcolo a spanne con l'ultima volta in cui le era stata data qualche informazione, la Leonessa aggrottò la fronte, sentendo di nuovo le tempie pulsare come impazzite, e domandò: “Si è già in settembre? O è ancora agosto?”

Fu il turno del carceriere di ridere, e, senza trattenersi, sbottò: “Ma quale agosto! Ormai siamo quasi in ottobre!”

“In che giorno di settembre siamo, allora?” chiese, quasi ossessiva, Caterina, mentre la pioggia iniziava a entrare con maggior forza dalle feritoie del soffitto, mettendosi poi a tossire.

“Hai parlato troppo. Risparmia il fiato per respirare.” concluse l'uomo e, da quel momento, non le rispose più.

Caterina, lasciata di nuovo sola con la sua disperazione, cercò di pensare in che giorno di settembre si fosse. Più provava a fare calcoli, però, più la testa le faceva male. Alla fine rinunciò.

Stringendosi le braccia al petto, ebbe solo la lucidità di pensare che ormai l'anniversario della morte del suo Giacomo doveva essere passato da un po', e probabilmente lo stesso valeva per quello di Giovanni, che era morto il 14 agosto di due anni addietro. Se, all'epoca, in quella stanza buia a San Pietro in Bagno, qualcuno le avesse detto che nell'arco di due anni sarebbe finita nelle viscere di Castel Sant'Angelo alla stregua di una condannata a morte...

Asciugandosi una lacrima, la donna richiamò a sé le immagini dei suoi due mariti. Le sembravano così vicini e presenti da riuscire quasi a percepire il loro abbraccio silenzioso. Quella sensazione non la rassicurò: era come se i morti la stessero chiamando a sé, e, questa volta, le risultava difficile staccarsi da loro e restare ancorata al mondo dei vivi.

Forse per la febbre che tornava a salire, forse per lo straniamento che quei pensieri le avevano messo addosso, la donna disse, a voce piena, proprio come se Giacomo e Giovanni potessero sentirla: “Vegliate sui nostri figli, vi prego.”

Da fuori, il carceriere impiccione, chiese di nuovo quale fosse il problema, ma la Tigre non gli rispose, perché si era accasciata su un fianco, e, assopita o priva di sensi che fosse, se qualcuno fosse entrato per vederla in quel momento avrebbe anche potuto scambiarla per un cadavere.

 

Astorre Manfredi, con i capelli biondi ben acconciati e un abito di finissimo taglio addosso, si era presentato davanti al Consiglio degli Anziani con aria cupa, per sentire cosa avessero da dire riguardo la situazione di Faenza.

Benché non avesse ancora quindici anni, il ragazzo aveva ormai un'espressione matura, e dalle sue labbra di rado usciva una parola fuori posto. Perfino Castagnino, che gli aveva fatto sempre da ombra, manovrandolo più di quanto fosse lecito, ultimamente faticava a imporgli la propria volontà.

I faentini, quindi, avevano cominciato a stimarlo sinceramente, abbastanza, almeno, da riconoscerne pienamente l'autorità, malgrado la giovane età. Era la Val di Lamone a rifiutarlo, accusandolo ancora di essere il mandante dell'omicidio di Ottaviano Manfredi, ma Astorre stesso aveva capito che quella terra la si poteva ormai ritenere persa, e non era il caso di spendere tempo e uomini per riprendersela, almeno per il momento.

“Venezia deve battere i turchi in Friuli.” disse il Manfredi, rispondendo a uno degli Anziani, che aveva alzato la voce per inveire contro il Doge, accusandolo di essere un voltafaccia: “Per la causa cristiana e per il benessere di tutti, è fondamentale che i turchi non imperversino in Italia.”

“Quella è solo una scusa!” si incaponì il membro del Consiglio: “Hanno fatto quello che tornava loro comodo, chinando la testa al papa e lavandosene le mani! Hanno rescisso tutte le condotte romagnole solo perché gli è stato fatto capire che non ci avrebbero guadagnato nulla!”

“Stiamo ancora aspettando le risposte di Francesco Gonzaga e Giovanni Bentivoglio.” fece presente Astorre, abbassando gli occhi e tradendo per la prima volta dall'inizio della riunione, una certa agitazione: “Per questo chiedo alla popolazione e all'esercito di restare al mio fianco e prepararsi a difendere Faenza.”

“Cesare Borja ha già lasciato Roma.” fece presente Castagnino, che, seppur in disparte, prendeva parte come sempre alla riunione: “Dicono che sia quasi alle porte di Rimini, e sappiamo bene che Pandolfo Malatesta non proverà nemmeno a opporsi a lui. Nel giro di qualche settimana sarà a Pesaro e prima di Natale sarà qui da noi! E ci farà fare la fine che ha fatto fare a quella cagna della Sforza!”

“Non parlate in questi termini di mia suocera!” sbottò il Manfredi, perdendo la pazienza una volta per tutte: “Ricordatevi che io sono sposato a Madonna Bianca Riario e se ho deciso di resistere è anche per sconfiggere il figlio del papa e ridare ai miei cognati le terre che spettano loro!”

Il silenzio accolse quell'affermazione. Tutti sapevano che il ragazzino non si era mai arreso davanti all'inconsistenza del patto matrimoniale che ancora lo legava alla Riario, ma se questa sua strenua convinzione serviva a creare coesione e a trasformarlo in un comandante carismatico, nessuno l'avrebbe disilluso prima del tempo.

“Noi combatteremo per la nostra terra e per la nostra gente.” concluse, secco, Astorre, mostrando una durezza che fino a pochi mesi prima non aveva mai lasciato trasparire e che a molti ricordava la freddezza di cui era stata capace sua madre, Francesco Bentivoglio: “Aspettiamo aiuti da Mantova e da Bologna e, quando arriveranno, sapremo bene come impiegarli. Che si chiede alla città che intenda fare: chi vorrà essere al mio fianco, vivrà da uomo libero o morirà nel tentativo di restarlo.”

Gli Anziani borbottarono qualcosa, ma nessuno ribatté. Perfino Castagnino fece un sospiro e sollevò appena le mani, come a dire che non c'era nulla da aggiungere.

Quella sera, rimasto solo, Astorre si mise all'inginocchiatoio e pregò che tutto andasse come sperava. Dai Bentivoglio, in particolare, si aspettava un buon numero di uomini e di armi, perché sentiva che il debito che loro avevano nei suoi confronti fosse enorme. Sua madre, Francesca, una Bentivoglio, aveva assassinato suo padre Galeotto. Lui non aveva mai preteso vendetta, per quel crimine, ma ora che poteva chiedere almeno un indennizzo, si aspettava che Bologna rispondesse e lo facesse in fretta.

Facendosi il segno della croce, il ragazzino richiamò alla memoria il volto di Bianca Riario. Era un ricordo sbiadito e probabilmente alterato dal tempo, ma gli bastava per sentirsi un cavaliere senza macchia e senza paura come quelli di cui tanto amava sentir cantare i guitti.

Nella sua ottica ancora da bambino, però, non si rendeva conto di quanto sangue era servito, a tutti quei cavalieri mirabili, per diventare tali...

   
 
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