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Autore: Adeia Di Elferas    02/12/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ci aveva messo un paio di giorni, ma alla fine Vincenzo Naldi era riuscito a organizzare un incontro con i nuovi reggenti dello Stato faentino. Era rimasto molto sorpreso, in un primo momento, nel sapere che ormai era tutto nelle mani dei Sedici di Guerra, ma poi aveva capito che Astorre Manfredi aveva fatto l'unica scelta sensata.

Come sperato, li aveva convinti a incontrarlo nel Convento degli Osservanti, ottenendo quindi che tutti e non solo lui si presentassero disarmati, in riguardo alla sacralità del luogo. In un primo momento, per ovviare questo dettaglio, i Sedici avevano proposto di utilizzare il cortile, ma la neve fitta e insopportabile aveva piegato anche la loro testa, convincendoli che per non congelare era necessario accettare quel piccolo compromesso.

Una volta che si era trovato davanti i faentini, Vincenzo li aveva osservati uno dopo l'altro. Molti li conosceva. E loro conoscevano lui.

“Messer Naldi – prese la parola il dottor Giacomo Pasi, che rappresentava Porta Ponte – non vi vergognate a venire qui, nella vostra città, a chiederci di arrenderci a uno straniero?”

“Infatti – si intromise il maestro Girolamo Bettisi, che parlava per Porta Imolese – non vi sentite un traditore?”

“Non avete un minimo di pietà per i vostri parenti che ancora vivono tra queste mura?” domandò, teatrale, Tommaso Ubertini, di Porta Ravegnana.

“Volete distruggere la città che vi ha permesso di essere l'uomo che siete?” affondò il colpo Silvestro Gramenanti di Porta Montanara.

“Se sono qui a farvi una proposta – rispose Naldi, prima che altri si unissero a quel coro – è proprio perché non voglio la distruzione di questa città.”

Il silenzio che seguì lo indusse a proseguire, ma prima, per attirare ancor di più l'attenzione di tutti i presenti, salì in piedi su una delle panche che affollavano il refettorio del convento, in cui si erano radunati.

“Se sono qui è per dirvi che l'unica cosa buona che possiate fare per Faenza è metterla nelle mani di un uomo così potente come il Duca Valentino.” la sua voce era calma e, in un uomo che non era mai stato un grande oratore, quella sicurezza gli dava una credibilità notevole: “Pensate a quali maggiori benefici per voi e per il popolo potrete avere da lui, piuttosto che da un giovane prinicipe di forze, di protezione e di alleanze poverissimo.”

Ser Battista Cavina, di Porta Ponte si schiarì la voce e, dopo una breve occhiata agli altri faentini, disse: “Quello che dite non è di poco conto.”

“Ed è la verità. Vi prego, pensateci.” tentò Vincenzo: “Astorre Manfredi avrebbe potuto essere un gran signore, per Faenza, ma non ora e non a queste condizioni. Il Duca di Valentinois vi darà benessere, sicurezza e prosperità. In cambio vuole solo che rinunciate a farvi comandare da un ragazzino.”

Sentito ciò, Giovanni Filippo Negusanti, di Porta Montanara, fece un cenno agli altri membri dei Sedici di Guerra e, rivolgendosi a Naldi, disse: “Capiamo quello che dite. Abbiamo bisogno un momento. Potete attendere qui fuori?”

Vincenzo non si oppose. Sapeva per esperienza che ormai non avrebbe potuto aggiungere altro per far cambiare loro idea: poteva solo aspettare che si esprimessero. Così, senza obiettare, lasciò momentaneamente il refettorio e si mise appena fuori dalla porta, in attesa.

Lo richiamarono dentro prima del previsto, e il modo in cui lo fissavano gli fece capire subito che aria tirasse.

“Tornate incontanente al Duca.” disse piatto Giacomo Francesco Laderchi, di Porta Imolese: “E vergognatevi, cittadino di Faenza quale siete, di consigliare ad altri di fare opere codarde e infami.”

Naldi ascoltava in silenzio, occhieggiando di quando in quando sugli altri faentini che gli stavano dinnanzi. Si sentiva davvero un traditore, ma che altro poteva fare, ormai? Faenza non gli aveva mai dato davvero di che vivere. Fosse stato altrimenti, non si sarebbe certo venduto così al miglior offerente...

“Dite al Borja – continuò Laderchi – che i faentini non hanno in costume di rompere la giurata fede, e che sono tutti quanti fermi e parati a difendere la patria e il principe fino a ogni estrema prova.”

“Farò come dite.” annuì Vincenzo, quando capì che i Sedici non avevano altro da aggiungere: “Ma siate certi di una cosa: la vostra risoluzione farà crescere nell'animo feroce e superbo dei nostri l'ira e il dispetto.”

I Sedici di Guerra rimasero in silenzio, solo alcuni di loro diedero un segno di vita sollevando un sopracciglio o spostando lo sguardo, e allora Naldi non poté far altro che esibirsi in un profondo inchino e andarsene, già sapendo come riferire la cosa al Valentino.

 

Quando il 5 dicembre Cesare Borja era arrivato a Forlì, aveva trovato una città preda della confusione. Il suo grande rammarico era stato scoprire che buona parte della causa di tale caos era Giannotto, il francese che suo padre aveva insistito a mettere al suo soldo.

Il Valentino aveva pensato che metterlo alla guardia di Forlì sarebbe stato un buon modo per non trovarselo tra i piedi e, allo stesso tempo, per impiegarlo in un modo utile. E invece aveva scoperto che il mercenario aveva alloggiato i suoi soldati nelle case dei forlivesi, imponendo a ogni nucleo familiare di sfamarne almeno uno o due, causando, nel giro di pochi giorni, una vera e propria ribellione.

Così il Duca, chiamando a sé il Governatore, Ramiro Lorca, gli aveva ordinato di occuparsene, facendo impiccare un soldato di Giannotto, a mo' di capro espiatorio, per placare gli animi. Non appena aveva spiccato l'ordine, però, Cesare aveva lasciato la città, per recarsi momentaneamente a Imola, in modo da non poter essere ricollegato, dalle truppe, a quell'esecuzione.

Aveva aspettato qualche giorno, e poi, non appena aveva saputo che in sua assenza la situazione era cambiata, ma non esattamente in meglio, il Borja decise di rientrare a Forlì e parlare con il diretto responsabile di un nuovo malcontento popolare: il suo amico Miguel de Corella.

Il figlio del papa conosceva bene Michelotto e sapeva come prenderlo. Sapeva anche che quello che aveva fatto, probabilmente, non era stato dettato da voglia di strafare o di incutere il terrore nel prossimo: verosimilmente l'aveva fatto solo per rabbia.

In ogni caso, Cesare decise di non arrivare subito al nocciolo della questione e così, dopo essersi sistemato a palazzo Numai, fece chiamare a sé Miguel e cominciò l'incontro parlandogli d'altro.

“Vitellozzo ha provato a riavvicinarsi a Faenza, ma poi ha ripiegato a San Giuliano.” spiegò, un po' freddo, il Valentino: “Siccome l'ambasciata di Vincenzo Naldi è andata a vuoto, ho preferito far spostare le truppe del Vitelli nei quartieri invernali...”

Michelotto lo ascoltava in silenzio. Il viso dai tratti duri non tradiva particolari emozioni, eppure Cesare poteva sentire gli occhi dello spagnolo passarlo al vaglio, come faceva ogni volta in cui si ritrovavano dopo essere stati lontani per un po'.

“Quell'idiota di Dionigi Naldi – riprese il figlio del papa, alzandosi dalla poltrona in cui si era messo e allacciando le mani dietro la schiena – pensava di poter riparare al fallimento del fratello ingannando i faentini, facendo credere necessario un loro intervento in Val di Lamone... Voleva far credere loro che il popolo si stesse ribellando e noi, reclamando la presenza di Astorre Manfredi...”

Miguel strinse appena le labbra e inclinò di lato la testa. Non era suo costume terminare le frasi degli altri, perciò, benché avesse intuito l'infelice esito di quel tentativo, si guardò bene dall'anticiparlo.

“Ovviamente Bernardino da Marzano, che non è uno sprovveduto, è andato sul posto prima di portarvi l'esercito, e ha capito che era una trappola...” soffiò Cesare, mettendosi a camminare a vuoto, fino ad arrivare a un passo dal suo amico: “Come se non bastasse, Giampaolo Baglioni mi ha chiesto una licenza per tornare a Perugia, per andare a Senigallia, da Giovanni Della Rovere e poi a Urbino, per discutere con il Montefeltro... E io ho dovuto accettare, perché qui è tutto fermo e non avevo motivo di trattenerlo.”

Il Corella abbassò lo sguardo, chiedendosi il perché del tono sempre più esasperato del Borja, e il suo costante avvicinamento, come se volesse arrivare a fiatargli direttamente sul collo.

“E mentre dovevo gestire tutto questo disastro – arrivò infine al punto Cesare, non riuscendo più a girare attorno al problema – mi viene detto che a Forlì la situazione è fuori controllo perché il mio più fidato amico ha ben pensato di far impiccare in piazza un calzolaio solo perché a suo dire vendeva scarpe troppo costose!”

L'accusato prese fiato e poi, allargando appena le braccia, provò a difendersi: “Quel farabutto voleva vendermi un paio di scarpe scadenti a un prezzo che...”

“Non hai capito: non ci sono scuse.” disse, liscio come velluto, il Borja: “Tu qui mi rappresenti, se non ti è chiaro.”

Il valenciano deglutì e poi, guardando il figlio del papa in tralice, ebbe l'ardire di soggiungere: “Se ti rappresento, voglio che mi rispettino, invece quel calzolaio voleva truffarmi.”

Cesare fece un lungo sospiro. Guardò il trentenne che aveva davanti con attenzione. Gli accarezzò lentamente la guancia ruvida di barba, sapendo bene che effetto avrebbe fatto, su quell'uomo grande e grosso, ma con un unico vero punto debole.

Attese che Miguel cominciasse a sciogliersi sotto il suo tocco e, non appena lo vide vulnerabile, ritrasse la mano e gli diede uno schiaffo.

Michelotto non si ritrasse, né vacillò. L'unico segno di sofferenza, per quel gesto – una punizione molto più simbolica che non effettiva – si poteva vedere nei suoi occhi, già velati di lacrime.

“Non prendere mai più simili iniziative senza avvisarmi.” lo redarguì il Valentino.

Il Corella, con fatica, risollevò il mento e, guardando un punto indefinito della parete dinnanzi a sé, fece un impercettibile segno di assenso.

Il Duca di Valentinois si prese qualche istante, per valutare se nel volto del suo amico vi fosse un sincero segno di pentimento per quello che aveva fatto e poi, cambiando completamente tono, esclamò: “Ho deciso di trascorrere qui il Natale.”

Miguel, accigliandosi un po' per la vena di giovialità che aveva udito nella voce del Borja, ma non commentò in altro modo.

“Riesci a organizzarmi una bella festa senza ammazzare inutilmente altra gente?” chiese Cesare, posando una mano – la stessa con cui l'aveva schiaffeggiato – sulla spalla dell'amico.

“Farò il possibile.” rispose Michelotto, un po' rigido.

Il Valentino parve soddisfatto, ma, prima di lasciarlo andare, volle punirlo di nuovo, in un modo ancor più sottile. Erano anni, ormai, che aveva capito come l'abnegazione del valenciano fosse legata a un sentimento molto più nobile dell'interesse economico o della ricerca di prestigio. Il povero Miguel lo adorava come un barbaro avrebbe osannato un idolo pagano. Lo amava, per quanto cercasse di nasconderlo, e, proprio per quel motivo, era il più fidato e manovrabile tra i bracci destri che Cesare avesse mai avuto.

“Un'altra cosa... Questa notte non ho voglia di stare da solo.” disse il figlio del papa, godendosi la speranza che nasceva negli occhi scuri dell'amico, per poi sparire non appena sentì il prosieguo del discorso: “Quindi trovami una bella ragazza. Giovane, mi raccomando, non voglio l'ultimo degli scarti delle bettole di Forlì.”

Michelotto, seppur con una certa riluttanza, rispose: “Lo farò.”

Siccome non l'aveva visto abbastanza ferito, il Borja soggiunse: “E trovami anche un ragazzino. So che sai come sceglierli... Ti lascio carta bianca.”

Il trentacinquenne, stringendo con forza i grossi pugni lungo i fianchi, alla fine riuscì a borbottare, amaro: “Come vuoi.” e, dopo aver ricevuto licenza, se ne andò.

Cesare attese qualche minuto, prima di lasciare il salone. Non gli era piaciuto, trattare a quel modo Miguel, ma era il solo metodo che conoscesse per spegnere sul nascere i suoi eccessi. Aveva un impero da forgiare: non aveva tempo per badare a un compagno intemperante.

 

Un'immagine scomposta, con il naso lungo e i capelli inanellati di Girolamo, ma con la stessa voce suadente e cattiva di Cesare Borja, si stava avvicinando a Caterina, che si sentiva fredda come un pezzo di ghiaccio, incapace di muoversi, malgrado fosse consapevole dello scempio che stava per compiersi di nuovo ai suoi danni.

La donna provava a gridare, cercava di piangere, ma in quel momento si sentiva come una statua. Il suo corpo era marmo, immobile, impassibile, gelido. Quando, però, sentì il tocco di quell'uomo che condensava in sé i due mostri che l'avevano torturata in due momenti così distanti e diversi della sua vita, la Tigre ebbe la sensazione di liquefarsi, sciogliendosi in rivoli di acqua, o, forse, di sangue...

Quando inspirò con forza l'aria, nel risvegliarsi di colpo da quell'incubo, la Sforza avvertì una fitta al costato. Tossì più e più volte, fino a farsi lacrimare gli occhi e a farsi mancare il fiato.

Poco per volta, mentre riconosceva la cella buia che l'avvolgeva e l'odore pungente della propria sporcizia, che si mescolava, greve, a quello più etereo della neve che di certo ancora stava cadendo su Roma, Caterina si ricordò della propria condizione.

Le girava la testa e faceva fatica a stare anche solo seduta, per cui si sdraiò di nuovo immediatamente.

Si chiese quanto tempo fosse passato. Dalla prostrazione che avvertiva, probabilmente qualche giorno.

Tentò con tutta se stessa di ricordare qualcosa, di quel lungo momento di incoscienza, e dopo un po' le riaffiorarono alla mente scena sfocate. Era difficile capire se fossero fantasie che la sua mente avesse creato per riempire i buchi, o se fosse tutto vero. In ogni caso, la sua mente le riproponeva l'immagine incerta di quello che era sicura fosse frate Lauro. Aveva il viso tumefatto, ma la voce era la sua, e le portava il cucchiaio alla bocca, per costringerla a bere un po' e mangiare qualcosa.

Dopo qualche minuto di perplessità, la donna si convinse che doveva essere successo davvero così, se non era morta. Qualcuno – magari non Bossi – doveva per forza averla nutrita e idratata.

Passò qualche ora, durante la quale la Leonessa patì più la consapevolezza di aver perso di nuovo il senso del tempo, che non il freddo che le pungeva le mani, i piedi, il naso, le orecchie...

Inseguendo con lo sguardo le nuvole di vapore che salivano nella penombra dalle sue narici a ogni respiro, Caterina si chiese ossessivamente se davvero quello che ricordava di aver visto fosse frate Lauro. Giunta a conclusione che, verosimilmente, non l'avrebbe mai scoperto, si trovò a pensare ad altri membri del suo seguito di cui non aveva più saputo nulla.

Quando arrivò a ricordarsi di Argentina, la serva che più le era stata fedele durante il difficile periodo della guerra e dell'assedio, si costrinse a non pensare più a nulla: era troppo debole, per soffrire così tanto a causa dell'incertezza.

Si rese conto, mentre si rannicchiava un po', per trattenere il più possibile il calore del suo corpo, che l'unico di cui avrebbe davvero voluto avere notizie, se possibile negative, era Giovanni da Casale. In qualunque modo la guardasse, lui era stato davvero la più grande delusione della sua vita.

“Sei sveglia...” il carceriere aveva appena aperto il portone, tenendo in mano una torcia, la cui fiamma accecò per un po' la Sforza: “Allora oggi puoi mangiare da sola.”

Detto ciò, l'uomo quasi lanciò in terra la razione del giorno di zuppa e brodaglia destinata alla Tigre, e, borbottando qualcosa a qualcuno che era lì fuori, richiuse la porta, ripiombando la cella nell'oscurità.

A tentoni, Caterina raggiunse le ciotole, trovandole quasi vuote per colpa della poca cura della guardia. Riuscì comunque a sorbirne tutto il contenuto. Purtroppo era già tutto freddo, ma, se non altro, dopo aver finito tutto quanto, le parve di avere lo stomaco meno vuoto di prima, e, per il momento, tanto le bastava.

Tossendo ancora un po', tornò nel suo angolo e chiuse gli occhi. Probabilmente era già dicembre. A breve il suo Galeazzo avrebbe compiuto quindici anni. Chissà quanto era cresciuto dall'ultima volta in cui l'aveva visto...

“Sarà quasi un uomo, ormai...” sussurrò tra sé, sospirando, immaginandoselo con le guance velate dal primo accenno di barba e la voce più bassa di quanto la ricordasse: “Il mio Galeazzo...”

 

Isabella richiuse in fretta la finestra che le aveva lasciato negli occhi l'immagine di Mantova bianca di neve, ancora immersa nel turbinio dei fiocchi e del vento gelido che spirava da nord.

Rabbrividendo, si andò a risedere alla sua scrivania e, ritrovato il punto in cui aveva abbandonato la lettura, si rituffò nelle vicende di Tirante.

Era stata lei a chiedere, con insistenza, ad Antonia Del Balzo, moglie di Gianfrancesco Gonzaga, loro parente, di prestarglielo, eppure, in un certo senso, se ne era già pentita. Aveva sentito parlare molto di quell'opera che narrava imprese cavalleresche e amori impossibili e avventurosi, e così, quando aveva saputo che Antonia, durante un suo viaggio a Napoli, ne aveva recuperata una copia, le aveva subito scritto per domandargliela in prestito.

Quella aveva accettato, ma con riluttanza, tanto da scriverle, senza mezzi termini, nella lettera d'accompagnamento del tomo, datata 7 dicembre: 'Mando Tirante a Vostra Illustrissima Signoria la qual me ha richiesta, pregandola, come l'habia lecto, me lo voglia rimandare per non lo haver mai lecto se non un pocho del principio, a la quale mi racomando.'.

“Tirant lo Blanch...” sussurrò a denti stretti l'Este, accarezzando la pagina, chiedendosi se davvero una coma Antonia Del Balzo potesse apprezzare un testo del genere.

Soprappensiero, mentre ragionava su quanto fosse stata arrogante, quella nullità, a osare metterle anche fretta nella restituzione, Isabella si portò una mano al ventre. Ormai non aveva più dubbi circa il suo stato, ma non aveva ancora avuto il coraggio di dire a nessuno che era di nuovo incinta.

Suo figlio Federico, la luce dei suoi occhi, era nato in maggio. Facendo due conti, questo nuovo figlio sarebbe venuto alla luce a fine maggio, al massimo a inizio giugno...

Tornando al suo libro, incapace, però, ormai di concentrarsi sulle vicende del povero Tirante, l'Este si chiese dove fosse in quel momento Pietro Bembo. Ormai erano mesi e mesi che non lo aveva alla sua corte, e le mancava sempre di più. Ricordava ancora lo smarrimento, quando aveva sentito dalle sue labbra uscire parole di rammarico, nel comunicarle che doveva rientrare a Venezia per qualche tempo. Anche lui, ne era certa, era addolorato per la loro separazione forzata.

Con la mano che accarezzava sempre, distratta, il suo ventre che ancora non lasciava intravedere nulla, la Marchesa arrivò a chiedersi perché mai il mondo era pronto a perdonare agli uomini centinaia di amanti, perfino quelle prese con la forza, mentre a una donna non ne veniva perdonato nemmeno uno.

Per libera associazione di idee, pensò alla Tigre di Forlì, la donna che più di qualunque altra, in quei mesi, era stata sulla bocca di tutti nelle corti d'Italia. Nulla le avrebbe mai tolto dalla mente che l'accanimento subito dalla Sforza fosse stato anche legato ai suoi costumi troppo liberi, ritenuti disdicevoli e imperdonabili per uno donna. Se aveva fatto una fine tanto misera, in parte era perché il mondo non era pronto a perdonare una donna come lei.

Mentre si perdeva in quei rancorosi pensieri, Isabella intravide Francesco passare davanti alla porta del suo studiolo, e la tentazione fu troppo grande: “Non hai nulla di meglio da fare che girare a vuoto per il tuo palazzo?” l'apostrofò.

L'uomo, nel sentire la voce della moglie, tornò subito sui suoi passi, e, fingendo di essersi accorto solo in quel momento di lei, esordì: “Stai leggendo? Credevo fossi con nostro figlio Francesco...”

“Se sta un paio d'ore con le balie, non morirà.” ribatté lei, che, comunque, si era imposta quella breve separazione, perché in qualche modo cominciava a spaventarsi nel vedersi così tanto attaccata a quel figlio, quando, invece, verso le figlie non nutriva altro se non un tiepido affetto.

Il Gonzaga la guardò per un lungo istante. Adorava gli abiti che sua moglie si faceva cucire seguendo le bizze della sua fantasia. O meglio, adorava vedere lei fasciata da quei bellissimi vestiti... Era un visione tanto gratificante, per lui, da fargli quasi scordare le cifre esorbitanti che il Marchesato doveva sborsare ogni volta per farli confezionare.

Anche Isabella lo stava guardando, ma le sue valutazioni era di tutt'altra natura. Stava osservando le sue grosse mani, callose e sporche di quello che doveva essere grasso per corde d'archi. E poi studiava i suoi abiti, costosi, ma trattati con noncuranza, quasi che si trattasse di una corazza da guerra. E poi il suo viso, asimmetrico e dall'espressione contrariata...

In quel momento, si trovò sinceramente a chiedersi come avesse fatto, nelle ultime settimane, a sentire il bisogno di amarlo di nuovo, tanto da ritrovarsi nel suo letto proprio quando meno l'avrebbe immaginato.

Forse, cercò di convincersi, l'assenza di Bembo le risultava più penosa di quanto non ammettesse nemmeno a se stessa...

“Comunque – disse piano l'Este – dovresti badare agli affari del Marchesato, interessarti alla guerra in Romagna, cercare di trovare un'intesa con Venezia... E invece perdi tempo passeggiando...”

Colto da un impulso subitaneo, l'uomo le si avvicinò e, chinandosi su di lei di malagrazia, le strappò un bacio.

“Smettila...” lo rifiutò la moglie, scansandolo e mettendo un po' in disparte il Tirant Lo Blanch, prima che quell'orso maldestro di Francesco ne stropicciasse le pagine.

“Non mi sembravi così schifata da me, la scorsa notte.” la pungolò lui, ritraendosi, ma non allontanandosi troppo: “Io ti osservo, e so che ti piace ancora quando...”

“Mi osservi, dici?” lo bloccò la donna, sistemandosi un po' l'abito, che, nel trambusto, si era sgualcito: “Fai finta di vedere e capire tutto, ma non ti sei nemmeno accorto che sono di nuovo incinta...”

Il Gonzaga parve paralizzarsi. Quella notizia, che in altri tempi l'avrebbe solo inondato di gioia e orgoglio, quella volta lo raggelò. Era contento, sicuramente, ma ne era così sorpreso da non sapere come gestire la novità.

“Se la cosa non ti piace...” sbuffò la Marchesa, chiudendo di scatto il libro che aveva davanti e alzandosi dalla scrivania: “Sappi che dovevi pensarci prima.”

“Da quanto sei incinta?” chiese lui, pensoso.

“Da tre mesi, più o meno...” rispose l'Este, abbassando lo sguardo.

Il Gonzaga fece due conti, sapeva che in quel periodo lui era a palazzo, ma il modo in cui sua moglie stava cercando di sfuggire al confronto, andando già verso la porta, lo insospettì tanto da portarlo a chiedere: “Il bambino è mio?”

“Vuoi sapere se ho dei dubbi sul fatto che tu sia suo padre, o vuoi sapere se vado a letto anche con altri uomini più in generale?” l'attaccò Isabella.

“Io...” cominciò Francesco, sbattendo le palpebre sugli occhi tondi e persi.

“Non fare domande di cui non vuoi la risposta.” concluse lei e, con il suo Tirante sotto al braccio, passò accanto al marito e uscì dallo studiolo, lasciando il povero Marchese di Mantova da solo con i suoi dubbi.

   
 
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