Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    24/11/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Faenza era stata messa sotto assedio ormai da qualche giorno. Vitellozzo Vitelli, saputo che l'unico condottiero di nome tra le fila del Manfredi era Bernardino da Marzano, si era fatto ottimista, ma non per questo meno cauto.

Il Borja era stato molto chiaro con tutti: l'inverno stava arrivando, ed era fondamentale non farsi trovare ancora fuori dalle porte della città quando fosse scesa la prima neve.

I mille fanti del Vitelli si stavano comportando meglio del previsto, e tutti gli altri condottieri, dai due Orsini, fino a Onorio Savelli, stavano rispettando come non mai le gerarchie. Eppure non si riusciva a far breccia nelle difese nemiche.

Il Valentino si faceva vedere di rado, ma, quando si mostrava ai soldati, lo faceva sempre al momento giusto e con l'atteggiamento adatto alla circostanza. L'Alégre, che aveva avuto modo di vederlo schivo e impacciato durante la campagna di conquista di Forlì, si chiedeva cosa fosse successo in quei mesi, per farlo cambiare così tanto. Forse, pensava, era stato battere la Leonessa di Romagna, a renderlo più sicuro di sé, e anche più attento agli errori stupidi commessi la prima volta.

Aveva provato a chiedergli, però, qualche volta, come stesse Caterina Sforza, quando lui aveva lasciato Roma. I patti, tra francesi e pontifici, erano chiari: quella donna andava trattata con rispetto, come imponeva il suo rango. Cesare, però, non aveva mai risposto in modo limpido, dicendo sempre e solo che la Tigre stava 'bene' dove stava.

“Questa umidità! Tutta colpa dell'umidità!” sbottò Vitellozzo, dopo aver esaminato una bombarda che continuava a incepparsi: “Al diavolo!”

Mentre l'uomo batteva il piede in terra, in segno di massima frustrazione, sentì qualcosa di freddo sfiorargli la punta del naso. Guardò istintivamente verso l'alto, verso il cielo cereo di quel 19 novembre, e capì subito cosa stesse accadendo.

“Boia mondo!” esclamò, stringendo i pugni, con stizza: “Anche la neve ci mancava!”

Mentre Vitellozzo si abbandonava a una sequela di improperi che molto di rado sfioravano le sue labbra, imprecando contro il Valentino e la sua assurda decisione di iniziare un assedio a metà novembre, l'attenzione di tutti venne catalizzata da un suono sinistro, quasi una sorta di cigolio, ma dal sapore catastrofico.

Tra un esplosione di falconetto a l'altra, con una lentezza spettrale, il torrione del Borgo, uno degli avamposti difensivi più importanti di Faenza, si spezzò in due, per poi crollare su se stesso come fatto di sabbia.

Vitelli, come tutti, aveva assistito in silenzio a quello spettacolo. Di rado si vedeva una struttura così solida sbriciolarsi a quel modo. Passati i primi istanti di stupefatta meraviglia, l'uomo cominciò a gridare motti di incitamento, sfruttando l'euforia di quel traguardo, e incitando tutti a bombardare con ancor maggior lena.

Mentre i cannoni riprendevano la loro musica forsennata, Vitellozzo chiamò a sé con un cenno della mani i condottieri che gli stavano più vicini e poi sparse la voce di voler radunare un Consiglio di Guerra straordinario prima di sera.

“Domani attaccheremo la breccia.” promise: “E prima di notte Faenza sarà nostra.”

 

L'aver ridotto drasticamente le razioni di cibo – già scarse in partenza – aveva compromesso ancor di più le condizioni fisiche della Tigre.

Malgrado riuscisse ancora a restare lucida e cosciente, la donna aveva cominciato a soffrire di tremendi dolori di stomaco e, parimenti, anche il suo intestino stava risentendo di quella dieta troppo stretta. Senza aver più nulla da mettere sotto i denti, se non una misera razione di minestra o di zuppetta una volta ogni due giorni, l'acqua di infima qualità che le veniva offerta finiva a peggiorare i suoi sintomi, portandola a passare gran parte del suo tempo rannicchiata in un angolo della cella, con le braccia strette attorno all'addome e la fronte imperlata di sudore freddo.

