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Autore: Adeia Di Elferas    20/11/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Giorgio da Cotignola sollevò un po' l'angolo della bocca e guardò pensoso Ercole Bentivoglio. Era stato convinto dai suoi uomini a lasciarlo entrare alla rocca di Pesaro per parlamentare, ma ora aveva il sospetto di aver commesso un grosso errore.

Il bolognese si era presentato da solo e completamente disarmato, questo doveva riconoscerglielo, però, dopo appena due parole, gli fu chiaro che fosse la lingua, la sua arma peggiore.

L'Attendolo era stato fermo nel suo principio di difendere la rocca anche quando aveva visto i quasi quattrocento fanti di Miguel de Corella – quello, gli era stato detto, era il nome del più importante tirapiedi del Borja – avvicinarsi alle mura e porre l'assedio, eppure adesso stavano bastando poche frasi del Bentivoglio per farlo cedere.

“Tutti noi, ve l'assicuro, avevamo creduto alla cometa della Leonessa di Romagna – stava dicendo Ercole, lo sguardo basso e l'espressione compita – anche noi, che eravamo suoi nemici. I condottieri francesi erano sconvolti davanti alla sua forza e alla sua abilità in battaglia...”

Giorgio, che aveva conosciuto Caterina e che l'aveva apprezzata come mai aveva apprezzato nessun altro comandante, avvertiva una stretta allo stomaco, nel sentirla nominare a quel modo.

“Eppure nemmeno lei, che era la migliore, tra tutti i soldati d'Italia, nemmeno lei, che aveva l'esercito più selezionato e più fedele d'Italia, è riuscita a battere il papa e il re di Francia.” concluse il Bentivoglio, grave: “Non commettete, ora, l'errore di perdere la vita per qualcosa di impossibile.”

L'Attendolo, appoggiato alla parete, scosse piano il capo: “Io ho avuto l'ordine di proteggere questa rocca e...”

“Se non ce l'ha fatta lei, non potete farcela voi.” lo zittì Ercole: “Adesso la Tigre di Forlì è la gatta del papa. Voi, che eravate solo uno dei cani da guardia di quella donna, cosa credete di diventare, al guinzaglio del pontefice?”

Giorgio, a quella domanda, non rispose. La sua mente stava già andando oltre, valutando quanto gli sarebbe costato, in termini di autostima e amor proprio, arrendersi.

“La città è già in mano nostra – gli ricordò il Bentivoglio – morire per questa rocca, sarebbe solo un errore. Vi stanno prendendo tutti in giro, rendetevene conto. Vi hanno promesso dei rinforzi, ma non arriveranno.”

“Arriveranno, invece.” ribatté, con una certa ostinazione, l'altro.

“Seguite il mio consiglio – concluse Ercole, scorgendo un piccolo cedimento nello sguardo prima incrollabile del suo nemico – se tra una settimana non arriveranno i rinforzi, arrendetevi. Nessuno ve ne farà una colpa.”

L'Attendolo, colpito da quell'ultima affermazione, che suonava al suo orecchio più come una consolazione che non uno spregio, fece un cenno secco con il capo e lo congedò: “State con Dio, Bentivoglio.”

Nel giro di pochi giorni, prima della fine del mese, Giorgio da Cotignola cedette la rocca e lasciò Pesaro, cercando rifugio a Ravenna.

 

Pandolfo Malatesta aveva appena consegnato una missiva al messaggero che, tra le altre cose, gli era costato uno sproposito: “Mi raccomando – gli aveva detto – che questa lettera arrivi a destinazione, perché si tratta di un affare della massima importanza.”

Il giovane che aveva preso il messaggio aveva annuito e poi, con un inchino anche troppo entusiasta, si era messo in sella al suo cavallo ed era partito.

