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Autore: Adeia Di Elferas    14/11/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Pandolfo faceva fatica a restare presente alle parole di Roberto Pedroni. Il luogotenente di Cesare Borja parlava e parlava, riassumendo in modo puntuale tutto ciò che era stato deciso nel corso del loro lungo colloquio, ma il signore di Rimini riusciva a pensare solo a cosa sarebbe successo dopo aver apposto la firma sui documenti che avrebbero sancito la sua resa.

In realtà era da giorni che sapeva che quel momento sarebbe arrivato, eppure, all'alba di quel 10 ottobre, quando si era svegliato e gli era stato annunciato che le insegne borgiane erano già visibili all'orizzonte, aveva avuto dei crampi allo stomaco così forti da doversi chiudere nella ritirata, riuscendo a uscirne solo dopo una buona mezz'ora.

Non era tanto la paura del momento: sapeva che rendendosi docile, forse, avrebbe salvato la vita. A spaventarlo era non sapere come avrebbe reagito la sua gente – che, comunque, l'aveva lasciato del tutto solo in quella battaglia persa – e come avrebbero fatto lui e Violante a risollevarsi.

Mentre Pedroni passava a elencare uno a uno i pezzi di artiglieria che il Malatesta aveva deciso di cedere, il Pandolfaccio si sentì quasi fiero di sé, per aver avuto la prontezza, un paio di settimane addietro, di far partire sua moglie e i suoi figli. Aveva trovato loro una buona scorta e li aveva fatti subito scappare a Bologna. Aveva dato loro tutti i loro beni trasportabili e aveva implorato la moglie di non urtarsi con il padre Giovanni Bentivoglio, perché, al momento, era la loro unica via di salvezza.

“Siamo d'accordo su tutto, allora?” chiese Roberto, facendo un cenno al soldato che gli guardava le spalle, affinché mettesse davanti al Malatesta il necessario per firmare l'accordo.

Pandolfo prese in mano la penna, come deciso a porre subito fine a quello strazio. Eppure, appena prima di grattare sulla pagina, ebbe un momento di esitazione. Stava cedendo un dominio che aveva fatto grande il suo cognome. Non era una cosa da poco.

Stava svendendo Rimini e con lei Sarsina e Meldola. Per cosa? Cinquemilacinquecento ducati. E la vita. Questo andava ricordato. E stava anche regalando – perché cedere a un prezzo di duemilanovecento ducati era sinonimo di regalare – i suoi pezzi d'artiglieria. Però, assieme a quei pochi ducati, c'era un'altra cosa che gli veniva corrisposta: la vita.

Non poteva scordare che la cosa che più pesava, in quell'accordo, apparentemente così svantaggioso, era la sua vita. Che se ne sarebbe fatto, di terre e armi, senza la vita?

“Nulla...” borbottò tra sé, mentre firmava.

Pedroni non fece domande, malgrado quel sospiro l'avesse incuriosito e poi, sorridendo, riprese in mano le pagine dell'accordo e disse: “Va bene. Mio figlio vi sta già aspettando al porto.”

Pandolfo si era quasi dimenticato di quella clausola. Sicuramente costretto dal Valentino, Roberto aveva incluso un suo figlio naturale come garanzia dell'accordo: sarebbe stato in balia del Malatesta almeno finché l'uomo non fosse stato al sicuro, lontano da Rimini.

“Se è tutto...” fece il Pandolfaccio, con lo sguardo assente, passandosi una mano tra i capelli neri, lunghi e inumiditi da un sudore freddo e appiccicaticcio, figlio di un nervosismo greve che gli stava rendendo ancora più odioso il clima freddo di quel giorno.

“Se volete, vi faccio scortare al porto da un paio di miei soldati in armi...” fece a quel punto Pedroni: “Immagino che non vi sentiate troppo sereno, ad attraversare la vostra città da solo... Ho sentito dire che non siete molto amato, dai vostri riminesi...”