C'erano momenti – molto frequenti di prima – in cui la Leonessa si chiedeva perché fosse ancora viva e che senso avesse, sopravvivere a quell'inverno, se poi l'attendeva un'altra estate in gabbia e poi un nuovo inverno di freddo e fame e così via magari per anni. Addirittura, nei momenti in cui sentiva di non riuscire a sopportare oltre i morsi della fame, cominciava a guardarsi attorno, nel buio, cercando di capire se vi fosse un modo per uccidersi.

Gli unici momenti discreti, erano quelli in cui finalmente le arrivava qualcosa da mangiare. Il cibo era sempre troppo poco, e dal gusto orribile, ma sentire di nuovo lo stomaco dilatarsi, seppur in modo appena percettibile, le dava la pace per un po'.

Quella sera aveva appena ricevuto una ciotola di pasta con le verdure, e aveva anche chiesto e ottenuto che le venisse svuotato, fuori dalla cella, il secchio che usava per i suoi bisogni fisiologici, e quindi era abbastanza di buon umore. Godendosi la sensazione di non avere più la bocca dell'esofago in fiamme a causa della pancia vuota, la Tigre riuscì a pensare ad altro che non fosse la fame per qualche minuto.

Inevitabilmente, la sua mente la condusse all'immagine dei suoi figli, in particolare dei due più piccoli. Si chiese quanto fossero cresciuti e come fossero diventati, perché comunque, ormai, non li vedeva da quasi un anno. Di certo Giovannino si era fatto un bambinone. Era sempre stato robusto, fin dalla nascita. E Bernardino...

Caterina sospirò, nel rendersi conto che, probabilmente, il compleanno del suo penultimo figlio doveva essere alle porte, se non passato da poco. Era tremendo, non avere riferimenti temporali certi.

Sforzandosi di ricordare il viso di Bernardino, si rese conto che nella sua memoria si sovrapponeva in modo crudele a quello di Giacomo. Anche se avevano dei tratti diversi, per lei erano l'uno l'immagine dell'altro.

In un circolo perverso di ricordi e congetture, la donna era arrivata a ripensare alla morte del suo secondo, amatissimo marito. E a come poi lei avesse rinchiuso Ottaviano, pur di non doverlo giustiziare. Aveva volutamente fatto patire la fame anche a lui, come ora i Borja stavano facendo con lei.

Asciugandosi una lacrima con il dorso della mano, la donna tese di colpo l'orecchio. Aveva sentito dei rumori, fuori dalla cella, e non ne capiva il motivo, dato che le avevano portato da poco la cena ed era ormai tarda sera.

Le bastò poco per capire che, com'era successo con Baccino, qualcuno stava venendo trascinato nel corridoio dalle guardie. Ascoltò meglio e riconobbe la voce, sporcata, anche in una simile occasione, da un velo di arroganza frammista a ironia, di frate Lauro.

Non avrebbe mai creduto di sentire un fremito di pietà, nel suo petto, nel sapere Bossi in pericolo, ma forse era comprensibile, sapendo tutto quello che lui aveva cercato di fare per aiutarla.

Eppure, mentre l'uomo continuava a rispondere a tono ai carcerieri che lo portavano verso la sua cella, apparentemente insensibile alla propria sorte, la Sforza non fece nulla. Quando aveva sentito portare in quelle segrete Baccino, era quasi impazzita di rabbia e dolore, mentre frate Lauro, malgrado tutto, le restava quasi del tutto indifferente.

“Madonna, siete qui sotto anche voi?!” chiese a un certo punto Bossi, con un tono scanzonato, tanto da far quasi dubitare della sua sanità mentale.

“Sapete che giorno è oggi?” chiese di rimando lei, cercando di cavare quel poco di buono che ancora poteva dal frate.

Frate Lauro fece una risata secca e poi rispose, prima che un pugno in pancia lo mettesse di nuovo a tacere: “Che notte, vorrete dire! Domattina sorgerà l'alba del venti novembre, anno del Signore Millecinquecento!”

