Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    26/11/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Bianca, quella mattina, si era svegliata presto dopo una notte agitata. Si era vestita in fretta e in silenzio, dato che sia Giovannino, sia Cornelia stavano ancora dormendo.

C'era un silenzio irreale, ovattato, diverso da quello che di solito attanagliava la quieta e ristretta quotidianità delle Murate. Eppure, per un po', la Riario non ci aveva fatto caso.

Solo quando, in lontananza, aveva sentito i canti delle suore, intente alle prime lodi della mattina, si era resa conto che c'era qualcosa di diverso, nell'aria.

Era seduta sulla sua sedia di legno povero, dando le spalle alla scrivania e guardava, alla luce di un paio di candele, il fratello e la nipote che sonnecchiavano beati. Cornelia, in viso, le ricordava ogni giorno di più Ottaviano, o, forse, il loro padre, Girolamo Riario. Aveva gli stessi colori, e il medesimo volto allungato. Eppure, caratterialmente, benché fosse piccolina, stava già dimostrando di essere abbastanza diversa. O, almeno, così sperava Bianca.

Giovannino, invece, stava crescendo robusto e sano, una piccola quercia. Per lui era più difficile dire verso quale dei genitori propendessero le somiglianze, anche se Bianca, nel suo sguardo fiero e quasi troppo serio, per un bambino della sua età, rivedeva moltissimo quello della Tigre. Certo, le sue iridi erano molto più scure, ma il piglio era lo stesso. Del padre Giovanni aveva preso i fini riccioli che ricadevano sulla fronte, ma per il resto, alla Riario risultava davvero difficile fare altri paragoni.

Entrambi i bambini sembravano sereni, malgrado tutte le privazioni e le stranezze che un'infanzia in convento stava costando loro. Più li guardava, più Bianca si diceva che una famiglia numerosa le sarebbe piaciuta. Aveva più o meno sempre saputo di volere tanti figli. Si sentiva adatta a essere una madre e, a diciannove anni compiuti da un mese quasi esatto, poteva dire di sentirsi anche pronta a diventarla.

Incrociando le braccia sul petto, però, si disse per la millesima volta che quel desiderio, almeno per il momento, doveva restare tale. Innanzi tutto non aveva un marito – eccezion fatta per Astorre Manfredi, un ragazzino di cui non aveva mai voluto nemmeno sentir parlare – né un innamorato che potesse definirsi tale, e poi era chiusa in un convento di clausura. E la sua reclusione volontaria, verosimilmente, sarebbe durata ancora molti anni.

“Finché Giovannino non diventerà grande...” sussurrò tra sé.

D'improvviso la ragazza avvertì qualcosa di gelido, nell'aria, qualcosa che le ricordò prepotentemente le giornate di neve alla rocca, a Forlì. Anche se si trovava in un convento, alla fine non c'era molta differenza con Ravaldino, le pareti erano quasi dello stesso spessore e l'umidità che a volte risaliva dal pavimento e si insinuava nelle ossa, fino a raggiungere l'anima.

Accigliandosi, la ragazza andò allora alla finestra. In effetti, la sera prima, aveva visto che cominciava a nevischiare, ma si era detta che forse il mattino dopo sarebbe splenduto il sole. Con lentezza, per non far rumore, aprì un po' le imposte. C'era ancora buio, ma poteva vedere distintamente una spessa coltre di neve ricoprire il cortile interno.

Si strinse nelle spalle, come a voler combattere il freddo, e poi, in riguardo ai due bambini che ancora dormivano, richiuse tutto.

Tornata sulla sedia, Bianca tornò a fissare Giovannino e Cornelia e si perse nei suoi pensieri. Senza volerlo, ragionando sul fatto che quel giorno era il 21 novembre, si rese conto che nel giro di una settimana Bernardino avrebbe compiuto dieci anni. Quella consapevolezza l'agitò, e all'inizio non ne capì il motivo.

Le ci volle un bel po', prima di rendersi conto che sapere il piccolo Feo già decenne la metteva a disagio perché quell'età stava a significare che Giacomo Feo era morto già da cinque anni.