Pandolfo si accigliò per un solo istante. Non poteva negare che Roberto avesse ragione. Però non aveva intenzione di lasciare Rimini scortato da soldati nemici, come qualcuno che si fosse venduto al miglior offerente. Non aveva nemmeno lo scudo di un'eroica resistenza, a difendere il suo onore...

La Tigre di Forlì era stata scortata fuori dalla sua città circondata da nemici, ma aveva potuto farlo a testa alta: tutti ne parlavano di continuo, di quanto fosse stata onorevole, alla fine, la sua resa. Lei aveva combattuto fin quasi a vincere, fin quasi a morire... Il Malatesta, invece, si era arreso non appena gli era stata offerta la possibilità di farlo.

Se lui avesse accettato di lasciare Rimini in quel modo, quindi, sarebbe stato ricordato come quello che si era venduto e aveva venduto i riminesi pur di salvarsi la pelle. Che fosse l'esatta verità, poco contava: nessuno doveva pensarlo.

“Farò da me...” disse quindi il Pandolfaccio, con una strana serenità, come se, ormai, le decisioni peggiori fossero già state prese: “Ora scusatemi, ma devo vedere una persona, prima di andarmene...” e detto ciò, lasciò la stanza prima che Pedroni potesse aggiungere altro.

Attraversò il suo palazzo con passo via via più rapido, il respiro che si faceva affannoso e la vista che si appannava. Cercava di ragionare, ma più ci provava, più il panico lo faceva suo schiavo.

L'umidità e l'odore di salmastro che caratterizzavano la sua dimora – gli stessi difetti che Violante aveva tanto odiato – gli entravano nelle ossa e nelle narici come un monito. Stava tradendo il suo stesso sangue, ma non poteva evitarlo.

Sapeva come scappare: si sarebbe travestito. Con addosso abiti poveri, nessuno l'avrebbe riconosciuto e sarebbe arrivato al porto sano e salvo.

“Antioco! Cercavo voi!” gridò il Pandolfaccio, intravedendo Antioco Tiberti, uno dei suoi più stretti collaboratori, almeno negli ultimi tempi.

Sapeva di lui troppe cose, troppi segreti. Nelle mani dei francesi o dei papali sarebbe stato un arma.

“Mio signore.” fece lui, compassato e compito come sempre.

“Vieni con me.” lo incitò il Malatesta, facendo cenno di seguirlo.

Lo portò in una delle camere più anguste del palazzo, ma sapeva che lì, almeno, non li avrebbe disturbati nessuno.

“Stavo preparando i vostri bagagli.” disse Antioco: “Ho anche fatto preparare il vostro cane per...”

Il cane. Sentir parlare del suo amato cane da caccia, l'unico essere vivente che l'avesse mai accettato davvero per quello che era, Pandolfo non resistette più.

Quasi piangendo, estrasse in fretta lo stiletto che teneva nascosto sotto la giubba e, prima che il Tiberti capisse cosa stava accadendo, glielo conficcò nella gola.

L'uomo annaspò, boccheggiò, sgranò gli occhi, mentre dal suo collo zampillava sangue rosso e caldo che andava a colpire a fiotti il Malatesta. Pandolfo, per la prima volta in vita sua, provò pietà per la sua vittima. Non aveva mai avuto un tal senso di disperazione, nell'uccidere qualcuno, ma aveva dovuto farlo.

Mentre il corpo senza vita di Antioco cadeva a terra, il Pandolfaccio si ripeteva che era un cesenate, un parente di Achille Tiberti e che, di certo, avrebbe detto tutto quello che sapeva ai francesi, rendendo impossibile un tentativo di riprendersi Rimini... Era stato un male, ma necessario.

Controllando che non stesse passando nessuno nel corridoio, il Malatesta sgattaiolò fuori. Gli servivano dei vestiti puliti e consoni al suo piano.

La calma apparente che aveva inghiottito il suo palazzo, a Pandolfo sembrava surreale. Calcolando che si stava di fatto cambiando signore, e che a breve, forse, se aveva capito bene, addirittura quel giorno, o il giorno dopo, sarebbe arrivato niente meno che Cesare Borja, era strano vedere gli ambienti pressoché deserti e non sentire nessuna frase concitata, nessun grido...

Quando finalmente scorse un servo, che per di più aveva più o meno la sua stessa taglia, il Malatesta lo richiamò a sé con un cenno: “Ehi! Ehi!”

Il giovane, senza farsi domande, accorse al richiamo del suo signore. Quando, però, si accorse che questi era coperto di sangue, ebbe un attimo di esitazione. Spettò al Pandolfaccio spegnere sul nascere quel tentennamento, tirandolo per una manica e facendolo entrare nella stanza in cui giaceva il corpo senza vita di Antioco.

Il servo per poco non scivolò sul sangue, ormai copiosissimo, che imbrattava il pavimento. Non disse una parola, ma si limitò a guardare il suo padrone, che gli diceva di spogliarsi.

“E stai attento a non sporcarti gli abiti – lo riprese – altrimenti, tanto vale...”

Mentre anche il Malatesta si svestiva, fino a trovarsi nudo, ripulendosi il volto dal sangue e, per quello che riuscì, anche le mani, il giovane lo guardava a intermittenza, occhieggiando poi verso il corpo senza vita di Tiberti, chiedendosi tante cose, senza, però, avere il coraggio di esternare i propri dubbi a voce alta.

“Dammi...” fece Pandolfo, prendendo gli abiti del servo e indossandoli in fretta.

Gli stavano un po' larghi, ma per quello che doveva fare, andavano più che bene. Diede un rapido sguardo al ragazzo che glieli aveva ceduti, e poi, intimandogli di aspettare almeno mezz'ora prima di uscire di lì, se ne andò, ignorando la debole lamentela del servo, che, a quanto pareva, non voleva rimanere così a lungo accanto a un cadavere dissanguato.

Avrebbe voluto andare a prendere il suo cane da caccia, prima di lasciare Rimini, ma sentiva di non averne il tempo. Gli piangeva il cuore alla sola idea di non portarlo con sé, ma confidava di poterlo recuperare in un secondo momento.

Senza che nessuno si accorgesse di lui, come un'ombra scivolò fuori dal palazzo, raggiunse la strada e riuscì ad attraversare tutta Rimini senza essere notato. Nemmeno i suoi capelli neri, di norma così riconoscibili, avevano destato dei sospetti.

Arrivato al porto, riconobbe subito la nave che gli era stata destinata. Si fece riconoscere solo allora. Salito a bordo, gli venne presentato il figlio naturale di Roberto Pedroni, il suo ostaggio.

Il Malatesta, che di solito si sarebbe soffermato a prendersi gioco, o almeno a spaventare un po' il ragazzo, quella volta mise invece fretta a tutti, gracchiando come un corvo: “Salpate l'ancora! Su, andiamocene! Voglio essere al porto di Cervia il prima possibile!”

Solo quando vide la costa allontanarsi e sentì l'aria frizzante di mare sfiorargli il volto, solo allora il Pandolfaccio si permise di respirare di nuovo.

 

“Non capisco perché ne stiate parlando con me.” disse Pier Soderini, strizzando appena gli occhi e poi tornando a guardare verso la piazza su cui si affacciava il Palazzo della Signoria.

Lorenzo Medici, che aveva bloccato il Gonfaloniere di Giustizia proprio appena prima che entrasse dal portone principale, si finse stupito: “Ne parlo con voi, perché voi siete una delle massime autorità, a riguardo delle questioni militari di Firenze. Specie ora, che siete membri del Consiglio dei Dieci di Libertà e Pace.”

Soderini accennò un sorriso e poi, convincendosi finalmente a guardare il suo interlocutore, abbassò ancora di più la voce e disse: “Voi volete che io faccia altre pressioni per favorire i Francesi solo perché vostra cognata è prigioniera del papa... Non so che cosa abbiate in mente, ma ho capito che volete fare di tutto, per convincerli a tenersela o addirittura a ucciderla.”

“Da come ne parlate, sembra che vi siate scordato di quando quella strega è venuta qui, in questo onorato Palazzo – fece il Popolano, indicando l'edificio accanto a loro – a battere il pugno sul vostro tavolo...”

Piero in realtà non aveva dimenticato affatto quel momento. Già era stato un inaccettabile affronto che una donna si fosse permessa di entrare in quel palazzo, figurarsi prendere la parola e battere il pugno chiuso sul suo leggio...

“In ogni caso, non vedo questo come...” cominciò a dire Soderini, scuotendo piano il capo, facendosi un po' di lato, quasi per non farsi vedere, mentre qualche membro della Signoria cominciava ad arrivare.

“Dovete assolutamente convincere tutti dell'importanza di restare dalla parte di Luigi e del papa, specie adesso che è morto il giovane Aragona a Roma, e che Napoli inizia ad avere paura!” disse, con fermezza Lorenzo.

Il Gonfaloniere, che fino a quel momento aveva tenuto tutto per sé, aspettando di esporre le notizie che aveva ricevuto solo iniziata la riunione del Consiglio, non ebbe più la pazienza di tamponare le insistenze del Medici e sbottò: “Per colpa delle vostre rimostranze, ho mandato quei buoni a nulla di Francesco Della Casa e di Niccolò Machiavelli in Francia, a cercare di convincere il re a mandarci degli aiuti contro Pisa! Io stesso sono stato a Milano in aprile, per chiedere aiuti tramite il Cardinale D'Amboise! Poi a settembre a Bologna, a implorare quel facinoroso del Cardinale Giulio Della Rovere, per chiedergli di ritirare le truppe inviate a Pistoia! E che abbiamo ottenuto?! Nulla! Solo che adesso il figlio del papa è di nuovo in Romagna, e quel pazzo di Vitelli, che è con lui, forse vuole convincerlo ad attaccare anche Firenze, intanto che siamo sguarniti!”

Lorenzo sbatté le palpebre una decina di volte, prima di metabolizzare quell'informazione. Era stato accecato, fino a quel momento, dalla sola idea che più la Francia era potente, più il papa era dalla loro parte, più la sua tesi contro Caterina Sforza sarebbe stata forte. Prigioniera di Luigi XII e Alessandro VI, di due alleati di Firenze, risultava automaticamente una nemica della Repubblica, e, come tale, inadatta alla custodia del piccolo Giovanni.

Tuttavia, quello che Soderini aveva appena detto stava sgretolando tutta l'acredine che il Popolano aveva covato in sé fino a quel momento.

“Il Valentino non ci attaccherà.” disse, fingendosi certissimo delle sue parole: “Non può.”

“E chi glielo impedirà?” chiese, con uno sbuffo il Gonfaloniere: “Voi?” soggiunse l'uomo, con ostentato sarcasmo.

Mentre Piero gli voltava le spalle ed entrava finalmente nel palazzo, Lorenzo deglutì un paio di volte. Sentiva il cuore battere veloce, ma a un ritmo irregolare. Gli capitava, di recente, quando era molto agitato.

Diede uno sguardo veloce al cielo grigio di quel lunedì di ottobre e poi, con passo più malfermo di quanto avrebbe voluto, andò verso il portone, sospinto in egual misura da incredulità e confusione: aveva davvero perso così tanto la rotta, da quando si era riproposto di distruggere la Tigre di Forlì e recuperare il patrimonio di Giovanni in modo legale, da scordarsi realmente della sua Firenze?

Quale che fosse la realtà, una volta che raggiunse il suo scranno, si rese conto che non gli interessava più: Firenze, in fondo, era solo una città come tante, mentre il suo onore, quello non poteva essere calpestato da una donna che aveva ingannato suo fratello a tal punto da riuscire quasi a prosciugare tutti i suoi beni.

Firenze non andava persa, ovviamente, ma si poteva accettare di farla soffrire un po', se fosse servito a rimettere le altre cose nel loro giusto ordine.

 

Ben lungi dall'essere disperati dalla partenza del loro legittimo signore, i riminesi si erano dati alla festa il giorno stesso della fuga del Pandolfaccio. I pontifici avevano fatto del loro per spingere le esternazioni di gioia dei cittadini, tanto che venne addirittura celebrata una solenne Messa in cattedrale, officiata da un messo del papa: il Vescovo Olivieri.

Da quel punto in poi, per Cesare tutto sembrò abbastanza semplice. Presa Rimini, il 13 ottobre il Borja venne nominato signore di Pesare, ma per il momento senza la rocca. Giovanni Sforza, spaventato dall'avanzata dei pontifici, aveva preso la fuga del Malatesta come una sorta di consiglio.

Tuttavia, un po' per riguardo al suo nome – non poteva scordare che solo Caterina, tra tutti gli Sforza, aveva fatto concretamente qualcosa per difendere l'onore della famiglia – e un po' per prendere tempo e organizzarsi una nuova vita, non aveva ceduto subito tutto in toto.

In pratica, si consegnò ufficialmente a Cesare, ma con la clausola che fosse il popolo a eleggerlo nuovo signore della città. Per farlo, bisognava attendere il suo arrivo a Pesaro. Forse stava guadagnando poco più che una manciata di giorni, ma allo Sforza sembravano un'eternità.

In più la rocca, quasi a voler riecheggiare l'impresa dell'eroica difesa della rocca di Ravaldino, non sarebbe stata ceduta: a proteggerla, Giovanni mise Giorgio Attendolo da Cotignola. Era stato proprio lui a ricordargli la loro parentela, e, ancor di più, a presentarsi come un reduce delle battaglie di Forlì: una garanzia, insomma, di fedeltà e valore.

Il Duca di Valentinois, però, desideroso di dimenticare i suoi problemi familiari e di proseguire la sua cavalcata verso la gloria, accettò tutto di buon grado, considerando quindi Pesaro già presa.

E in effetti in quei giorni la sua ascesa sembrava inarrestabile. Il 18 ottobre il Valentino si vide proclamare Gentiluomo della Serenissima dal Doge, che, impensierito per le tensioni con il papa e con la Francia, aveva pensato che una carica del genere, assieme al dono di un bellissimo palazzo in Venezia, sarebbe stata sufficiente per appianare ogni possibile divergenza.

Tutto si era inceppato dall'oggi al domani, quando Vitellozzo Vitelli si era presentato da Cesare a lamentarsi del fatto che i suoi uomini non avevano ancora visto un soldo. Il Borja, con sufficienza, si era messo a ridere e gli aveva detto di andare pure a Roma, da suo padre, a lamentarsene. Prima di sera lui e Giampaolo Baglioni avevano lasciato il campo, diretti all'Urbe.

L'attesa del loro ritorno, per fortuna, non sembrava destinata a durare molto. Sconvolto nel vederli di nuovo in Vaticano, Alessandro VI aveva concesso loro un sacco di promesse e il permesso di saccheggiare Montefalco, a mo' di indennizzo.

Cesare, tenuto in continuo aggiornamento dai suoi portavoce, si spostò a Fano, terra del Duca di Urbino, dove aspettava di ricongiungersi ai due condottieri.

Depredato Montefalco, come permesso dal papa, Vitellozzo e Giampaolo decisero di passare da Torgiano, Bettona e Deruta. Si trattava di una propaggine dei territori dei Baglioni, quindi un passaggio sicuro, l'ideale per far riposare le truppe – circa cinquecento fanti – e arrivare a Fano senza problemi.

Informato, il Valentino era stato favorevole a quella breve deviazione, tanto che, quasi a commemorare la cosa, aveva voluto incontrare il pittore soprannominato Pinturicchio, che viveva proprio a Deruta, e di cui aveva avuto modo di apprezzare già il lavoro.

I soldati spagnoli al seguito di Vitellozzo, però, contravvenendo a ogni ordine, nel momento stesso in cui toccarono Deruta, si comportarono esattamente come avevano fatto a Montefalco, se non peggio. Spogliarono di ogni bene i paesani, svaligiarono le case, distrussero ogni cosa, sporcando volutamente con i propri escrementi ogni vettovaglia e ogni fonte d'acqua pubblica.

La notizia arrivò in un lampo a Fano.

“Sono stati i soldati al seguito di Vitelli?” chiese, spento, il Valentino.

Il messaggero annuì e continuò a raccontare nel dettaglio il comportamento barbaro di quei mercenari, finendo per dire: “Ora tutti aspettano un vostro cenno.”

Cesare sospirò. Quel giorno era di pessimo umore. Non poteva non pensare che sua sorella Lucrecia era non troppo lontana da lì: a Nepi. Ci era voluta andare, assieme al suo piccolo Rodrigo, a fine agosto. Era partita da Roma il 30 agosto, per la precisione. Il papa le aveva concesso di allontanarsi da Roma perché non sopportava più di vederla prostrata come una martire, sempre incollata alla tomba del suo giovane sposo. Stare lontana dalla tomba di Alfonso, aveva detto Alessandro VI, sarebbe stata la sua unica cura.

Cesare aveva dovuto accettare quella decisione, anche se avrebbe preferito poterla tenere sotto controllo di persona. In un certo senso, però, allontanando Lucrecia da Roma, il pontefice era riuscito ad allontanare anche lui da Roma... Era stato astuto, a modo suo: era come se sapesse che la giovane era il vero perno che teneva il figlio ancorato ai palazzi del Vaticano.

“Io non ho intenzione di fare nulla.” rispose piano il Duca di Valentinois al messaggero che ancora aspettava di sapere cosa riferire al Baglioni e al Vitelli: “Vitellozzo ha con sé cinque cannoni, una colubrina, due sagri e cinque falconetti. Per non parlare dei cannoncini... Non posso permettermi di infastidirlo. I suoi soldati hanno sbagliato e nessuno li ha fermati, ma non sta a me dire di chi sia la colpa.”

La decisione – ovvero quella di non decidere – presa dal Borja venne riportata immediatamente a Deruta. Preso atto che nessun provvedimento disciplinare era in progetto, Baglioni fece di testa sua, armando la mano dei suoi soldati perugini.

Mentre si avviavano verso Fano, i suoi uomini uccisero di nascosto tutti gli spagnoli che poterono trovare isolati dai loro reparti. Appena fece buio, molti vennero addirittura legati e gettati nel Tevere, che scorreva loro accanto lungo la marcia.

Quando il Vitelli se ne rese conto, imitò alla perfezione il suo padrone, Cesare Borja: fece finta di nulla, e lasciò correre, senza cercare altre vendette e senza sottolineare le colpe.

“Miguel de Corella sta assaltando la rocca di Pesaro con quattrocento fanti – disse il Valentino, gioviale, come se tutto l'incidente di Deruta non fosse mai accaduto, quando accolse al campo i due condottieri – tempo tre o quattro giorni, ceneremo al palazzo di Giovanni Sforza da padroni.”

 

Nelle segrete di Castel Sant'Angela faceva più freddo del solito. Caterina, con le dita delle mani e dei piedi tanto intorpidite da non sentirle più, stava ingannando il tempo guardando le nuvole di vapore che si sollevavano a ogni suo respiro. Erano così dense che si vedevano molto bene, malgrado nella cella ci fosse un buio quasi totale.

Aveva superato l'ultima crisi febbrile bene, e tossiva di rado. In un certo senso ce l'aveva con se stessa per avere un fisico tanto robusto. Era dimagrita moltissimo e a volte faceva fatica a muoversi, eppure continuava a vivere.

Il suo vero nemico, in quella gabbia di pietra, però, era il suo cervello. Quando dormiva, non la lasciava riposare, tormentandola con incubi di ogni genere. Era perfino tornata a rivivere sistematicamente la morte di Ludovico Marcobelli, con una crudezza di immagini e sensazioni che non provava ormai da anni. E quando era sveglia, malgrado si sforzasse di svuotare ogni pensiero e vivere come se non avesse coscienza, continuava a pensare ai suoi figli, tormentata da un tarlo invisibile che non la smetteva mai di smangiarle l'anima.

Spesso, poi, specie quando anche fuori c'era buio, pensava a Giacomo e a Giovanni, lasciando che a volte predominasse il ricordo del primo e a volte quello del secondo. Indugiava su ricordi ormai consumati, di sua madre, di sua sorella Bianca, di Tommaso Feo, di Ottaviano Manfredi, e di tutti quelli che avevano condizionato nel bene e nel male la sua vita. A volte, di rado in realtà, ritornava alla sua infanzia, al palazzo di suo padre e alla sua vita da bambina, una vita che amava, fatta di mattinate di caccia, pomeriggi di gioco e sere di lettura. Una vita tutto sommato molto spensierata, per qualcuno nato con un cognome ingombrante come il suo, ma che era durata davvero troppo poco.

In quel momento, mentre inseguiva con gli occhi i rivoli di vapore, ricacciando indietro i ricordi che volevano ritrascinarla nel cortile d'addestramento di Ravaldino, uno dei posti dove forse, non si vergognava ad ammetterlo, si era sentita più felice, Caterina sentì delle grida arrivare dal corridoio oltre la spessa porticina della sua cella.

Muovendosi più velocemente possibile, si accucciò contro il legno e si mise ad ascoltare. Non era stata attirata solo da quella parvenza di vita, ma proprio dalla voce in sé: riconosceva l'uomo che stava gridando.

“Vi prego, no!” ululava, piangendo: “Ditemi che non è vero! No! No, prego! Ditemi che non è morta!”

La Sforza non riusciva quasi a respirare. Non aveva mai sentito la voce di Baccino tanto distorta, eppure era sicura che fosse la sua.

“Vuoi davvero sapere se è viva o morta?” chiese, ruvido, uno dei soldati che stava trascinando il giovane nel corridoio.

La Tigre non sentì la risposta, ma solo il pianto farsi più forte. Senza riuscire a trattenersi, anche lei cominciò a piangere e, dopo più di un tentativo, finalmente riuscì anche a parlare.

“Sono viva...” disse, con un filo di voce, riuscendo solo quando ormai i passi trascinati di Baccino si allontanavano, assieme a quelli dal rumore ferroso dei suoi aguzzini: “Sono viva. Sono viva!”

“Caterina!” il grido del ragazzo le fece capire che non solo era riuscito a sentirla, ma che l'aveva anche riconosciuta: “Caterina! Cater...”

Il modo sordo in cui la voce gli si spense in gola, fece capire alla Leonessa che il giovane doveva aver ricevuto un pugno nello stomaco, o qualcosa di analogo.

“Sono viva! Sono viva!” ripeté, sperando che lui potesse ancora sentirla, sperando, soprattutto, che anche lui fosse ancora vivo.

Non sentì più nulla per un po', e solo alla fine avvertì di nuovo i passi dei soldati, questa volta senza più prigionieri al seguito. Le parve assurdo anche solo pensarlo, ma in quel momento sperò che Baccino fosse chiuso in qualche cella poco lontano da lei, dolorante, forse, disperato, sicuramente, ma almeno vivo.

Vivo: doveva essere vivo.

Quella era l'unica cosa che contava.

 

   
 
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