'Venti novembre...' pensò tra sé la donna, piegando le gambe e portandosele al petto, per scaldarsi un po'. Allora il suo Bernardino non aveva ancora compiuto dieci anni... Li avrebbe compiuto il 28 novembre: c'era ancora qualche giorno. Voleva tenere il conto, ma non sapeva come fare.

Ci pensò e ripensò, e alla fine, colta da un'idea subitanea, si strappò un brandello d'abito. Ormai l'orlo non esisteva quasi più, e la stoffa si dimostrò molto cedevole. Con attenzione riuscì a farne trentuno striscette. In un angolo della cella in cui non si metteva mai, pose alla sua destra venti strisce e alla sinistra lasciò le altre. Ricordandosi di spostarne una al giorno, avrebbe sempre saputo la data esatta.

Lasciando la stoffa là dove l'aveva appena posata, tornò contro la parete e, stringendosi la testa tra le mani, pensò ad altri tre compleanni. Il primo era il quindicesimo di Galeazzo, che sarebbe stato di lì a un mese circa, il 18 dicembre, e il secondo era il diciannovesimo compleanno di sua figlia Bianca, passato da una ventina di giorni, il 30 ottobre. Il terzo, per associazione, era quello di Livio, nato anche lui il 30 ottobre, ma morto ormai da troppi anni...

Tirando su con il naso, la Tigre si sentì in colpa verso quel suo figlio, che aveva lasciato la vita a dodici anni non ancora compiuti, e a cui lei non aveva mai dato quello che si sarebbe meritato. Era tardi, ormai, per pentirsi della propria distanza, lo sapeva benissimo, ma stando nel ventre di Castel Sant'Angelo, le sembrava di avere un contatto molto più diretto, con i morti.

Così, tra le lacrime e un nuovo senso di smarrimento, cominciò a pregare, rivolgendosi proprio a quel figlio, fragile e sensibile, che non aveva mai trattato con la dolcezza che meritava e che aveva sentito morire tra le sue braccia, mentre la stringeva, in cerca di una briciola di quell'amore materno che non era mai stata in grado di dargli..

 

Cominciava a malapena a far chiaro, ma i cannoni del Borja avevano già ripreso a cantare. Cesare aveva impedito a Vitelli di dare ordine di attaccare subito passando dalla breccia aperta il giorno prima: gli era bastata la lezione di Forlì.

Anche quella volta gli era parso semplice, passare da una breccia, e prendersi la vittoria, e invece era stata una carneficina. Ricordava ancora con un netto senso di nausea la sensazione orrenda di camminare sopra ai cadaveri, inciampando in addomi squarciati, bocche aperte e crani spaccati. Non voleva, per nessun motivo, ripetere i suoi stessi errori.

Così aveva convocato il grosso del suo quadro di comando nel suo padiglione, in modo da tenere tutti, o quasi, impegnati nelle discussioni, facendo in modo che, intanto, l'artiglieria allargasse ancor di più la faglia che avrebbe permesso loro di inondare Faenza come una marea.

“Ma è vero – disse a un certo punto Oliverotto da Fermo, indirizzandosi a Giampaolo Baglioni, mentre la riunione languiva – che vostro cognato, Bartolomeo d'Alviano, ha preferito battersi contro i turchi che al fianco del papa qui in Romagna?”

Il perugino, che solo all'inizio era stato anche contento di imparentarsi con l'Alviano, grande uomo d'armi e dalla morale abbastanza rispettabile da bilanciare la sua, che invece era ritenuta pessima, fece una smorfia e si trovò a difenderlo malvolentieri, borbottando: “Combattere contro i turchi non è forse servire il Santo Padre?”

'E poi' soggiunse, solo con il pensiero: 'mille ducati gli facevano comodo, e il trevigiano è un fronte di battaglia più tranquillo di questo'.

“Il suo braccio ci sarebbe servito di più qui.” insistette Oliverotto, inclinando un po' di lato il capo, con il chiaro intento di provocare il Baglioni.

“Il suo braccio, forse, ma la sua lingua no: ne abbiamo già abbastanza qui.” lo interruppe Vincenzo Naldi.

“A quello che so – riprese la parola il Duca di Valentinois, che era stanco di vedere i suoi condottieri accapigliarsi a quel modo come ragazzine – la lingua di messer Bartolomeo ormai non è più buona a far nulla, da quando s'è ferito, o sbaglio?”

Giampaolo accolse quell'ammiccante sponda e sghignazzò, ben contento di potersi vantare, in occasioni simili, della sua dubbia moralità: “Per questo voglio conquistare in fretta Faenza: devo andare a consolare mia sorella Pantasilea, che, poveretta, cosa se ne può fare di un marito che non può nemmeno darle una bella lecc...”

Nessuno poté sentire la fine della frase di Giampaolo, perché da fuori arrivò un grido di battaglia tanto travolgente e improvviso, da coprire qualsiasi altra cosa. Come un sol uomo, tutti uscirono, per vedere cosa stesse accadendo.

“Ma che stanno facendo?!” il Valentino, sgomitando in mezzo a tutti, fissava verso il torrione diroccato, incapace di credere ai propri occhi.

Onorio Savelli, impossibile non riconoscerlo, stava guidando una carica, in testa agli uomini, circondato dal fumo dei cannoni, apparentemente del tutto incurante delle palle di pietra e ferro che quasi lo sfioravano.

“Sono pazzi! Pazzi!” gridò Dionigi Naldi, mettendosi le mani tra i capelli, e cominciando a far segno all'artiglieria di smettere di far fuoco.

Il Borja, esterrefatto, ci mise qualche istante, prima di riuscire a capire come muoversi. Nessuno, a parte i fratelli Naldi e Paolo Orsini, aveva la lucidità per gridare agli artiglieri di non far fuoco, e anche i loro sforzi erano in parte vani.

Andava fatto in fretta qualcosa, o si sarebbero trovati con l'esercito dimezzato, e per di più dai cannoni amici.

Lasciando da parte tutte le paure per il pericolo imminente, Cesare sentì prevalere in sé un'unica cosa: la paura che gli incuteva l'idea di deludere di nuovo suo padre.

Con le gambe che si muovevano da sole, il venticinquenne si mise a correre come un matto, incurante di non indossare nemmeno una corazzina leggera. Agitava le braccia ed emetteva suoni disarticolati, la gola in fiamme e il cuore che batteva come un tamburo.

“Indietro! Indietro!” furono le prime parole intelligibili che il Valentino riuscì a produrre: “Tutti indietro!”

Sentiva fischiare i proiettili dei cannoncini e delle bombarde e si rese conto solo a ridotto, ormai, delle mure mezze franate del torrione, di quanto lui stesso si fosse messo in pericolo.

“Avanti! Avanti!” gridava invece Onorio Savelli, incitando i suoi e cominciando addirittura a dar l'assalto alla parete diroccata per mezzo di una scala tenuta da ben otto uomini: “La gloria sarà nostra! Avanti!”

Il Borja non sapeva come fare, si sentiva come un cerbiatto in mezzo a cervi adulti con palchi di decine e decine di corna. Ovunque si voltava, vedeva solo ferro, polvere e fumo, e lui era disarmato e disorientato.

“Avanti!” gridò di nuovo Onorio, sollevando la spada in aria.

“Savelli!” lo chiamò Cesare: “Savelli! Pazzo che non siete altro! Ordinate la ritirata subito!”

“Mai! Mi prenderò il primo onore! Voi non avete il coraggio, ma io...” la voce morì in gola a Onorio nel momento stesso in cui un frammento di una palla da cannone di pietra gli tranciò di netto il braccio che teneva in aria come uno stendardo.

Il sangue zampillò, rosso e vivo, dal moncherino, mentre l'uomo vacillava, sulla scala, e, subito dopo, come in un accanimento del fato, un altro proiettile, più piccolo e di metallo, lo centrò in pieno petto, uccidendolo all'istante.

Vedere cadere in terra il cadavere di Savelli, colpito dal fuoco amico, scosse nel profondo tutti quanti. All'improvviso, l'unica voce che tutti ascoltavano era quella del Duca di Valentinois.

Ben felice di poter prendere il comando in mezzo al campo, il figlio del papa cominciò a ululare ordini, correndo verso il campo che avevano piazzato a Isola, tra il Lamone e il Marzano.

Ci volle un po', una volta ritirati, per accertarsi delle effettive perdite. Malgrado l'enorme rischio corso da Savelli, al Valentino risultarono all'attivo solo quattro caduti, tra cui proprio Onorio.

“Dobbiamo sfruttare la rabbia dei soldati – disse Cesare, arrivato nel suo padiglione, mentre si ripuliva il viso dalla polvere – voglio attaccare questa sera, appena farà buio.”

Achille Tiberti, che era tra quelli accorsi ad accertarsi delle condizioni di salute del comandante, si accigliò e chiese: “Siete sicuro? Loro sono a casa loro, conoscono bene Faenza e le sue mura... Al buio saranno molto più avvantaggiati di noi...”

“Non si aspettano che dopo questo errore noi attaccheremo di nuovo, oggi.” ribatté il Duca: “E quindi dobbiamo farlo.”

Convinti gli altri comandanti, il Valentino sapeva di dover fare solo una cosa: andare a parlare con i soldati.

Avvertiva un certo timore, nel farlo, perché era un qualcosa che aveva sempre rifuggito, ma sapeva che quel giorno l'avrebbero ascoltato con orecchie diverse. Vederlo correre incurante dei colpi di cannone, e capire, soprattutto, che aveva ragione lui nel voler frenare l'attacco, di certo gli aveva fatto guadagnare punti importanti, con la truppa.

E in effetti fu proprio così. Dal momento stesso in cui lo videro, gli uomini si fecero silenziosi e cominciarono a fissarlo con insistenza, desiderosi di sapere cosa avesse da dire.

Cesare fu stringato, con le parole, e ancor più trattenuto nella gestualità. Tuttavia gli bastarono quattro frasi in croce per portare interamente dalla sua parte l'attenzione di tutti quanti.

“Quando verrà il buio – concluse, abbassando la voce, ma rendendosi conto che, nel silenzio, tutti quanti lo potevano sentire – attaccheremo, e per Faenza il sole non sorgerà mai più.”

 

Erano le sei di sera, cominciava a farsi buio. Era stato un tramonto più lento del solito, malgrado il cielo fosse coperto di spesse nuvole grigie, foriere di neve.

Bernardino da Marzano si era inizialmente sentito sollevato, quando aveva visto gli uomini del Borja ritirarsi, dopo il primo assalto, però, con il passare delle ore, gli era parso strano che i pontifici si limitassero a qualche gragnola di colpa di cannone di quando in quando.

Perciò, per coprirsi meglio le spalle, il condottiero aveva chiesto a tutti i faentini di tenersi pronti, ben armati e svegli: da un diavolo come il Duca Valentino ci si poteva aspettare di tutto, anche un attacco notturno. In fondo, anche se tutti sembravano averlo scordato, Cesare si era trovato spesso, anche se suo malgrado, a combattere con il buio e il freddo già a Forlì. Probabilmente, essendosi fatto le ossa contro la Tigre, si sentiva forte con la notte dalla sua parte.

Sempre pensando a quel fatto, Bernardino aveva avuto un'altra idea, accolta con un inatteso entusiasmo da parte delle donne di Faenza. L'unico a fare delle difficoltà era stato Astorre.

“Io non sono d'accordo.” aveva detto il giovane Manfredi: “Le donne non devono combattere. Non sono capaci e non sono... Io non... Loro non... Io non passerò come quello che ha fatto combattere delle donne... E poi le donne non sanno uccidere...”

“Vostra madre, però, è stata in grado di uccidere vostro padre.” gli aveva ricordato il condottiero, ben convinto che risultare sgradevole e insolente fosse una ben misera pecca, se poteva ottenere quel che voleva.

Non si era sbagliato: Astorre, dopo una smorfia tremenda, aveva fatto un cenno con il capo e gli aveva detto di fare come voleva, a patto che fosse chiaro che lui si dissociava da quell'iniziativa.

Le faentine, in buona parte memori e infervorate dall'esempio di Caterina Sforza che, seppur sconfitta, aveva riempito le loro fantasie da un anno a quella parte, avevano quindi preso le armi dei padri, dei mariti e dei fratelli e si tenevano pronte, come gli uomini, a dar battaglia.

“Stanno arrivando...” sussurrò Bernardino da Marzano, quando intravide, alla luce delle torce, qualcosa muoversi all'orizzonte: “Tenetevi tutti pronti.”

L'impatto fu favorevole ai pontifici. La breccia formatasi nelle mura all'altezza del torrione diroccato si era via via ingrandita, nel corso della giornata, e ora permetteva loro di riversarsi in buona parte all'interno della cinta.

Vitellozzo guidava l'assalto, e si rese subito conto che le perdite sarebbero state ingenti, perché i loro fanti faticavano ad avere la meglio sui difensori, e quindi restavano, anche se dentro le mure, a ridosso delle stesse, quindi facile bersaglio di arcieri e altri tiratori che stavano sulle merlature.

“Sulle mura! Sulle mura!” gridò il Vitelli, quando intravide, con la coda dell'occhio, la seconda ondata di pontifici.

Era inutile, secondo lui, che anche loro andassero a mescolarsi a quella bolgia infernale: si dovevano prendere i camminamenti, neutralizzare le torrette e aprire le porte della città.

Achille Tiberti, che capitanava la colonna in arrivo, capì all'istante e così, ordinando che si desse la scalata alle mura, riuscì a distrarre parte dei difensori.

Erano passate quasi due ore e sembrava che gli uomini del Borja stessero avendo la meglio. In terra i cadaveri si accatastavano, in maggior numero per i faentini, ma più la battaglia si inaspriva, più gli attaccanti cominciavano ad accorgersi di una cosa che fino a quel momento non avevano notato appieno: tra i difensori c'erano molte donne.

“Prendete le mura! Prendetele!” gridò Achille Tiberti, quando vide un alfiere con lo stendardo pontificio salire una scala: “Piantate l'araldo!”

Il cesenate sapeva benissimo che non era quello, a fare le sorti di una battaglia, ma, avendo combattuto per anni, conosceva l'effetto travolgente che poteva avere sui soldati, da ambo le parti.

L'araldo, rinfrancato e inorgoglito dalle urla di Tiberti, accelerò, e arrivò in cima alla scala senza che nessuno riuscisse a scuoterlo giù. Divelse una delle insegne dei Manfredi e poi, con fare plateale, si apprestò a innestare la propria.

Diamante Torelli, figlia di Bartolomeo Torelli, però, lo vide appena in tempo. Lo afferrò per un braccio, facendolo vacillare. L'uomo si voltò di scatto e, nel trovarsi dinnanzi una ragazza giovane e florida, con i capelli sciolti e appena una corazzina a proteggerla, ebbe un attimo di esitazione. Non solo, per istinto, non la colpì, ma si spaventò anche. Quella visione gli ricordò troppo da vicino i racconti sentiti ovunque nell'ultimo anno: anche se bruna, quella donna gli sembrava l'incarnazione di Caterina Sforza.

Diamante seppe sfruttare bene lo stupore dell'araldo, e cominciò a cercare di strappargli la bandiera di pugno. Dal cielo scuro iniziavano a scendere finissimi fiocchi di neve, e ogni respiro sollevava ondate di vapore tali da annebbiare la vista ai due contendenti.

Quando si riprese dalla sorpresa, l'uomo mise da parte ogni remora morale, e si impegnò come non mai per avere la meglio su quella donna. Non chiese aiuto, mentre tutt'intorno a lui imperversava la battaglia, ma cercò in ogni modo di impedirle di togliergli l'insegna che con tanto orgoglio aveva portato fin sulle merlature.