Il Malatesta aveva i crampi allo stomaco, se solo pensava di non potersi fidare di quella staffetta, ma non poteva fare altrimenti. Aveva già impegnato i pochi soldi che sapeva di avere ancora a sua disposizione per assicurarsi cento provvigionati che lo scortassero lungo la via ferrarese, per Bologna, non poteva sborsare altro, per un semplice messaggero. La lettera che aveva scritto era, per lui, importantissima, perché riguardava la richiesta di riavere il suo cane da caccia prediletto, ma, ormai, poteva solo fidarsi di quel ragazzino che aveva accettato come pagamento i pochi spiccioli che il Pandolfaccio era riuscito a spillare al locale Monte di Pietà e un documento di credito che avrebbe potuto riscuotere al banco che preferiva, una volta giunto a Rimini.

Cercando di non pensare troppo al suo povero cane, il venticinquenne aveva richiamato a sé i cento uomini che aveva fortunosamente ingaggiato e diede ordine di partire.

Cominciava a fare davvero freddo, su quel finire di ottobre, e così, vinto dalla stanchezza e dal clima rigido, il Malatesta ordinò a tutti di fermarsi per la notte vicino a una locanda. Ai soldati impose di restare al loro campo improvvisato, mentre lui preferì trovare rifugio, assieme a un paio di guardie, nella locanda.

Mentre cenava, in fretta e in solitudine, udì delle chiacchiere riguardanti la situazione in Romagna.

Si diceva che il Valentino avesse già preso Rimini – come purtroppo anche lui ben sapeva – e Pesaro e che Giannotto, uno dei suoi comandanti francesi, avesse fatto un disastro a Forlimpopoli.

“I suoi mercenari – spiegò un uomo che stava bevendo assieme ad altri – hanno messo a sacco le case a Santa Maria, hanno ucciso undici contadini e hanno fatto un bottino di più di duecento ducati!”

Il Malatesta era rimasto stupito da una simile cifra, dato che, dopo la caduta della Tigre, Forlimpopoli era praticamente spopolata e poverissima. Tuttavia, quell'informazione gli interessava marginalmente.
Fu ciò che seguì a fargli andare di traverso la misera cena che stava mangiando: “Adesso quel francese sta marciando verso Faenza... Parola mia, Astorre Manfredi avrà la testa su una picca prima che si faccia l'anno nuovo...”

 

Cesare era rimasto a Rimini due giorni appena. Non aveva alcuna voglia di partecipare a feste e cortei. Il problema principale era il fastidio che provava agli occhi. Era cominciato in modo subdolo, e poi, una mattina, si era svegliato con le sclere completamente rosse e con la vista abbassata.

Si era trasferito in fretta a Cesena, seguito da Vitellozzo Vitelli, che con i suoi quattrocento uomini aveva il compito di difendere l'artiglieria, e Giampaolo Baglioni. Ad accoglierlo erano accorsi Polidoro e Achille Tiberti, che si erano subito offerti di lasciarlo soggiornare nel palazzo della loro famiglia.

“Non ho intenzione di perdere altro tempo...” disse il Duca di Valentinois, guardando il medico che lo aveva appena visitato, ma vedendolo sfuocato, come se tra loro vi fosse una coltre di sabbia: “E quindi dovete guarirmi subito! Devo andare a Brisighella alla testa dei miei soldati e...”

“Non credo che vi convenga guidare nemmeno un soldato, in queste condizioni.” rispose il dottore, scuotendo platealmente il capo: “Almeno non per qualche giorno.”

La stanza in cui il Borja si era sistemato era piccola, ma accogliente. Il camino era acceso e il legno che bruciava liberava un odore familiare, che avrebbe fatto sentire Cesare a casa, se solo non fosse stato così arrabbiato per la sua cattiva sorte.

“Dovete mettere l'impasto che vi ho dato per almeno tre o quattro giorni ancora, e riposare la vista, non certo andare in battaglia...” proseguì il dottore e, appena prima che il malato aprisse bocca, concluse: “Il vostro male non porta solo cicatrici come quelle che vi deturpano il volto. Ritenetevi fortunato se non diventerete cieco...”

Il figlio del papa, spiazzato da quell'affermazione, boccheggiò per un paio di secondi, e poi, scrollando le spalle, ribatté: “Come dite voi, ma auguratevi che la vostra mistura funzioni, o ne pagherete le conseguenze.”

A malincuore, il giorno dopo, appena prima di lasciare Cesena per andare a Forlì, e avvicinarsi quindi a Faenza, Cesare diede ordine a Vitellozzo Vitelli di organizzare la presa di Brisighella e delle rocca della Val di Lamone.

 

Non appena aveva ricevuto la notizia che i suoi parenti a Brisighella erano stati in buona parte torturati e uccisi e altri – pochi – fatti prigionieri, Castagnino aveva avvallato subito la decisione di Astorre Manfredi di convocare il Consiglio Generale per una delibera molto particolare.

Il giovanissimo signore di Faenza sapeva che quel momento sarebbe arrivato, e così, quando si presentò davanti ai membri del Consiglio, sapeva già bene cosa dire e come.

Dapprima riassunse i fatti degli ultimi giorni, facendo presente che Vitellozzo Vitelli, Pietro di Murcia e Dionigi e Vincenzo Naldi avevano occupato Brisighella con una facilità e una velocità impressionanti. Spiegò come questi avessero dato fuoco alle case dei Buosi e dei Castagnino e di come avessero ucciso molti membri di queste famiglie, dicendo che si trattava di una vendetta per la morte di Ottaviano Manfredi.

Dopo questo scempio, gli uomini del Borja avevano imperversato nella Val di Lamone, assoggettando senza trovare resistenza le rocche di Rontana, La Preda, e Torre di Ceparano.

“Per questo vi chiedo – disse alla fine Astorre, scostandosi dalla fronte con un cenno rapido del capo una ciocca di capelli biondi – di deliberare per la difesa di Faenza fino allo stremo, con l'istituzione della magistratura dei Sedici della Guerra.”

Quella richiesta scatenò il Consiglio, che per circa mezz'ora vociferò, gridò e si accapigliò. Si trattava di una delibera tanto importante, quanto imprevista. Il giovane Manfredi, anche se forse imbeccato da Castagnino, stava dimostrando con quella mossa di avere le idee molto più chiare di quanto non sembrasse, e di essere davvero pronto a dare tutto quanto se stesso per la causa.

Quel 6 novembre, mentre Faenza veniva chiusa nella morsa di una nebbia fredda e fittissima, Astorre ottenne l'istituzione sei Sedici di Guerra – quattro cittadini per ogni quartiere a cui veniva conferita piena autorità per il disbrigo degli affari militari – e, nel corso del medisimo Consiglio, riuscì a raccogliere da cinquantanove faentini duecentoottantadue ducati per le spese militari più urgenti.

“Al comando delle nostre forze militari – annunciò il Manfredi, appena prima di sciogliere la riunione, mentre fuori già scendeva la sera – sarà Bernardino da Marzano.”

Tutti approvarono e poi, appena prima che i Consiglieri cominciassero a lasciare il salone, il ragazzino guardò verso il suo tutore e disse a tutti di aspettare un momento.

“Messer Niccolò Castagnino, castellano di Faenza, verrà sostituito seduta stante da Giovanni Evangelista Manfredi.” l'uomo che era stato nominato sgranò gli occhi, ma non fece in tempo a ribellarsi, perché un paio di soldati già lo stavano prendendo per le spalle, per impedirgli la fuga: “È da noi sospettato di tradimento, e per questo verrà preso in custodia a scopo cautelativo, finché non ci vedremo chiaro.”

Castagnino, troppo stupefatto per riuscire a gridare qualcosa in propria discolpa, venne trascinato via e così, pian piano, il salone andò svuotandosi. Quando rimasero quasi solo Astorre e Giovanni Evangelista, questi si avvicinò al quindicenne.

“Non ho parole per esternare la mia gratitudine.” disse il diciottenne, inchinandosi davanti al fratellastro.

Il signore di Faenza gli fece cenno di raddrizzarsi e poi, quando poté di nuovo guardarlo negli occhi, gli posò una mano sul braccio e gli disse: “Abbiamo per metà lo stesso sangue. Il sangue tradisce più di rado di quanto non facciano i soldi. Nostro padre sarebbe felice di vederci assieme a combattere questa guerra.”

Giovanni Evangelista annuì, e, anche se un po' spaventato dal compito che Astorre gli stava dando, convenne: “Nostro padre sarebbe fiero di noi.”

Dopo quell'ultimo scambio di battute, il Manfredi più giovane, stanco, chiese congedo e si ritirò per qualche momento nelle sue stanze. Era convinto che il fratellastro fosse la scelta giusta, in quel frangente, e, anzi, rimpiangeva di non aver potuto in passato trascorrere più tempo in sua compagnia. Prima era stata sua madre Francesca a volere Giovanni Evangelista lontano, dicendo che era solo un figlio illegittimo e un pericolo per l'eredità di Astorre. E poi era stato Castagnino a farglielo guardare con sospetto, tanto da convincerlo a tenerlo ancora a distanza per anni. Solo di recente il giovane signore di Faenza aveva potuto fare come voleva e ragionare davvero con la sua testa.

Mentre ripensava tra sé alla gioia che aveva provato nel riappacificarsi finalmente con un fratellastro che gli somigliava più di qualsiasi altro suo parente, quando sentì bussare alla porta.

“Mio signore – disse uno dei suoi servi più fidati – dicono sia appena arrivato da Bologna messer Guido Torelli.”

Sentire il nome del secondo marito di sua madre, fece subito innervosire il ragazzino. Poteva ben immaginare chi avesse deciso di mandargli quel vile a palazzo: suo nonno, Giovanni Bentivoglio. Il motivo, poi, era più che palese: voleva comandarlo come un pupazzo, non sapendo che un altro dei suoi cani da guardia, ovvero Castagnino, era già stato messo da parte.

Il Manfredi ringraziò il servo e disse che avrebbe incontrato il Torelli il giorno seguente, ma in presenza dei Sedici di Guerra, e così fece.

Guido Torelli, spaventato nel sentire il destino toccato a Niccolò Castagnino, si presentò davanti al Sedici impaurito e balbettante, già pentito di aver accettato quella consegna da parte del signore di Bologna.

“E dunque – disse alla fine della difficoltosissima trattazione che fece riguardo i tanti motivi per cui Giovanni Bentivoglio avrebbe preferito che Faenza si arrendesse subito – il mio signore è dell'idea che voi, Astorre, dobbiate riparare immediatamente a Firenze o a Venezia. Penserebbe Bologna, a pagare ogni cosa.”

“Io non lascerò Faenza.” ribatté, sicuro di sé, il quindicenne e il fratellastro, Giovanni Evangelista, ritto in piedi accanto a lui, fece un cenno d'assenso che non lasciava adito a dubbi sulla ferma volontà del Manfredi.

Torelli provò a ribadire la sua proposta, spiegando che sia Firenze, sia Venezia sarebbero state scelte sagge e che, da lì, Astorre avrebbe potuto anche riorganizzare le sue difese, se proprio era quello che voleva fare.

Furono i Sedici di Guerra, con il tacito assenso del ragazzino, a ribattere in modo fermo per tramite di uno dei loro membri: “Messer Astorre resterà qui a Faenza e non fuggirà, la sua presenza è indispensabile per dare forza e coraggio e stimolo ai nostri concittadini.”

Ascoltato ciò, Guido Torelli fece una smorfia che lasciava ben intendere quanto amaro gli risultasse quel rifiuto, ma non provò a opporsi più in alcun modo, alzando, addirittura, le braccia, quasi in segno di resa.

 

Caterina non aveva più sentito rumori particolari, arrivare da oltre la porta di legno spesso. Ormai erano giorni che la calma apparente la stava mettendo in ansia.

Se davvero Baccino era stato portato in una delle celle vicina alla sua, era credibile non sentirlo mai gridare, chiamare il suo nome? Le pareti erano forse troppo spesse per permettere alla sua voce di arrivare al suo orecchio?

Era possibile che non avvertisse mai i passi delle guardie andare a controllare come stesse o a portargli da mangiare?

Forse era davvero troppo, pretendere che le sue orecchie avvertissero rumori simili attraverso il legno della porta o, ancor peggio, le pietre delle quattro mura tra cui era costretta a vivere.

Il freddo si stava facendo sempre più pressante e, certe notti, era così intenso da farla tremare e da farle battere i denti. Roma, di norma, aveva inverni miti, ma essendo sotto terra, così ben isolata, di certo quella cella era molto più fredda di tutto il resto dell'Urbe.

Un giorno, poco dopo l'alba – che fosse così presto la Tigre l'aveva intuito dalle voci che arrivavano dal cortile, e che lasciavano immaginare la vita quotidiana che ripartiva, come ogni mattina – la Sforza era ancora sveglia, dopo una notte infernale passata a difendersi dai suoi incubi, quando sentì del fracasso arrivare dal corridoio.

Presa dalla frenesia di captare qualcosa, per poco che fosse, si lanciò subito contro la porta, premendo l'orecchio contro il legno ruvido. Sussultò, quando capì cosa stesse succedendo.

“Cammina!” gridava una delle guardie, e subito dopo il gridò strozzato di Baccino lasciava pensare che l'uomo l'avesse colpito da qualche parte: “Cammina! Devi andarci coi tuoi piedi!”

“Dove lo state portando?!” Caterina trovò subito la voce per fare quella domanda cruciale.

Già il fatto che il cremonese fosse vivo, le aveva dato coraggio, ma non capire perché lo stessero portando via, le metteva anche addosso una rabbia sufficiente a farla ruggire di nuovo, quasi come faceva un tempo.

“Non sono affari tuoi, cagna!” sbottò un'altra guardia.

Un altro suono sordo diede l'idea che qualcuno avesse picchiato di nuovo Baccino, ma la Leonessa non poteva tacere, anche a costo di farlo colpire di nuovo.

“Dove lo state portando?!” urlò, picchiando i pugni contro la porta.

Nessuno le rispose più. Si sentì ancora il suono sordo di quello che poteva essere un pugno e poi il mugolare spento del ragazzo. Il silenzio calò di nuovo e la Sforza rimase sola con le proprie angosce.

Era ormai sera, quando sentì cigolare lo sportellino che veniva aperto solo per darle da bere e da mangiare. Nel buio – ormai le sembrava che i suoi occhi ci vedessero bene anche nell'oscurità più totale – intravide l'acqua, ma nessuna ciotola di cibo.

“Non mi date nulla, oggi?” chiese, con il fiato corto, indecisa se domandare o meno che cosa fosse successo a Baccino.

“Hai dato fastidio, oggi.” rispose l'uomo dall'altra parte: “Hanno deciso che mangerai un giorno sì e un giorno no. Ringrazia che almeno ti concedono l'acqua.”

La donna, che in effetti era assetata da ore, ne bevve un paio di sorsi e poi mise la ciotola da parte, per conservarla, e chiese: “Che ne avete fatto di quel ragazzo?”

“Quella cella era troppo importante, per un misero coppiere. Non ci sono nemmeno i ratti, qui, è una sistemazione di pregio.” ribatté il carceriere: “L'hanno spostato.”

La donna seppe in quel preciso momento che Baccino era vivo. Quella guardia, per quanto scorbutica e sgrezza, le suonava sincera.

“Ma non preoccuparti.” concluse l'uomo, dando un catarroso colpo di tosse e cominciando ad allontanarsi: “Ho sentito dire che sanno già chi metterci al suo posto, là in fondo...”

La Tigre non volle chiedersi di chi si trattasse. Cominciava a pensare che i Borja non si fossero del tutto scordati di lei: probabilmente stavano perseverando nella sottile strategia di lasciarla ai propri fantasmi, e farle capire che persone a cui teneva stavano incappando in una sorte tragica quanto la sua poteva essere la chiave del loro successo.

“Mi spiace deludervi...” sussurrò tra sé la donna, bevendo ancora un sorso d'acqua e trovandola un po' terrosa, ma buona: “Per ora non ho intenzione di morire.”

 

Stava scendendo la sera, e Oriolo, quel 15 novembre, era caduta come un frutto maturo nelle mani di Cesare Borja.

Il Valentino aveva preso parte all'assedio e al sacco solo figurativamente, eppure si sentiva stremato. Aveva scelto il palazzo migliore, tra quelli non saccheggiati, e si era chiuso in camera, ordinando che gli venisse portata una cena degna di tal nome.

Il giorno dopo sarebbero stati sotto le mura di Faenza, e voleva essere pronto. Voleva essere riposato e avere il cervello sgombro da tutti i suoi pensieri.

Oltre a Oriolo, era caduto Montemaggiore, dopo che il castellano, D'Aireno, aveva provato una sortita uccidendo una dozzina degli uomini del Vitelli. Vitellozzo aveva reagito in modo esagerato, secondo Cesare, dando fuoco a tutte le case del borgo. Era stata solo una perdita di tempo, e aveva innervosito i soldati.

Bisognava, invece, essere lucidi e calmi. Il Duca di Valentinois aveva ancora davanti il terribile spettro di quella che era stata la conquista di Forlì. Alla fine aveva ottenuto la città, ma a che prezzo? Era stato preso in giro, ridicolizzato, aveva perso uomini e tempo e la stima di suo padre...

“Che c'è?!” il bussare alla porta, insistente e ottuso, gli aveva fatto immaginare che si trattasse di Giampaolo Baglioni, ma niente lo trattenne dal chiedere: “Chi diavolo mi disturba?!”

“Non è la cena, se è questo che speravate...” disse il perugino, entrando in camera e guardando il figlio del papa con sufficienza.

Aveva sempre quello sguardo, quando lo osservava, come se non riuscisse a capire il nesso tra i suoi abiti eleganti e una campagna militare. Non fosse stato che il Baglioni serviva alla causa, Cesare l'avrebbe fatto sgozzare in pubblica piazza solo per la sua arroganza.

“Che volete?” chiese il Valentino, sforzandosi di sembrare calmo.

“L'Alégre e Giulio Orsini stanno guidando gli uomini sul lato orientale di Faenza, per cominciare a tagliare gli alberi, come ha chiesto Vitelli.” spiegò Giampaolo: “E abbatteranno anche qualche casa, perché ha detto che così ci sarà una miglior visuale di tiro.”

“Mi sta bene.” convenne il Borja, senza sottilizzare sul fatto che una decisione simile avrebbero dovuti prenderla solo dopo averlo interpellato.

“I due Naldi e Paolo Orsini stanno cominciano a muovere la fanteria.” concluse il Baglioni: “E Vitellozzo si sta occupando personalmente di traghettare via fiume l'artiglieria. Entro l'alba, saremo pronti.”

“Non voglio errori, mi raccomando.” fece Cesare, sollevando l'indice e puntando gli occhi, ancora molto arrossati, verso il perugino: “Faenza deve cadere entro un paio di giorni al massimo. Non ho intenzione di trovarmi di nuovo in mezzo a un assedio in dicembre...”

“Faremo del nostro meglio.” concluse Giampaolo e poi, con un cenno del capo, salutò e se ne andò.

Se non altro, pensò il Duca, anche se in ritardo, i comandanti che aveva al seguito quella volta si prendevano il disturbo di avvisarlo sulle mosse strategiche intraprese. Forse quell'assedio sarebbe davvero stato più semplice.

Anche quando, una decina di giorni addietro, aveva tenuto un Consiglio di Guerra a Forlì, aveva notato come molti dei condottieri ai suoi ordini si erano dimostrati molto più solerti e malleabili dei francesi. Solo l'Alégre, come previsto, aveva fatto qualche storia. Onorio Savelli, gli Orsini, i Naldi, i Tiberti, Ferdinando Farnese e tutti gli altri, invece, erano stati estremamente collaborativi e pieni di buon senso.

Nel ripensare al suo recentissimo soggiorno a Forlì, al Borja venne una strana nausea. Non gli era piaciuto, tornarci. Rivedere i luoghi che l'avevano fatto dannare fin quasi a perdere la speranza di vincere, l'avevano messo di pessimo umore.

Si era rallegrato solo nel vedere la paura impressa nei volti dei forlivesi, il servilismo in quelli di Andrea Bernardi, che era accorso a salutarlo, e la vacuità umile in quelli dei membri del governo fantoccio, in primis in quelli di Luffo Numai, sempre più vecchio e spento.

Gli aveva fatto molto piacere anche vedere la rocca di Ravaldino ancora ridotta a macerie, anche se, passando davanti alle rovine, gli era quasi parso di risentire la risata grassa della Tigre di Forlì, di rivederla prendersi gioco di lui, dall'alto delle merlature...

Quella notte, per togliersela di mente, era andato in un bordello, aveva scelto una donna che poteva vagamente ricordarla, e aveva sfogato su di lei la rabbia selvaggia che ancora provava.

Prima di tornare al sicuro nei suoi alloggi, era andato in una locanda, e aveva preteso del cibo e del vino. Riconosciutolo, l'oste l'aveva servito immediatamente, senza richiedere pagamento alcuno.

Mentre era seduto al tavolo, a riempirsi la pancia, il Borja aveva sentito in tanti parlare ancora della Sforza. Si trattava sempre di chiacchiere, non di rimpianti, ma anche le facezie più infamanti, al suo orecchio tradivano sempre un velo di ammirazione nei confronti di quella donna.

Uno fra tutti, che gli era rimasto impresso, era stato un uomo che stava discutendo con altri due, al tavolo alle sue spalle.

Di punto in bianco, aveva esclamato, a mo' di imprecazione: “Quella Messalina della Sforza!”

Al che, uno di quelli che stava con lui, ben vestito e probabilmente abbastanza acculturato da potersi permettere di puntualizzare, aveva ribattuto: “Messalina andava nei postriboli a vendere. La Tigre ci andava a comprare...”

“Mio signore.” l'attendente di Cesare era appena entrato in stanza, con al seguito due servi con la cena.

Il Valentino si ridestò dai suoi pensieri, scacciando dalla sua testa la risata greve che aveva sentito in quella locanda a Forlì, e ringraziò con un cenno della mano. Chiese di essere lasciato solo a desinare.

Non trovò nulla di suo gusto, e non finì nemmeno il calice che aveva davanti, chiedendosi dove fossero tutta la selvaggina e il buon vino di cui i Romagnoli si vantavano sempre.

“Un paio di giorni.” disse tra sé: “Un paio di giorni e sarò signore di Faenza. E allora potrò tornarmene per un po' a Roma... O andare a Nepi, dalla mia cara Lucrecia...”

E a quel pensiero, le sue guance, chiazzate in egual misura di barba e cicatrici luetiche, si ravvivarono e sulle sue labbra si dipinse un sorriso che, via via, finì ad assomigliare sempre di più a un ghigno.

 

   
 
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