Quando, dopo qualche ora, la Riario cominciò a sentire i soliti rumori della vita del convento arrivare dal corridoio, eppure nemmeno quel segno di normalità l'aiutò a scrollarsi di dosso l'inquietudine che l'aveva presa.

Giovannino e Cornelia si svegliarono, Bianca, allora, decise di portarli a mangiare qualcosa nelle cucine, come faceva di solito, ma anche quell'occupazione non la distrasse come avrebbe voluto. Fu così che, a ridosso del mezzogiorno, mentre fuori la neve cadeva con una forza e una violenza rare per Firenze, affidò i piccoli a Suor Ubbidienza e chiese di poter incontrare Suor Elena.

Non volle andare nel suo ufficio, preferendo la cappella, secondo lei molto più adatta per quello che voleva dire alla Superiora.

“Sono qui. Parlatemi pure di quello che volete.” disse la donna, quando finalmente si trovò sola con la Riario.

Quella richiesta le era parsa strana, ma solo fino a un certo punto. Anche se la figlia della Sforza non era una monaca per vocazione, ma solo per copertura, era normale che venisse colta da qualche incertezza, come le altre giovani che si chiudevano in convento. La Superiora, quindi, era già pronta a sentire il solito repertorio di insicurezze e rimpianti, con tanto di domande retoriche su quando e come quel limbo sarebbe finito.

Perciò rimase molto sorpresa, quando Bianca, dopo un lungo silenzio, disse: “Io ho commesso un peccato orribile e imperdonabile.”

Facendosi più seria, Suor Elena cercò di capire fino a che punto arrivasse la tendenza a esagerare, tipica dei giovani, e dove invece cominciasse la verità: “Quando hai commesso questo peccato?”

“Non avevo ancora quattordici anni.” rispose la Riario, tornando indietro con la memoria.

“Di qualunque cosa si tratti – mise le mani avanti la Superiora – non può essere nulla di così grave... Eravate poco più di una bambina.”

A quel punto la giovane cercò lo sguardo della monaca. Suor Elena, malgrado il suo ruolo, era una donna di mondo, capiva le dinamiche della vita. Eppure Bianca fu certa che quella volta non avrebbe capito.

“Avete ragione.” disse, rinunciando in partenza a spiegarle il tormento che provava nel sapere di aver avuto una parte molto importante nella morte di Giacomo Feo.

La Superiora, anche se in ritardo, ebbe un dubbio e cercò di indagare, chiedendo alla ragazza di parlare pure di questo peccato, per alleggerirsi l'anima, e le consigliò di farlo anche con il padre confessore che visitava di quando in quando la chiesa del convento.

La Riario la ringraziò, ma si rifiutò di parlare oltre. Come avrebbe potuto farle capire, ma capire davvero, che lei aveva intuito i piani di Ottaviano e Cesare, che anche lei aveva voluto, anche se inconsciamente, che Giacomo Feo morisse? Come poteva farle capire che, pur sapendo tutto, o almeno le cose principali, aveva taciuto? Come poteva farle capire che si era resa complice, per leggerezza e gelosia, di due assassini? Come poteva farle capire che perfino il giorno dell'omicidio si era prestata, senza fare domande, ai progetti dei suoi due fratelli maggiori?

Non poteva.

“Perdonatemi, se vi ho disturbata.” disse piano, alzandosi dalla panca su cui si era accomodata assieme a Suor Elena: “Sono stata sciocca.”

La Superiora non la trattenne, limitandosi a guardarla in silenzio mentre andava via.

Bianca, appena fuori dalla cappella, sentì l'abito da suora farsi stretto, sul suo corpo, la collaretta la soffocava, il velo l'opprimeva e la cinta di corda sembrava in grado di spezzarla in due.

Iniziò a correre, senza rendersene conto, boccheggiando sempre di più, simile a un pesce tirato fuori dall'acqua. Andò fino alle camere di servizio, deserte a quell'ora, e si allentò l'abito vicino al collo. Le sembrava di non respirare più.

Si appoggiò con la schiena al muro e fece del suo meglio per normalizzare il battito del suo cuore.

Piegata sulle ginocchia, si guardò le mani. Era solo suggestione, eppure le vide coperte di sangue, del sangue di Giacomo Feo, per la precisione.

Le parve un orrore così grande, una colpa così grave, come mai le era parsa da che era successo il disastro. Aveva ucciso il padre di suo fratello. Aveva ucciso l'uomo che sua madre amava. L'aveva ucciso lei, esattamente come Ottaviano e Cesare. La sua colpa non era meno grave.

Si sentiva sopraffatta, incapace di reagire. Era assurdo che una simile consapevolezza arrivasse a cinque anni di distanza, eppure era così.

Scoppiando a piangere, inconsolabile, nel silenzio solitario del corridoio deserto, la ragazza si mise le mani sulla testa e si lasciò scivolare in terra.

Era terrorizzata, perché sapeva che quel demone non l'avrebbe mai lasciata e sapeva che l'avrebbe perseguitata fino alla fine, senza lasciarla mai libera.

Tra le lacrime, si chiese se suo fratello Bernardino l'avrebbe mai perdonata, se mai lei avrebbe trovato un modo per chiedere ammenda...

Il mezzogiorno arrivò e passò. Solo quando si sentirono sulle scale i passi scalpiccianti di una suora, Bianca si scosse.

Si tirò in piedi, si asciugò il volto e cominciò a camminare veloce, abbassando il capo in modo che i bordi ampi del velo coprissero i suoi occhi rossi e umidi. Passò accanto alla monaca senza che questa le rivolgesse la parola o lo sguardo: la discrezione era una delle migliori doti delle recluse che vivevano alle Murate.

A fatica, la Riario si costrinse a tornare alla sua cella. Vi trovò Suor Ubbidienza che giocava con Cornelia, mentre Bernardino, torvo, se ne stava in disparte. Quando la vide, il piccolo Medici, però, si abbandonò a uno dei suoi rari sorrisi. Le corse incontro e si fece prendere in braccio.

“Adesso ci penso io.” disse piano Bianca, rivolgendosi alla suora.

“Posso stare ancora un po' con la mia piccola Cornelia?” chiese quella, notando, ovviamente, lo stato pietoso in cui si trovava Bianca, ma non facendo domande in merito.

“Come volete.” concesse la giovane.

Non appena Suor Ubbidienza fu uscita con la bambina, la Riario diede un bacio sulla guancia a Giovannino, che sembrava già abbastanza felice di essere con lei da non desiderare altro, e poi si mise alla finestra, con il fratellino in braccio.

“Guarda come nevica ancora...” gli sussurrò: “Ti piace la neve?”

Il piccolo strinse gli occhi dalla sfumatura picea e poi, in modo abbastanza buffo, rispose: “Non lo so.”

A Bianca venne da ridere, e, anche se ancora a fatica, lo fece. Diede un altro bacio al fratellino e poi sospirò.

“Hai proprio ragione a pensarla così.” gli disse: “La neve, come tutto quanto, può essere la cosa più bello o più brutta del mondo... Dipende da come la viviamo.”

Giovannino parve d'accordo, e poi forse stanco di guardare la distesa bianca del cortile e i fiocchi che vorticavano in cielo, chiese: “Mi racconti una storia?”

Rabbuiandosi appena, la Riario annuì, decidendo di sfruttare quell'occasione per cominciare a riparare – anche se in minima parte – alle sue colpe.

“Ti voglio raccontare una storia che non ti ho mai raccontato.” spiegò, facendo sedere il piccolo sul letto e mettendosi accanto a lui: “Quella di Giacomo, un giovane uomo che ha amato molto nostra madre, e che è morto troppo presto.”

“Era un soldato valoroso?” chiese il bambino, perplesso per il tema insolito della storia.

“No.” rispose, forse troppo frettolosamente, Bianca, per poi riparare: “Ma era il padre di nostro fratelli Bernardino.”