La Torelli, che grazie al padre – uomo da sempre affascinato dalla figura di donna guerriera della Tigre di Forlì – aveva ricevuto un'istruzione militare, seppur rudimentale, sapeva come muoversi, e lo faceva bene. Con uno strattone secco, riuscì finalmente a strappare la bandiera al pontificio, e a schivarne il pugno. Per prima cosa, spezzò in due l'asta di legno e poi, vedendo l'araldo avventarsi contro di lei, prese la spada dal fianco, e lo colpì di piatto.

L'uomo accusò il colpo, ma si mise a ridere, cominciando a insultarla, a dirle che una donna, di certo, non aveva il coraggio di ferire e uccidere. Diamante sentì un fuoco bruciarle nel petto. Anche se dall'inizio della battaglia non aveva ancora ucciso nessuno, limitandosi ad aiutare i soldati e a portare dell'acqua a chi ne aveva bisogno, all'improvviso capì di essere pronta.

Lanciando giù dalle mura l'insegna spezzata, afferrò per un braccio l'araldo, cogliendolo di sorpresa, e lanciò di sotto anche lui.

Seguì la sua caduta con lo sguardo. Lo vide impattare in terra di testa. Il collo si era spezzato come un fuscello.

La morte dell'araldo parve raggelare i pontifici per qualche minuto. Fu come se la battaglia si stesse spegnendo.

In reazione, forse, un altro portabandiera, più giovane e più piazzato, si fece largo tra i soldati del Borja e raggiunse la scaletta, deciso come non mai a portare a compimento la missione del compagno caduto.

Diamante, infervorata da ciò che aveva appena fatto, chiese ai soldati faentini accorsi di lasciare il nemico a lei. Attese l'uomo in cima alla scala e, quando lo vide approdare sul camminamento, gli fu subito addosso. Lottò con lui, per strappargli l'insegna così come aveva fatto a quello precedente.

Quando capì che questo combattimento era più impari e che non sarebbe riuscita a replicare l'impresa, pensò che lanciarlo giù assieme alla bandiera potesse ritenersi altrettanto onorevole.

Inducendolo a roteare con lei sul posto, lo spinse via al momento giusto, sfruttando, più o meno consciamente, il peso enorme della di lui armatura.

L'araldo, questa volta, non picchiò la testa contro il suolo, ma volò fino al vicino fossato, inabissandosi in un attimo nelle acque nere e torbide assieme alla sua bandiera.

Vedere per la seconda volta un araldo ucciso con tanta facilità da una donna che ricordava così tanto la Leonessa di Romagna, affossò in un colpo ogni velleità dei pontifici.

“Ma che fate?! Combattete! Combattete!” gridò Achille Tiberti, distraendosi da quello che stava facendo: “Combattete!”

A quelle grida di incitamento, seguì un grido di dolore, perché il faentino con cui si stava misurando, approfittando della sua disattenzione, lo colpì al braccio con tanta forza da infossare il ferro dell'armatura, ferendolo.

Mentre gli uomini e le donne di Faenza si aprivano in uno scrosciante applauso per Diamante, che, da sola, aveva mortificato l'arroganza papalina, Vitelli, anch'egli ferito, seppur in modo meno serio del Tiberti, ordinò la ritirata.

Mentre gli uomini del Borja lasciavano la breccia, abbandonando alle loro spalle oltre quattrocento compagni morti, la neve si fece più fitta e il freddo più intenso. Le grida di giubilo dei faentini – che avevano subito perdite analoghe, ma che, almeno per il momento, avevano dimostrato di poter resistere davvero – si levavano dalle mura in una immensa nuvola di vapore.

Il Duca di Valentinois che, a cavallo e stretto nel suo mantello più pesante, osservava da lontano l'andamento della battaglia, quando vide i suoi ritirarsi sgranò gli occhi incredulo. Stava succedendo di nuovo. Era un incubo, come a Forlì.

E la colpa era solo di Astorre Manfredi, un ragazzino viziato e ignorante che non aveva accettato di arrendersi in modo docile a qualcuno che valeva più di lui.

“Giuro su Dio – sussurrò tra sé, stringendo le palpebre per impedire alla neve che cadeva vorticosa di accecarlo – che quando metterò le mani su quel ragazzino, saprò bene come ripagarlo per questo affronto.”

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas