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Autore: TemperaGialla    23/08/2009    9 recensioni
No, pensai quando finalmente cominciai a realizzare.
Quando la ragione si fece da parte e ricominciai a sentirlo. Amplificato, suadente, invitante. L’odore del sangue. Del suo sangue. Un odore forte e dolcissimo, che in più di cent’anni non avevo mai sentito prima. {Primo Capitolo postato}
Genere: Generale, Romantico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Esme Cullen
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Esme Albero di ciliegie 

{ I'll spread my wings and I'll learn how to fly, I'll do what it takes til' I touch the sky }
                                                                               Breakaway – Kelly Clarkson

 

Era una bella giornata.
Mi svegliai di buon umore, rigirandomi tra le coperte leggere, infastidita e divertita dal pallido raggio di Sole che andava a carezzare la mia fronte. L’odore dei cornetti caldi della mamma che proveniva su dalle scale mi fece sorridere.
Ai piedi del mio letto era già pronto il vestito blu chiaro a mezze maniche che avrei dovuto indossare per andare in Chiesa.
Scesi lentamente, scostando dal viso una ciocca di capelli, andando ad aprire la finestra. Inspirai a fondo. Mi piaceva l’aria mattutina.
Indossai l’abito senza prestare attenzione all’ampia gonna che ricadde con un tonfo ai miei piedi scalzi. Storsi invece il naso quando presi tra le mani la stretta fascia che avrei dovuto mettere al bacino, cacciandola con rabbia all’interno di un cassetto, nascondendola tra la biancheria. Trattenere il respiro era nulla in confronto a non averlo.
Subito dopo, mi impegnai nella ricerca delle scarpe.
Quando finalmente le trovai, restituii lo sguardo alla ragazza nello specchio di fronte a me.
Aveva i capelli castani, forse un po’ troppo lunghi e chiari, oltre che arruffati.
Le sopracciglia erano distese sopra gli occhi verdi, decisamente grandi e particolari per non diventare argomento delle discussioni più disparate.
Le guancie erano rosse per l’imbarazzo e la sorpresa, dello stesso colore delle ciliegie appese all’albero davanti a casa, che ticchettava allegramente i suoi rami sul vetro. Erano posizionate appena sopra le labbra piene e scarlatte in confronto alla pallida carnagione, piegate in un buffo sorriso simile ad una smorfia.
Non mi sentivo particolarmente bella, sebbene papà mi ripetesse sempre quanto fossi graziosa. La sposa ideale che ogni marito sognerebbe di avere, diceva con tono trasognante alla mamma, ogni volta che mi vedeva entrare in cucina.
Dopo essermi pettinata, scesi le scale con lo stomaco brontolante.
- Esme, tesoro mio!- esclamò mia madre, coprendosi istintivamente la bocca rossa e perfetta con una mano per la sorpresa – Fatti vedere! Sei uno splendore!- disse afferrandomi per un braccio, costringendomi a ruotare su me stessa. Sorrisi nel momento il cui le davo le spalle.
- Mamma ti prego…non esagerare- mormorai debolmente, sperando che la smettesse. Non capivo affatto dove vedesse quest’enorme bellezza. Io mi sentivo normale. Un’anonima sedicenne con svariati sogni nel cassetto. Sogni sciocchi e sprecati, a detta di mia madre. I suoi occhi scuri luccicavano di lacrime quando le dicevo che sarei diventata un’insegnate. “Puah, bambini!” esclamava con sdegno “Dovresti pensare a trovarti un marito, anziché fantasticare su queste sciocchezze, altrimenti i migliori finiranno in fretta!” mi ripeteva in continuazione, come in una fastidiosa ninnananna.
- E tu smettila di sminuirti, tesoro!- fece scoccandomi un’occhiata di traverso, alzando un sopracciglio perfetto. Finalmente mi lasciò andare e una strana sensazione di sollievo mi avvolse completamente – Piuttosto Esme, siediti e aspetta tuo padre per fare colazione –
Si sedette anche lei, intimandomi a fare lo stesso, prendendo posto sulla sedia opposta alla mia. La sedia a capotavola spettava, naturalmente, a mio padre.
- Mmm…cornetti, esatto?- fece una voce roca ed affettuosa, proveniente dalle scale. Mio padre, la stratura piuttosto bassa e rotonda, percorse velocemente la distanza che ci separava, sistemandosi la cravatta. Scese l’ultimo scalino con un salto, prima di salutarci tutti con un sorriso ampio sul volto rubicondo e paffuto.
Diede un bacio veloce alla mamma e poi salutò me.
- Buongiorno, principessa – fece stampandomi un bacio su entrambe le guancie, senza nemmeno darmi il tempo di opporre resistenza. Insomma, avevo sedici anni.
- Joe ti conviene mangiare alla svelta, oppure arriveremo tardi in Chiesa – lo ammonì mia madre, prendendo dal grande piatto al centro della tavola un cornetto.
- Sì Lilibeth, come vuoi tu – rispose con voce atona, facendomi l’occhiolino e agguantando veloce due cornetti. Aveva promesso alla mamma che sarebbe stato a dieta anche se non ci credevo molto. Mamma era talmente concentrata a spalmare una dose minima di marmellata all’interno del proprio cornetto, che neppure lo notò.
Con un sorrisetto mi accinsi a prendere la mia colazione. Papà aveva già divorato il primo, ed ora esibiva con fare innocente il secondo nel piatto.
Mangiai gustando appieno ogni singolo morso, ridacchiando di tanto il tanto per le battute di papà. Sparecchiai in tutta fretta mentre i miei genitori si concedevano un caffè fumante.
Terminati gli ultimi ritocchi, ci preparammo ad uscire sotto il caldo sole di una delle tante domeniche estive. La Chiesa di padre Arthur era poco distante da casa nostra.
- Esme, ferma dove sei!- gridò all’improvviso mia madre, costringendo papà a voltarsi di scatto, preoccupato. Lei mi fissava minacciosa, come se volesse incendiarmi.
- Cosa…cosa ce mamma?- finsi di non capire, spostando la testa di lato come ero solita fare. In realtà, sapevo esattamente perché aveva gridato.   
- Non hai messo la tua fascia, vero?- mi chiese con fare indagatore, avvicinandosi.
Papà scosse la testa, riaprendo con le chiavi la porta di casa.
- Sbagli mamma. L’ho messa prima di scende per la colazione – protestai, sperando che i miei occhi non mi tradissero proprio in questo momento. Smisi quasi di respirare, per dimostrarle che non stavo mentendo.
Lei si avvicinò e passò decisa una mano sul mio ventre, con una smorfia.
- Sai che non devi dire le bugie, vero tesoro?- mi chiese raggelandomi con quelle parole. Ero nei guai e con le spalle al muro. Papà sbuffo leggermente, sedendosi sui gradini in veranda.
Mamma mi afferrò violentemente per un braccio, strattonandomi, mentre con l’altro andò ad aprire la porta. In seguito mi sentii trascinare su per le scale, mentre fissavo spaventata le unghie che si piantavano nell’avambraccio. Spalancò la porta della mia stanza e mi scaraventò senza grazia sul letto, sollevando minuscole nuvole di polvere.
Aprì il primo cassetto della cassettiera in legno posizionata accanto al muro, contenente tutti i miei vestiti. Rabbrividii e provai a scappare, mentre le sue mani sollevavano trionfanti una fascia bianca dalle cui estremità spuntavano due spessi elastici neri.
- No mamma, ti prego…- provai a dirle, ma su queste cose non transigeva. Mi fece togliere il vestito e mi sentii improvvisamente nuda, sebbene una minuta e graziosa biancheria risplendeva sulla mia pelle chiara.
- Trattieni il fiato –
Era un ordine. Cercai di trattenere quanta più aria potessi mentre il freddo materiale di cui era fatta la fascia andava a circondare il mio ventre, stringendomi fino a farmi male. Boccheggiai in mancanza d’ossigeno quando, come se niente fosse, mamma mi allacciò nuovamente il vestito sulla schiena, soddisfatta.
Passò ancora la mano sul mio ventre, ora freddo e piatto.
- Ora si che sei perfetta!- esclamò utilizzando il suo solito tono zuccheroso – E non provare mai più a mentirmi, capito Esme?- mi avverti ancora, sparendo dalla mia stanza.
Prima di raggiungere nuovamente i miei genitori, mi sedetti sul letto, fissando il pavimento lucido senza fiato. Mi venne da piangere, ma ricacciai orgogliosamente indietro le lacrime e scesi da loro, ostentando una grazia che non avevo. Non avrei mai fatto indossare una cosa del genere a mia figlia, se mai ne avessi avuta una.
- Ora si che sei perfetta!- osservò gioiosa mia madre, come se mi vedesse per la prima volta. Papà si alzò dai gradini barcollando e mi guardò. Lui non vedeva la differenza, ma era solito dare ragione a mia madre in tutto ciò che faceva.
- Tua madre ha ragione Anne – papà mi chiamava sempre Anne, sebbene ignorassi il perché – Ora sei veramente uno splendore. Il piccolo Evenson non avrà occhi che per te, in Chiesa – Mamma sorrise furbetta ed io provai a sbuffare.
Rinunciai amareggiata nel sentire le costole piegarsi una dopo l’altra.
Charles Evenson aveva diciassette anni, anche se mio padre si ostinava a chiamarlo “il piccolo Evenson”. Suo padre, Gerald Charles Evenson, possedeva una grande fabbrica tessile nei pressi di Columbus, appena fuori la città. Era solito regalare a me e mia madre dei vestiti stupendi ogni volta che, assieme al figlio ed alla moglie Clear, venivano a trovarci.
Mamma stravedeva per quegli abiti. Io cercavo sempre di nasconderli tra gli altri vestiti, sperando di non vederli mai più.
Non che li odiassi. Tolto Charles trovavo il signore e la signora Evenson due persone deliziose.
Charles invece era noioso e petulante. Parlava sempre delle sue imprese con gli amici e non perdeva mai l’occasione di dirmi che avrebbe voluto arruolarsi nell’ l’esercito, appena avuta l’età adatta. In quelle occasioni, ostentavo qualche sorrisetto e mi voltavo dall’altra parte, reprimendo uno sbadiglio.
I miei genitori lo trovavano perfetto. Un ragazzo bello – aveva i capelli scuri e gli occhi chiari – e ambizioso, nonché simpatico e ricco. Era sempre mia madre a costringermi a indossare i vestiti più belli, in previsione di una visita degli Evenson.
La fascia stretta mi bloccava il respiro e sentivo una strano senso di nausea annebbiarmi la testa pesante e confusa. Inspirando due o tre volte sentì le costole frantumarsi sotto la fascia e rinunciai.
Arrivammo in Chiesa poco dopo e ringraziai il cielo quando finalmente potei sedermi su una delle panche disposte in entrambi i lati, con un muto sospiro di sollievo.
Mamma e papà si sedettero alla mia destra, lasciando libera la parte sinistra della panca.
- Ciao Esme!-
Charles Evenson si sedette al mio fianco senza chiedermi il permesso. Era vestito di tutto punto, con una cravatta blu scuro che gli circondava il collo e una giacca chiara sopra i pantaloni del medesimo colore. Accanto a lui, presero posto sua madre e suo padre, il quale, togliendosi il cappello, sorrise ad entrambi i miei genitori.
- Charles…- feci evitando di guardarlo negli occhi, sperando che la messa cominciasse alla svelta. Sentì il disgustoso profumo da uomo di Charles pizzicarmi il naso e trattenni uno starnuto.
La messa cominciò poco dopo ed io sentivo caldo, schiacciata tra mia madre e Charles, che aveva cominciato a raccontarmi sottovoce dell’ultima uscita al lago con gli amici. Evitai di prestare attenzione concentrandomi forzatamente su padre Arthur, impegnato a leggere qualcosa dallo spesso libro di fronte a sé.
Per due ore sentì lo sguardo di Charles su di me, assieme a quello di mia madre che annuiva compiaciuta, tra una preghiera e l’altra. Appena padre Arthur decretò la fine della messa, scattai in piedi ignorando la fascia. Boccheggiai nel sentire la mancanza d’ossigeno e le costole incrinarsi.
Charles mi offrì il braccio con un sorriso disgustoso.
Accolsi in silenzio la gomitata di mia madre e mi affrettai ad afferrarlo, sebbene riluttante.
Dopo la luce fioca all’interno della Chiesa, il Sole caldo ed accecante mi diede sollievo.
Alzai il viso al cielo e Charles mi fissò, strabuzzando gli occhi per la troppa luce. Sentivo la pelle bruciare sotto il calore mattutino e sorrisi, deliziata.
Pranzammo a casa nostra.
La signora Evenson aiutò mamma con lo sformato mentre papà e il signor Evenson discutevano della Borsa, parlando fitti tra di loro. Mamma mi costrinse a mostrare la mia camera a Charles, spingendoci entrambi su per le scale. In seguito mi fece l’occhiolino mentre andandosene, chiuse la porta alle sue spalle.
- E così…- cominciò lui, osservando e toccando ogni cosa – questa è la tua stanza?-
- Sì- dissi secca. Ero stranamente arrabbiata con quell’estraneo che si permetteva di sfiorare le mie cose. Di violare la mia intimità.
- La mia è più grande e decisamente più luminosa – affermò buttandosi sul letto e chiudendo gli occhi. Il respiro affannoso non era dovuto solamente alla fascia, questa volta.
- Potresti alzarti dal mio letto?- intimai fissandolo minacciosa. Avevo le guancie infuocate.
Charles aprì gli occhi e sorrise.
- Papà ha ragione. Sei veramente la ragazza più bella della città, Esme -
Il tono di voce che usò mi fece rabbrividire. Roco e suadente e nauseante. Mi sentì paralizzata mentre fissavo Charles alzarsi dal letto e camminare verso di me.
Prese una ciocca dei miei capelli tra le dita e le baciò con le labbra – I tuoi capelli hanno un profumo eccezionale – continuò. Sentivo le lacrime pizzicarmi gli occhi ma per qualche strana ragione non riuscivo a piangere.
Charles mi sfiorò le labbra con un dito, prima di passare al resto del volto. Annusò il mio collo con fare avido per poi leccarlo, passandoci sopra la lingua con estrema lentezza.
La sua saliva calda e viscida mi fece scattare.
Lo spinsi con tutta la forza che avevo nelle braccia lontano da me, prima di passare con orrore le dita tremanti sul collo umido ed evitare di vomitare. Charles ghignava osservandomi appoggiato al muro, passandosi la lingua sulle labbra.
- Ti emozioni sempre per così poco, piccola Esme?- chiese con il solito ghigno. Avevo la sua bava tra le dita, nel disperato tentativo di toglierla dal collo.
- Vattene – mormorai.
- Andiamo Esme, non credi sia ora di smetterla di fingere? Lo so che anche io ti piaccio – disse avvicinandosi nuovamente. Stavolta posizionai le mani strette a pungo davanti al viso, aspettando il momento in cui fosse stato abbastanza vicino per colpirlo. Charles mi afferrò per i polsi e distrusse in pochi istanti la mia unica difesa.
- Dammi un bacio- sussurrò a pochi centimetri dal mio viso.
- No- risposi decisa, senza smettere di guardarlo negli occhi.
- Allora lo farò io-
Lo vidi piegare la testa verso di me, più bassa di lui di parecchi centimetri. Sentivo il suo respiro e vedevo le sue labbra avvicinarsi pericolosamente alle mie. Trattenni il respiro per paura di vomitare.
- Ragazzi venite a tavola! Il pranzo è pronto!-
Incredula ascoltai la voce di mia madre e vidi Charles arretrare senza però smettere di sorridere. Sentì il cuore battere velocemente, come se volesse uscirmi dal petto.
- Sarà per la prossima volta- affermò lui, aprendo la porta della mia stanza con un mezzo inchino, lasciandomi lo spazio per passare. Corsi fuori da essa senza nemmeno ringraziarlo.
Mangiai in silenzio, mentre attorno a me tutti parlavo allegramente, passandosi le varie portate. Charles, seduto accanto a me, deliziava mia madre con uno dei suoi nauseanti racconti.
In seguito aiutai mamma e la signora Evenson a sparecchiare, offrendomi volontaria per lavare i piatti. Papà, Charles e il signor Evenson stavano seduti in veranda a ridere sguaiatamente, dandosi forti pacche sulle spalle.
Impiegai più tempo del dovuto nel lavare i piatti per non unirmi a loro. Anche se avevo le mani gelate preferì l’acqua ghiacciata al sorbirmi un altro sfavillante racconto del piccolo Evenson.
Era già pomeriggio quando, fingendomi stanca, corsi in camera mia.
Naturalmente, chiusi la porta a chiave e mi rannicchiai accanto alla finestra, sperando che l’odore di Charles Evenson se ne andasse. Il letto ne era completamente impregnato.
Storsi il naso nello sfilarmi il vestito per degli abiti più comodi.
Serrai le mascelle nel togliere la fascia che come sempre, aveva lasciato due strisce violacee e pulsanti sul mio ventre. La buttai in un angolo e mi sedetti sul letto, guardando il paesaggio fuori dalla finestra. La verde campagna si estendeva all’infinito, mentre l’albero di emanava un gradevole aroma dolciastro che respirai a fondo.
Improvvisamente, mi era venuta voglia di ciliegie.
Indossai un paio di vecchi pantaloni di mio padre e una camicia bianca, prima di scivolare fuori dalla mia stanza, costretta a passare di fronte agli altri per raggiungere l’albero. Vidi mamma sbiancare non appena uscì da loro in veranda.
Il signore e la signora Evenson arrossirono, in imbarazzo.
Charles non se accorse neppure.
- Voglio cogliere alcune ciliegie – spiegai con voce decisa, guardando mamma negli occhi.
- Tesoro ma…- balbettò lei, a disagio – lo sai che non puoi. È pericoloso arrampicarsi sugli alberi…-
La voce di Charles era fastidiosa esattamente come ricordavo - Se vuoi ti posso accompagnare…- disse rivolto a mia madre, più che a me.
Mamma mi fissò accigliata per alcuni secondi ed infine si sciolse in un sorriso tirato.
- E va bene. L’affido a te Charles – disse con voce neutra, poggiando la mano con la fede sopra quella di Charles, che le sorrise suadente.
Poco dopo eravamo accanto all’albero, lontani dai nostri genitori.
Charles guardò dubbioso le ciliegie e fece una smorfia.
- Perché rischiare di farsi male per…un frutto?- domandò. Io ero già salita sul primo ramo, sfortunatamente privo di ciliegie. La sua voce mi sembrò estremamente lontana.
- Queste ciliegie sono deliziose. E voglio cogliere le ultime rimaste, prima che vadano a male –
Non attesi una sua risposta. Dal terzo ramo in poi, Charles Evenson sembrava davvero minuscolo ed insignificante.
Respirai a fondo quel profumo ancora distante. Puntavo a cogliere le ciliegie rosso rubino dei rami più alti, quelli che anche papà evitava di spogliare.
Eppure, in quel momento, desideravo quelle ciliegie succose e pericolose con tutta me stessa.
No. In realtà non erano le ciliegie in sé che volevo.
Ero finalmente libera e leggera, lontano da tutto e tutti. Il cielo rossastro risplendeva sopra la mia testa ed io non ero mai stata così vicina a sfiorarlo.
Mi alzai in punta di piedi su un grosso ramo, allungando un braccio in alto mentre con l’altro restavo ancorata alla corteggia. Senti Charles gridare un avvertimento e sorrisi, pensando a quanto fosse sciocco. Io non avevo paura.
Raggiunsi i rami più alti con facilità. Volevo raggiungerli e guardando verso il basso provai una certa compassione per mia madre e per il “piccolo Evenson”. Loro non sapevano quanto fosse splendido. Ne vedevano solamente il lato pericoloso.
Finalmente le ciliegie brillarono attorno a me, inebriandomi con il loro profumo. Ne colsi una e la mangiai, sputando in aria il nocciolo. Erano la cosa più buona che avessi mai assaggiato.
Con una mano presi un lembo della camicia bianca stendendolo a formare una coppa e cominciai a riempirla con tutte quelle che riuscivo a cogliere. A mia madre sarebbe venuto un colpo, nel vedere l’utilizzo della sua preziosa camicetta bianca.
La mano cominciava a pesare e guardai il frutto dei miei sforzi, con soddisfazione.
Fu allora che la vidi.
Una ciliegia solitaria brillava irradiata dalla luce del Sole, terribilmente distante. Doveva essere mia. A fatica mi rizzai a sedere per poi alzarmi sulle gambe e cominciai a camminare nella sua direzione, come affascinata.
Ancora un passo, mi dicevo, e ce l’avrei fatta.
Con il braccio libero teso mi spinsi in avanti, sentendo ogni mio muscolo allungarsi in quella direzione.
E un attimo dopo caddi. Semplicemente.
Scivolai sul ramo dove stavo camminando e persi l’equilibrio, piombando nel vuoto.
Vidi la ciliegia allontanarsi e la delusione avanzare, mentre come un uccello ferito cadevo nuovamente verso terra, abbandonando il mio posto tra le nuvole.
Mi sentivo leggera e spensierata, i capelli lunghi che si libravano in aria.
Non mi rendevo conto di quanto fossi vicina allo spappolarmi al suolo.
Vidi il volto di Charles impallidire rapidamente e gli sorrisi per la prima volta.
Era ancora così piccolo ed io così leggera.
Vedevo il cielo rossastro oltre le foglie con una chiarezza sorprendente e mi chiesi se stessi sognando.
Un secondo dopo, tutto era sparito.
E l’oscurità si impossessò di me con facilità disarmante.
Non ebbi nemmeno il tempo di gridare.

 


Note Autrice ~
Ecco il primo capitolo, in gran parte inventato, che parla della caduta dall’albero.
Non so se Esme sia caduto dopo essersi arrampicata per cogliere qualcosa. Probabilmente no, ma siccome sono una divoratrice di ciliegie, le ho inserite nella storia.
Non so neppure se la madre di Esme l’abbia soffocata in questa maniera. E se Charles Evenson sia stato oppure no suo amico d’infanzia. Mi piaceva pensare che fosse così, perciò l’ho scritto.
Grazie a tutti quelli che recensiranno e ai coraggiosi che hanno lasciato un commentino all’introduzione. Vi ammiro *-*
Al prossimo capitolo, nel quale, a narrare i fatti, sarà Carlisle.
Un bacio, T.G
P.S.: Sono andata a controllare. Nel 1895, ovvero negli anni del primo incontro tra Esme e Carlisle, le donne indossavano vestiti larghi, con ampie gonne e pizzi pregiati.
Questa è l’immagine del vestito che indossa Esme per andare in Chiesa.

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