Pur avendo un ricordo un po' sfuocato di Bernardino – come di tutti i suoi altri fratelli – il piccolo Medici, con l'attenzione quasi spasmodica dei suoi due anni e mezzo abbondanti, si fece silenzioso e si mise in ascolto, curioso verso quel Giacomo di cui non ricordava di aver mai sentito parlare.

 

A Firenze aveva nevicato per cinque giorni consecutivi senza mai smettere un solo istante e poi, il 26 novembre, finalmente aveva smesso, ma da allora la città era stata travolta da un freddo tanto sordo da trasformare tutta la neve caduta in ghiaccio, paralizzando, di fatto, quasi ogni attività umana.

Anche nel palazzo di Alessandra Scali i camini faticavano a riscaldare l'ambiente, tanto che Galeazzo, anche quella mattina, nello svegliarsi si era per prima cosa infilato i guanti e messo la berretta in testa.

“E tu vorresti fare il soldato...” la voce strascicata di suo fratello Ottaviano lo fece quasi sobbalzare, mentre imboccava le scale: “Se reagisci così a un po' di freddo...”

Il Riario più giovane fece finta di non sentire il tono denigratorio nella sua voce e ribatté: “Oggi è il compleanno di Bernardino.”

“E quindi?” domandò strascicato il maggiore.

“E quindi, almeno cerca di non essere troppo sgradevole con lui, oggi.” lo avvertì Galeazzo.

Ottaviano sollevò le sopracciglia e, affiancandolo, lo apostrofò: “Quando parli così, sembri nostra sorella...”

Il minore, non avendo voglia di litigare, non raccolse la sfida, e lasciò che l'altro lo superasse e scendesse le scale prima di lui.

Arrivato nel salone, Galeazzo si sorprese nel trovarvi Alessandra assieme a Francesco Fortunati. Il piovano era tornato a Firenze da qualche giorno, ma non era ancora andato a visitarli.

“Ho approfittato del clima inclemente – spiegò Francesco, in risposta allo sguardo interrogativo del Riario – per arrivare qui senza che mi vedesse troppa gente.”

“Sedetevi, stiamo parlando di cose importanti.” fece la padrona di casa, indicando una delle poltroncine al ragazzo.

Galeazzo si sedette e si mise in ascolto. In realtà capiva solo in parte ciò di cui gli altri due stavano parlando, ma una notizia lo colpì.

“A quanto pare il Doge crede che sia una buona mossa...” stava dicendo Fortunati: “Dare l'Arma di Cavaliere di San Marco a Giovanni Pirovano, secondo Venezia, è un modo per far capire a tutti che chi si piega al papa o ai francesi, è benvoluto.”

“E allora perché non fa altrettanto con Pandolfo Malatesta? È lì anche lui per avere il favore dogale, no?” chiese Alessandra, accigliandosi.

“Giovanni Pirovano è diventato Cavaliere di San Marco?” chiese Galeazzo, stupefatto da quella notizia e del tutto disinteressato al resto.

“Così sembra.” rispose il piovano, con gravità.

Il Riario abbassò lo sguardo. Gli sembrava così ingiusto che quell'uomo, a cui sua madre aveva affidato in un certo senso la sua vita, fosse stato insignito di una simile carica, mentre lei marciva in una cella.

“Adesso che il Marchese di Mantova è stato in visita a Ferrara, sembra che Alfonso sia più propenso a...” stava dicendo Francesco, quando Galeazzo si alzò di scatto.

“Perdonatemi.” disse, e, senza aspettare formale congedo, uscì dal salone, con i pugni chiusi contro i fianchi e una stretta allo stomaco che gli toglieva quasi il respiro.

Cercava un posto tranquillo dove eclissarsi e cercare di calmare la mente. Non era suo costume lasciarsi trascinare dalla rabbia, ma aver ricevuto quella notizia di Giovanni da Casale lo stava facendo fumare per la collera.

“Dove stai andando, tu?” chiese, quando vide Bernardino sfilare verso una delle porta di servizio che portavano di sotto, nei locali della servitù.

Il ragazzino schiuse le labbra, poco avvezzo a vedere il fratello così nervoso, e si bloccò.

Galeazzo, nel vedere il viso armonioso del fratello, si ricordò ciò che lui stesso aveva raccomandato a Ottaviano: era il compleanno di Bernardino, non si doveva essere sgarbati con lui.

“Buon compleanno.” gli sussurrò: “Dieci anni non sono pochi. Ormai sei quasi un uomo.”

Il Feo abbozzò un sorriso e poi, desideroso di passare un po' di tempo con quel fratello che, tra tutti, sembrava quello più disposto ad apprezzarlo e amarlo, gli confessò: “Stavo uscendo, per vedere l'Arno ghiacciato... Ma se mi dai una lezione di scherma, prometto che resto in casa.”

Il Riario non era dell'umore giusto per tirare con delle spade di legno, ma non voleva che Bernardino uscisse con quel freddo, men che meno per andare sul fiume, rischiando, magari, di cadere dentro all'acqua ghiacciata e ammalarsi.

Aveva promesso a sua madre di difenderlo e proteggerlo, di essere per lui un buon fratello: e così avrebbe fatto.

“Va bene.” sussurrò: “Prendi le spade. Andiamo in camera.”

Il Feo, colto dall'entusiasmo, diede un rapido abbraccio al fratello maggiore, e poi saltellò a prendere le spade d'addestramento, pronto come non mai a imparare tutto quello che poteva da colui che, ai suoi occhi, con la spada era secondo solo alla loro madre.

 

Quella mattina Caterina, con grande cura, aveva messo a posto i pezzetti di stoffa con cui cercava di tenere il conto dei giorni, e aveva capito che era il 28 novembre.

Ci teneva molto, a sapere che quel giorno il suo piccolo Barnardino compiva dieci anni. Forse era sciocco, da parte sua, attaccarsi a quel genere di pensieri, ma immaginare che, nel bene e nel male, era riuscita a farlo sopravvivere tanto, la rinfrancava.

Ricordava ancora molto bene la sera in cui era nato, al Paradiso, e, ancor di più, il momento in cui l'aveva stretto tra le braccia la prima volta, con Giacomo accanto a lei, prodigo di baci e carezze. In tutta sincerità, quello era stato, forse, il momento più bello della sua vita.

La cella fredda di Castel Sant'Angelo la stringeva nel suo abbraccio algido come a impedirle di scaldarsi con quel genere di memorie, ma la Tigre non demordeva. Rivedeva il suo settimo figlio neonato, così bello e così indifeso, e con lui rivedeva il suo Giacomo, giovane, orgoglioso di essere diventato padre, e perdutamente innamorato.

Decidendo arbitrariamente cosa ricordare e cosa no, le risultò facile dimenticare tutte le parti spiacevoli di quel periodo della sua vita, o, almeno, fu così fino a quel pomeriggio, quando cominciò a nevicare.

La Sforza se ne accorse subito, dal modo in cui era cambiato il vapore che si sollevava dalle sue labbra. Era un freddo diverso da solito, pungente, antico. E poi aveva intravisto qualche fiocco infilarsi nelle feritoie che la collegavano al cortile, e allora aveva capito. Nevicava, a Roma.

Nel giro di un paio d'ore, nel silenzio solitario della sua gabbia di pietra, il freddo si trasformò in gelo, e in breve la donna non seppe più come tenersi caldo. Aveva le mani intorpidite, le gambe gelide, e il naso e le orecchie non le sembravano nemmeno più le sue.

Di colpo ai ricordi belli legati a Bernardino, arrivarono tutti gli altri: i litigi con Giacomo su come svezzarlo, la decisione di suo marito di ribattezzarlo con il nome di Carlo a sua insaputa, la decisione, sofferta, ma insindacabile, di lasciare che qualcun altro lo allevasse in casa propria. E poi, nel 1495, la morte di Giacomo e la necessità di richiamare il bambino alla rocca, le difficoltà a farlo accettare dai fratelli, la paura di perderlo, nel mostrare al mondo la verità sulla sua provenienza...

Con i denti che battevano con forza, e il corpo scosso da brividi incoercibili, Caterina sentì la febbre alzarsi e poi, pur non volendo addormentarsi per non cedere al freddo e non rischiare la vita, la donna sentì i sensi abbandonarla e svenne.

 

A Faenza, dopo l'attacco fallito il 20 novembre, la situazione si era fatta pressoché statica. A parte qualche rado bombardamento, Cesare aveva ordinato un solo tentativo d'assalto, il 24, ma i suoi uomini erano stati respinti con una tale facilità da spaventarlo.

Tiberti era andato a Cesena, a curarsi le sue ferite, rifiutandosi, de facto, di continuare l'assedio, e così il Borja gli aveva affidato la guardia di Bagnacavallo, anche affinché placasse certe incursioni di balestrieri faentini che rubavano spesso bestiame nel contado.

Anche Vitelli era ancora fuori uso, per colpa della ferita al braccio, e questo pesava molto sull'umore dei soldati.

Infine perfino Giampaolo Baglioni, che pure appariva desideroso di mettersi in mostra in quella guerra, stava dando segni di cedimento. Non passava giorno che non si lamentasse della neve, ormai presenza costante e impenetrabile, e dava ormai voce più allo sconforto delle truppe che alla determinazione del quadro di comando.

Il freddo, in effetti, era quasi insostenibile. Il Borja aveva notato una differenza enorme, con il clima incontrato l'anno prima nel prendere Forlì. Malgrado qualche nevicata, quando era stato impegnato contro la Sforza, l'inverno era un semplice inverno: freddo, ma accettabile. Quell'anno, invece, si rischiava ogni mattina di svegliarsi con le dita congelate e perfino i pezzi di artiglieria più moderni si inceppavano per colpa del ghiaccio.

Le strade, poi, trasformate in cumuli di neve, impedivano l'arrivo costante di foraggio e cibo. Il vino, poi, non lo vedevano da giorni. Erano quelli i motivi principali delle tensioni tra i soldati di diverse provenienze: perugini e spagnoli, rivangando le razzie fatte in Umbria, non facevano altro che azzuffarsi e scatenare risse, e, alla fine, la recriminazione massima riguardava proprio la scarsità di vino e di vivande, come se fosse colpa dell'una o dell'altra fazione se mancavano.

Era stata una decisione difficile, ma alla fine il Valentino aveva capito che non c'era altro da fare: doveva ordinare il quartieramento invernale.

Era il 30 novembre e ormai il figlio del papa stava per partire da Faenza, per supervisionare il campo invernale che sarebbe stato approntato nelle vicinanze. Avrebbero requisito case, granai e tutto quello che si poteva, e da lì avrebbero cominciato un lavoro di lento logoramento dei faentini.

In fondo, si diceva Cesare, se i suoi avevano fame, alla fine l'avrebbero avuta anche Astorre Manfredi e i suoi difensori.

“Naldi.” il Duca di Valentinois, con addosso già il mantello da viaggio, chiamò a sé Vincenzo.

Questi, camminando in modo pesante sotto la neve, gli si avvicinò. Dalle froge del cavallo che il Borja teneva per le redini si alzava una fitta colonna di vapore e perfino dal pelo caldo dell'animale sembrava sollevarsi una coltre di nebbia.

“Dovete chiedere un incontro con i reggenti di Astorre Manfredi.” disse il figlio del papa: “Vedete voi come e dove, ma presto. Persuadeteli a cedere senza combattere.”

Naldi batté le palpebre un paio di volte e poi, scuotendo appena il capo, ribatté: “Io posso provare, ma dubito che accetteranno.”

“Voi siete vissuto a Faenza per anni.” gli ricordò Cesare: “Siete faentino, di fatto, anche se ora combattete contro la vostra città. Vi ascolteranno.”

Vincenzo era convinto esattamente del contrario, tuttavia sapeva di non potersi sottrarre. Aveva già in mente un luogo adatto per l'incontro: il Convento degli Osservanti.

Perciò, ben lungi dal mostrare oltre le sue perplessità, annuì e borbottò: “Va bene, andate tranquillo, Duca, che qui ci penso io.”

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas