Anime & Manga > Rossana/Kodocha
Segui la storia  |       
Autore: Lolimik    12/12/2020    6 recensioni
•"Io ho sempre pensato che nessuno aveva la voglia di dirselo, ma la verità era che le chiamavamo così, con quel generico “medicine”, perché in realtà non sapevamo cosa cazzo stavamo curando."•
E se Akito non fosse mai riuscito a guarire Sana dalla malattia della bambola?
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Hisae/Margareth, Naozumi Kamura/Charles Lones, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Naozumi/Sana, Sana/Akito
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
sero 3 Capitolo 3 • Campo gravitazionale




“Hai presente?

Quell’idea invasiva e sotterranea
che si inabissa o si palesa
e lo fa una volta sola per tutte
e se l’avverti non puoi far finta di niente
se hai un po’ di senno.
Come un sibilo fluttuante e sinuoso.
A me è successo questo:
 non sono riuscito a fare finta di niente,
non volevo, in fondo.
Non potevo far altro che cercare di portarti con me,
dal profondo,
 per egoismo quasi,
 per farmi stare bene.
Anche se sapevo di non potere.
Anche se era rischioso.
Anche se tu non vuoi,
anche se,
infine,
 la tua felicità non dipende da me.
E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo.
Solo per essere sicuro.
Verresti?”


- Italo Calvino (?) -








Per fortuna Nobu si era offerto di coprirmi a lavoro, a dire il vero io non gli avevo chiesto niente, però quando rientrai mi disse un flebile “Va a casa, ci penso io qui.” Non lo so, forse il mio atteggiamento ambiguo o la mia andatura un po’ molle dovette metterlo in allarme, fatto sta che riuscii a rispondergli solo con un lieve cenno e pensai che quel ragazzo fosse veramente singolare. Aveva un modo di comprendermi così intimo e silenzioso che pensai che se avessi provato a mettere in fila tutte quelle parole che mi roteavano dentro senza rigore né logica e fossi riuscita a dirgli qualcosa, lui non mi avrebbe capito così bene.

Poi era arrivata Hisae e avevo smesso di pensarci.

A dire il vero, nonostante quelle lacrime, non riuscivo a spiegarmi cosa provavo, un dolore fisico diffuso e intermittente e una strana esigenza di vedere Akito, non c’era un motivo preciso, lo percepivo così come un’urgenza non doverosa, né tantomeno necessaria, ma insistente.

Per qualche ragione doveva essere finito in ospedale dopo aver lasciato il mio appartamento e per qualche ragione Hisae si era convinta che Gomi c’entrasse qualcosa, forse perché io le avevo detto che Akito era stato da me quel sabato sera e che Gomi gli aveva telefonato mettendogli addosso una sorta di agitazione.

Sbuffai un po’ sperando di riordinare i miei pensieri, chiedendomi mille volte “Sana, come ti fa sentire questa situazione? Sei preoccupata per lui?” Neanche fossi la Dottoressa Aoki, ma per ogni volta io riuscivo a rispondermi solo in quella stessa maniera: Non sento niente.

Però qualcosa in realtà c’era, il fastidio.

Per la prima volta nella mia vita non provare niente mi diede fastidio, non era più una condizione con cui convivevo più o meno apatica e inerme, quella situazione mi mise addosso una sorta di frustrazione e di compassione per ciò che ero.

Un automa.

Non era stato così neanche per il sesso, non provare niente in quei momenti mi generava dentro più una scarsa stima di me stessa e del mio essere donna, con cui a conti fatti riuscivo a convivere, piuttosto che un vero fastidio.

Ma l’assenza di empatia o di emozioni in quel momento proprio non potevo tollerala.

«Senti, scusa se non te ne ho parlato, io non volevo saperne niente di questa storia perché non volevo sentirmi in colpa con te.» Mi disse Hisae, una volta sedute nella sua auto.

«Con me?»

«Beh… Aya mi ha avvisata subito, le ho detto che non m’importava niente dei casini di Gomi e Hayama. In verità non volevo saperlo perché non volevo parlartene… Lo sai che non mi piace avere segreti con te…»

Annuii lievemente e mi lasciai andare sul sedile della sua utilitaria. Mi ricordai di quella notte in cui Akito mi aveva riaccompagnata a casa.

«Come dovrei sentirmi?»

«Penso che tu sia molto preoccupata, Sana.»

«Non è quel che sento.»

«La tua faccia però dice così... Insomma mi hai chiamata in lacrime…»

Era ancora il mio corpo a rispondergli?

Non capivo, sentivo solo la testa ribollire insieme allo stomaco.

Guardai Hisae, mi chiesi se senza di lei sarei mai arrivata a tanto, mi risposi che di certo, anche se dentro sentivo la confusa e illogica esigenza di vederlo, non avrei fatto molto.

Avrei finito il mio turno di lavoro, avrei tirato dritto nel mio appartamento mi sarei calata giù le mie medicine e avrei dormito per almeno tre giorni consecutivi.

Eppure le avevo telefonato io. Forse, dentro di me c’era una Sana ancora viva e vitale che imponeva i suoi desideri e si muoveva con tenacia per vederli realizzati, anche al di là delle mie volontà apparenti.

Quando arrivammo davanti alla porta di casa di Gomi, avevo la testa talmente vuota che mi sembrò di avere un palloncino pieno d’elio tra il collo e la chioma castana.

Viveva in un bel quartiere lui, uno molto simile a quello in cui abitavo con mia madre, con grandi case sfarzose in stile occidentale, di quelle con cancelli imponenti che davano sulla strada alberata e scalinate che conducevano all’ingresso.

Fissai il dito anellato di Hisae premere sul campanello e lui venne fuori dopo pochi istanti.

«Tu guarda, la frigida e la svitata… Sareste un duo comico formidabile!» Gomi aveva in faccia un risolino sarcastico e provocatorio, Hisae gli si parò di fronte allungandosi sulle punte.

«Senti cafone, falla finita! Siamo qui per parlarti!»

Lui la fissò divertito per un po’, poi i suoi occhi rotearono verso di me e mi fissò a lungo.

«Tu, sta alla larga da Akito!» Mi disse solo quello, indicandomi con un dito a mo’ di minaccia, poi, in uno scatto, rientrò in casa chiudendosi la porta alle spalle.

Ovviamente Hisae non riuscì a trattenersi dallo sbattere i pugni sulla porta e urlare il suo nome condendolo di almeno una ventina di appellativi.

A me nella testa riecheggiò il suo. La svitata. E sì, forse aveva ragione, così come aveva ragione nel dirmi che dovevo stare alla larga da Akito. Fosse stato anche solo per quello.

Guardai la mia amica che continuava a sbattere sulla porta, così bella e agitata e al contempo così stridente con la compostezza della sua acconciatura, col suo trucco leggero e sofisticato, con quel morbido maglioncino a collo alto di un verde simile ad alcune venature che d’estate mi sembrava di riconoscerle negli occhi. In quel momento, in quegli stessi occhi, le riconobbi una follia che non avrei voluto alimentare.

Non volevo esserle così tanto di peso, mi sembrò ancora una volta di succhiarle via quella luce che emanava e che tante volte mi metteva a disagio.

Per cosa poi? Per un’esigenza oscura persino a me stessa, ombrosa e appannata come i vetri del mio bagno. Come la mia testa in quel preciso istante.

Le afferrai una mano e la tirai via da lì. «Andiamocene.»

Hisae roteò gli occhi furiosi verso di me, livida in viso dalla rabbia, stava per rispondermi, ma in quel momento Gomi venne fuori dalla porta, il viso coperto da degli occhiali da sole, un’espressione spavalda appiccicata sulla faccia e un paio di chiavi che si faceva roteare attorno a un dito.

«Sei troppo insistente per essere una che non la dà, lo sai?» Glielo disse tirandosela addosso e mi accorsi che il viso della mia amica divenne più rosso delle tende che s’intravedevano da una delle stanze di quella casa.

«Levami le mani di dosso!»

«Sì, sì… Dite tutte così.» Disse e si avviò verso il viale che portava alla strada.

«Che fate? Venite o volete continuare a godervi lo spettacolo da lì?»

«Quale spettacolo?» Chiesi candidamente.

«Si riferisce a sé stesso, Sana… Non lo vedi che è un egocentrico sbruffone?»

Mi voltai a guardarla perché mi accorsi che nonostante stesse dicendo di lui peste e corna, sulla sua faccia le rimaneva un lieve rossore e nei suoi occhi uno strano sbrilluccichio.

Mi chiesi quante e quali emozioni stessero guerreggiando dentro di lei e per quante fossero, anche se contraddittorie, ero certa le sapesse distinguere chiaramente tutte.

E mi ritrovai un po’ più sola, un po’ più malata.

Seguimmo Gomi verso la strada, ma quando Hisae lo vide raggiungere la sua auto si portò le mani sui fianchi arrestandosi.

«Dove stiamo andando?»

«Sbaglio o mi avete detto che volete parlarmi?»

«E non possiamo parlare a casa tua?»

«No.»

«Perché? Ah? Cosa nascondi? Cosa hai fatto ad Akito?!»

Gomi ci fissò sollevandosi gli occhiali insieme ad un sopracciglio.

La mia amica in preda a una crisi di nervi e io accanto a lei che non sapevo neanche cosa diavolo stesse architettando la mia mente per ovattarmi così tanto dal mondo.

«Dovreste guardarvi… Siete ridicole.»

«Cosa nascondi Gomi!?» Ripeté lei.

«Akito è a pezzi e sta riposando, non penso gli servano i vostri starnazzi, quindi ora salite in macchina e andiamo da qualche parte!»

«Posso vederlo?» Quella domanda mi scivolò fuori dalla bocca come un vomito, persino Hisae si voltò a guardarmi sorpresa.

«No, che non puoi Kurata!»

Così dicendo, spalanco platealmente la portiera del suo suv e ci fece cenno di entrare.

Quando l’auto partii persi il mio sguardo verso una finestra serrata al primo piano di casa Gomi, mi chiesi se dietro quelle imposte ci fosse lui e avvertii una certa agitazione nelle mani e nelle gambe.

Io mi ero sistemata sui sedili posteriori, Hisae accanto a lui continuava a bombardarlo di domande a cui rispondeva evasivo, piazzandole di tanto in tanto qualche battutina sagace.

«Senti perché tutto questo accorato mistero? Dove ci stai portando? Non puoi farla finita e raccontarci tutto qui dentro?»

A quella ennesima e ripetitiva domanda di Hisae, Gomi non rispose, fermo al semaforo cercò il mio riflesso nello specchietto retrovisore e mi fissò attento.

«Kurata…» Chiamò.

«Io non lo so quali problemi ti affliggono e francamente non m’interessano, voglio solo che torni nel buco nero in cui sei rimasta per questi quindici anni e ci resti fino alla fine dei tuoi giorni!» Mi accorsi che c’erano tante cose nel tono della sua voce, cose che comunque non ebbero il potere di ferirmi.

Io, in effetti mi sentivo proprio così.

La mia testa, pensai, doveva essere veramente un buco nero che non lasciava sfuggire né emozioni, né sentimenti. C’era solo da capire quale fosse l’intenso campo gravitazionale che lo impediva.

Forse la mia malattia.

A quel punto, Hisae, lo afferrò per il collo della camicia e se lo avvicinò con aria minacciosa. «Neanche commento l’inesattezza scientifica del tuo discorso, Gomi, ma osa rivolgerti ancora così alla mia amica e ti pianto un pugno sul naso!»

Non so quanto durò la lite che ne scaturì, la testa mi scoppiava e mi ritrovai a fissare più volte il semaforo rosso nella speranza che scattasse il verde e raggiungessimo al più presto il luogo in cui Gomi voleva portarci.

Li sentii ancora battibeccare tra loro, non riuscivo più a sostenerli, mi sembrava d’impazzire.

Le mie mani, a quel punto si mossero da sole, spalancai la portiera dell’auto di Gomi e scappai via.

Aria, avevo bisogno di aria!

Poi scattò il verde, l’auto di Gomi ripartì spinta dal rumore dei clacson delle auto dietro di lui.


*****


Sentivo il cuore battere all’impazzata, il fiato corto, i capelli al vento e il sudore che m’imperlava la fronte e le guance rosse.

Correvo e pensavo lo stessi facendo senza meta.

Quando mi fermai, mi accorsi di essere davanti al cancello di casa di Gomi, deglutii affannata e fissai attentamente quella finestra serrata al primo piano.

Il petto si sollevava e si abbassava freneticamente, senza capirne il senso mi affrettai a scavalcare il cancello dalla parte del muro di cinta, miravo inspiegabilmente a quella finestra del piano superiore, ma la porta era chiusa ed entrare in casa sarebbe stato davvero impossibile.

Mi guardavo attorno senza capire cosa fare, soprattutto senza capire cosa diamine stessi facendo in quel posto.

Le gambe si mossero ignorando i miei pensieri, mi avvicinai a una portafinestra del piano terra che dava sulla cucina.

Il mio respiro affannato ne appannò il vetro, con la mano cercai di cancellare quella patina e mi accorsi che la portafinestra strisciò via insieme al mio movimento.

Non mi aspettavo fosse aperta, ma come attirata da una mano invisibile, smisi di farmi domande ed entrai in casa di Gomi attraverso quella piccola fessura che avevo realizzato senza neanche capirlo.

Nell’aria si sentiva un odore strano, come una fragranza che miscelava tabacco e disinfettante.

Venni fuori dalla cucina e ispezionai l’ambiente che mi circondava, c’era un silenzio quasi fastidioso, mi sembrò di avvertire solo il rumore del mio respiro.

Le scarpe scricchiolarono sul legno delle scale, continuando a guardarmi attorno salii al piano di sopra.

Nella penombra del corridoio mi accorsi di alcune luci traballanti che si riflettevano al di sotto di una delle porte del piano.

Mi mossi lentamente proprio verso quella porta e l’aprii.

Un televisore muto, sintonizzato su un canale che in quel momento stava trasmettendo quello che mi sembrò un film d’azione, illuminava la stanza, sull’altro capo della parete, Akito sembrava agitarsi nel sonno.

Mi ci avvicinai cauta, le luci della tv gli illuminavano il viso a intermittenza, mi resi conto che aveva un piccolo taglio sotto al naso, dei lividi sul viso e che alcune fasce gli ricoprivano la spalla sinistra fino al torace e il braccio.

«Hayama…» Sussurrai.

Non capivo niente, me ne stavo lì a guardarlo in uno stato di semincoscienza, mi percepivo in quello spazio ma in qualche modo lontana da me.

Non mi capitava quasi mai di percepire quella sensazione, insomma nella mia apatia io mi riconoscevo sempre una brutale e feroce coscienza, però ecco, quando accadeva che smettessi di avere coscienza di me, mi rendevo conto che la mente mi spostava l’attenzione su cose stupide, su inezie che poco centravano.

E allora la forma precisa di un graffio sulla pelle, un bottone aperto, la piega storta di un lenzuolo ecco che diventavano fonte di estremo interesse per me.

Mi accorsi che il mio respiro si fece rumoroso, Akito si mosse agitato spiegazzando la piega del lenzuolo, a quel punto la mia attenzione tornò a lui. Si stava agitando davvero tanto e nel farlo assumeva delle espressioni contrite, dolenti, lamentose.

Mi chiesi se fosse vero tutto quel che stavo vedendo e desiderai solo toccarlo, quasi come per assicurarmi che fosse vero, quasi come per sedare un’illogica paura.

Mi avvicinai strisciando i piedi verso quel letto, con le dita gli sfiorai lentamente le labbra fino ad accarezzargli il viso, ma non appena lo toccai, si mosse in maniera brusca e sbarrò gli occhi nel riconoscermi lì accanto a lui.

Istintivamente indietreggiai allontanandogli la mano dal viso.

Respirava affannosamente e mi fissava immobile ma inquieto.

«Che ti è successo?» Sussurrai, ma lui seguitò a guardarmi con una strana agitazione negli occhi.

Mi ci avvicinai ancora, cercai il suo viso ma intercettò la mia mano chiudendola in un pugno.

Non disse una parola, ma era ovvio che con il suo sguardo di ghiaccio stesse tentando d’incenerirmi.

Non voleva avermi lì, me ne accorsi dal suo braccio teso, dalla sua stretta forte attorno alla mia mano e da quello sguardo così eloquente che scelsi solo irragionevolmente d’ignorare.

Feci leva proprio su quel pugno chiuso e mi sentii spingere in avanti dalla volontà del mio stesso corpo, portai la mano libera sul cuscino e mi chinai nell’incavo del suo collo, nascondendo il viso proprio lì. «Va tutto bene…» Glielo sussurrai lentamente quasi come una carezza. «Va tutto bene…» Ripetei sentendo il suo pugno aprirsi e la sua mano scivolarmi tra i capelli.

Che buon profumo aveva, io lo sentivo nascosto tra quelle bende e la fragranza acidula del disinfettante. Lo sentivo, o forse lo ricordavo e al contempo mi calmavo.

Mi tenne stretta senza dire una parola, mi accorsi però che le rigidità del suo corpo si erano volatilizzate, spinte via forse dalla leggerezza che muoveva il mio. Il suo respiro tornò a farsi regolare insieme al mio e i suoi muscoli diventarono mansueti.

Gli sentii però il cuore battere all’impazzata, mi chiesi perché non fosse lo stesso anche per me, soprattutto mi chiesi cosa gli stesse guerreggiando dentro a dispetto della sua immagine finalmente rilassata.

«Ciao, Kurata…» Fece dopo un po’, senza lasciarmi andare. «Che ci fai tu qui?»

«Non lo so…» Dissi e allora lui lasciò andare un risolino.

Gli strusciai la faccia sulla spalla libera dalle fasciature, feci per muovermi ma lui spostò fulmineo la mano destra dai capelli alla schiena e mi bloccò contro il suo petto impedendomi ogni movimento.

«Stai qui, Kurata, non andare da nessuna parte.»

«Anche se è illogico?»

«Si.»

«Anche se non sento niente?»

«Te lo dico io cosa sento, se vuoi.»

«Sentiamo.»

«Stupore e… E pace. E tante, tantissime altre cose.»

«Forse stupita lo sono anche io, non so neanche come ho fatto ad arrivare qui…»

Lui mi guardò per un istante, poi schioccò la lingua sotto al palato, ero certa che stesse per rispondermi, ma d’improvviso avvertii una forza tirarmi via dalle braccia di Akito, la luce accendersi senza darci il tempo di abituare lo sguardo.

Gomi, alle mie spalle mi stringeva un braccio mantenendomi sollevata un po’ dal pavimento. Mi guardava con uno sguardo rosso denso di collera. «Che cosa non ti è chiaro di quello che ti ho detto prima, Kurata?»

Hisae era sulla porta, con la mano ancora incollata all’interruttore, ci fissava quasi sotto shock e mi accorsi che boccheggiava piano, senza riuscire a dire una parola.

Neanche io sapevo cosa dirgli, sarebbe stato difficile spiegargli tutto dal momento che non era chiaro neanche a me.

A dispetto di tutti, però, Akito non aveva affatto intenzione di stare zitto. «Ehi, Gomi! Che cazzo stai facendo, lasciala!»

A quel punto tentò di alzarsi, ma riuscì solo a poggiare i piedi fuori dal letto prima di risentire il dolore alle costole ripresentarsi costringendolo di fatto a starsene seduto. «Cazzo!» Urlò. «Ti ho detto lasciala!»

Sentii la mano di Gomi allentare la presa sul mio braccio fino a lasciarmi andare e gli si parò difronte.

«Sei un povero coglione! Ma che cazzo ci ho parlato a fare con te, ah?»

«Gomi piantala… Stai diventando ridicolo!»

«Ah sono ridicolo?»

«Già, lo sei!»

«Kurata, mi faccio vivo io, credimi ora non è il caso di star qui.» Akito mi lanciò uno sguardo veloce reggendosi il busto con una mano.

Hisae mi tirò a sé, ma a quel punto Gomi mi afferrò di nuovo ignorando totalmente la mia amica che arretrò, quasi spinta via dalla forza che Gomi mise in quel gesto.

 Mi mise un braccio attorno al collo quasi abbracciandomi e fissò Akito con sfida. «No, no Kurata… Ormai che sei qui resta!» Trillò in un tono ironico denso di un sottotesto che sicuramente non colsi e mi limitai a roteare lo sguardo da lui ad Akito che lo fissava in preda ad un ira furibonda.

«Gomi, lasciala!»

«No, e perché? Non glielo vogliamo dire alla dolce Kurata quello che combini?»

«Taci!» Akito tentò di alzarsi ma era evidente che il dolore che provava alle costole gli impediva qualsiasi scatto.

A quel punto Gomi mi afferrò il viso stringendomelo con una mano, istintivamente tentai di sottrarmi a quella stretta, ma lui, con un’espressione che rimaneva in bilico tra l’ira e l’ironia mi voltò la faccia verso di lui.

Hisae gli strattonò il braccio, urlò il suo nome più volte implorandolo di lasciarmi andare, tentò persino di togliermelo di dosso, ma lui si liberò di lei abilmente.

«Gomi cazzo, non fare lo stronzo! Giuro che mi alzo e ti spacco la faccia!» Urlò Akito tentando disperatamente di farlo.

«Ma sentilo!» Gomi si lasciò andare a una fastidiosa risata isterica.

«Lo sai cosa fa questo qua, Kurata? Si fa pestare a sangue dalla gente, li provoca capisci? E poi si fa ridurre così, proprio come lo vedi.»

A quella notizia, roteai gli occhi verso Akito. «Mi ha confessato che è una cosa che gli piace!» Biascicò Gomi.

«Io non so neanche il motivo per cui una delle menti più brillanti del MIT si diverta così, Kurata. E tu?»

A quel punto Hisae gli piantò uno schiaffo così forte che lo fece indietreggiare, mi afferrò per una mano e mi trascinò via da quella stanza.

Mi accorsi che Akito la guardò quasi grato per quel gesto.

Di tutta risposta, Gomi venne fuori come una furia, ma la sua corsa si arrestò in cima alle scale.

«Kurata!» Mi chiamò, feci per voltarmi ma Hisae continuava a trascinarmi verso l’uscita.

«Non ho finito!!!» Urlò. «Non lo vuoi sentire il resto della storia?» Poi aggiunse altro ma non feci in tempo a capirlo che Hisae sbatté forte la porta.

Dall’esterno sentii poi distintamente le urla di Akito confondersi con quelle di Gomi.


*****


In macchina Hisae non parlò, ma mantenne costantemente il suo sguardo su di me. Io fissai un po’ gli interni cromati della sua auto. Mi chiesi perché non fossero grigi come la carrozzeria ma tendenti al beige.

Non era un bel contrasto.

Strideva.

«Lascia che riesca a mettersi in piedi… Vedrai… Darà un paio di calci in culo a quel gran cafone e si scuserà.»

«Di chi parli?»

Hisae si voltò a guardarmi, mi accorsi che la sua espressione scivolò verso il basso insieme alle spalle.

«Come di chi parlo, Sana? Di Hayama…»

«Oh… Beh, allora non hai ascoltato, mi sa. Gomi ha detto…»

«Lo so che ha detto!» Urlò. «Cazzo, Sana…»

Le sue urla rimbombarono nell’abitacolo, con un moto di stizza accelerò verso casa mia lasciando che ripiombassimo di nuovo in quel silenzio.

Arrivate sotto casa, Hisae parcheggiò l’auto anziché lasciarmi scendere e andar via, come faceva di solito.

Lasciò andare un sospiro e staccò la cintura di sicurezza con una certa flemme. «Gomi…» Sussurrò mentre io imitai il suo gesto.

«Quando sei scappata dalla sua macchina mi ha raccontato tutto… E ora sono veramente in difficoltà… Credimi.»

«Perché?»

La mia amica allora si voltò a guardarmi, aveva gli occhi lucidi e mi accorsi che mi fissava in una maniera strana, come se stesse soffrendo. «Che hai, Hisae?»

«Non so se sia giusto dirti quel che ho saputo da Gomi…»

«E non dirmelo, allora… Sta tranquilla.»

«Ti prego, Sana…» Sussurrò e a quel punto delle lacrime le rigarono il viso. «Si tratta di Hayama! Com’è possibile non t’interessi!?» Si asciugò il viso con stizza, mantenendomi addosso uno sguardo duro e sgomento.

Nelle parole dure d’Hisae, nei suoi occhi lucenti, si rifletteva tutta la mia inadeguatezza.

Perché scappare da lui se poi vederlo così non mi suscitava niente se non la necessità di sentirmelo addosso?

Perché le parole di Gomi mi facevano eco nella testa senza scalfire niente?

Avrei tanto voluto che avessero provocato uno squarcio sensibile dentro di me, una crepa da cui fuoriuscisse la benché minima emozione.

Ma io mi sentivo la testa come una palla di vetro con la neve, anche se scossa ci volteggiava dentro solo quel che era rimasto intrappolato, ma era così ineffabile che non mi restituiva nulla.

«Ma… Io non so cosa pensare… Cosa vuoi che ti dica?»

«Cazzo Sana… Perché fai così?» Mi strinse forte a sé affondando il viso nell’incavo del mio collo, pensai avesse un buon profumo, ma poi pensai fosse così diverso da quello di Akito.

«Pensi che sia a causa mia?»

La sentii sussultare e allora si staccò da me, per un po’ mantenne il mio sguardo, ma poi spostò l’attenzione altrove. «Io… Io non penso che Gomi, prima di questo weekend ti abbia ritenuta responsabile di questo lato di Hayama…»

«Perché dici così?»

«Perché è evidente che Gomi, come me, non ha valutato bene la situazione. Temo vi abbia definiti preistoria anche lui…»

«Preistoria?»

«Beh, lui mi ha detto che quando Hayama è rientrato in Giappone, partecipava a degli incontri in cui se le davano di brutto… Sai, di quelli in cui si fanno scommesse… Cose del genere… Hayama aveva contratto dei debiti con un tizio, Gomi gli ha ripagato tutto e ha tentato di rimetterlo in piedi.»

«E io cosa c’entro?»

«Niente, appunto… Ai suoi occhi Hayama era semplicemente imbizzarrito… Gomi mi ha detto che per quanti sforzi facesse per tenerlo buono, lui continuava a provocare risse… Anche nei suoi locali… Per darle, soprattutto per prenderle… Poi improvvisamente, circa un anno fa, ci diede un taglio… Così, dal nulla.»

«Tu pensi sia a causa mia se ha ricominciato con questa storia?»

«Io... Ecco…»

Era evidente che qualcosa le pesasse dentro, che fosse d’accordo con Gomi ma non volesse dirmelo apertamente, forse per non darmene un dispiacere.

«Io penso che Gomi ha ragione, devo stargli alla larga. Vedrai che lui saprà prendersi cura di Hayama.» Feci a quel punto, forse per toglierla dall’impasse.

«Però, Hisae… Dovrei rattristarmi? Sentirmi in colpa? Cosa c’è di così andato a male in me che non riesco a provare niente?»

A quelle parole la mia amica si lanciò verso di me e mi strinse forte a sé tra le lacrime.

«Mi manchi da morire!» Singhiozzò.

Ma non capii onestamente cosa stesse tentando di dirmi.


*****


Dopo quel pomeriggio, Hisae decise di trasferirsi in pianta stabile a casa mia, mi disse che almeno fino al ritorno in Giappone di Naozumi sarebbe rimasta a farmi compagnia.

Ovviamente tentai di dirle che non era necessario, che stavo benissimo anche per conto mio, ma fu irremovibile.

Quanto a Naozumi ci sentivamo poco, sia perché 14 ore di fuso non aiutavano, sia perché avevo capito che non aveva piacere di farsi beccare da Hisae mentre era al telefono con me.

Da quando gli avevo detto che si era trasferita da me per un po’ divenne sospettoso e dopo due settimane dalla sua partenza diradò le chiamate fino a farle scomparire del tutto.

Una volta mi chiese se le avessi raccontato di noi due, considerando strana la sua presenza fissa a casa mia proprio in sua assenza.

Io gli avevo risposto di no, ma lui non ci aveva creduto di certo. Nei giorni a venire mi inviò persino dei messaggi trabocchetto pensando di farmi crollare.

Io pensai solo fosse triste.

“Ti ho comprato un bracciale da Vivienne Westwood, sono sicuro che Hisae morirà d’invidia quando glielo dirai.”

Gli avrei voluto rispondere che ero depressa, non stupida, ma mi limitai a scrivergli:

“Vivienne chi?”

Per un Naozumi che latitava, di contro avevo mia madre che da quando aveva saputo del mio incontro con Akito a quella festa si faceva viva con telefonate e inviti a cena sempre più pressanti, per fortuna la consegna del suo nuovo libro era alle porte così riuscì a farsi una ragione dei miei continui rifiuti con maggiore diplomazia.

Anche perché spesso e volentieri le piazzavo proprio quella scusa del non voler sottrarre tempo al suo lavoro.

Mi dispiaceva ammetterlo, ma spesso il suo amore mi arrivava così ingombrante che mi toglieva il respiro.

Quanto a Hisae, dovevo ammettere che alla mia reticenza della prima settimana, si sostituì lentamente un indefinito senso di naturalezza nel vedermela girare per casa con il suo caotico modo di fare.

Lei al mattino si alzava prestissimo per andare al lavoro e non rientrava a casa prima delle sei, quanto a me, in quelle due settimane avevo turni perlopiù al pomeriggio quindi quasi ogni sera riuscivamo a trascorrere del tempo insieme.

Dovevo ammettere che certe volte Hisae mi disturbava perché era difficile per me stare al passo con lei che aveva mille idee per la testa, mille cose da farmi vedere e sperimentare mentre io volevo solo infilarmi a letto e dormire, ma comunque, nonostante le mie ritrosie, riusciva sempre a trascinarmi.

«Stasera ho pensato alle unghie!» Trillò entrando baldanzosa in cucina con una pochette tra le mani.

«Come, prego?»

A quel punto rovesciò la pochette sul tavolo e si sedette difronte a me, ordinando gli smalti uno per uno senza una logica apparente.

«Hisae, a lavoro non vogliono che metta lo smalto.»

«Chi se ne frega! Ho l’acetone!» Disse e sollevò come un trofeo acetone e dischetti.

A quel punto passò in rassegna tutti quei micro aggeggi per la cura delle unghie e tutti i colori di smalto che aveva a disposizione.

Aurora boreale, Fiore del deserto, Tramonto di passione, Una notte a Parigi, Dolore di donna, avevano più o meno tutti nomi del genere, lei li decantava uno per volta commentandone la nuance.

Io mi limitai a guardarla reggendomi il viso con una mano.

«Senti Hisae, mettimi Tramonto a Parigi e facciamola finita!» Esclamai esausta, prendendo il primo colore pescato che mi capitò a tiro.

«Si chiama Una notte a Parigi! E Comunque quello che hai scelto è Fiore del deserto

«Come vuoi… Mettimi questo.»

Mi parve abbastanza entusiasta della mia scelta, con un’immotivata esuberanza mi tirò la mano destra e cominciò a farmi la manicure.

«Ti posso dire una cosa?» Fece dopo un po’.

«Certo…»

«Frigida… Ti rendi conto che Gomi mi ha dato della frigida?»

Se era per quello a me aveva dato della svitata, senza sbagliare neanche.

«Forse per lui è così…»

«Ho avuto due frequentazioni piuttosto serie e più di venti storie di letto, questo fa di me una frigida?»

«Non credo… Penso…»

«Certo che no! Solo perché non sono caduta ai suoi piedi!»

Mi accorsi che la questione le stava particolarmente a cuore, che l’opinione di Gomi soprattutto le stesse parecchio a cuore, perché da quel momento scaricò tutta la sua frustrazione sulle mie povere unghie.

«La sai una cosa?» Trillò mettendo finalmente via la tronchesina.

«Una volta sono stata a letto con uno che mentre lo facevamo mi urlava di dirglielo!»

«Dirgli cosa?»

«E’ questo il punto! Non lo so!»

«Forse voleva gli dicessi che ti piaceva…» Ipotizzai.

«No, no, ci ho provato, non era quello… Anche se in verità mentivo, non mi piaceva e non era proprio capace. E poi ce l’aveva piccolo.»

Quelle conversazioni mi mettevano a disagio, afferrai un paio di smalti e feci finta di confrontarli con quello che avevo scelto.

«A proposito d’incapaci, com’è Naozumi a letto?»

«Come hai detto che si chiama questo colore?» Le chiesi avvicinandole un rosa perlato alla faccia.

«Andiamo Sana!»

«Hisae ti prego… Lo sai che mi mette a disagio parlarne!»

«Certo che lo so, perciò voglio parlarne!»

«No!»

«Dimmelo o ti metto Vendetta!» Urlò avvicinandomi un colore simile al vomito di un neonato.

Era esasperante. «Diciamo… Andabile

«E cos’è uno sciroppo per la tosse?! Andiamo Sana! Sbottonati un po’!»

«Sei una piaga…»

«Lo so, avanti dimmelo!»

«Un po’… Rapido, ok? Ti va bene così?»

«Ci avrei scommesso! E dimmi, com’è messo? E’ circonciso?»

«Dio mio… No! Come ti salta in mente?»

«Beh è straniero.»

«No, ha solo origini straniere e nessun giapponese penso sia circonciso.» Quella conversazione stava diventando esasperante.

«Beh, Akito lo è, ma forse perchè è vissuto in America... Lì sono tutti circoncisi...»

Non appena buttò fuori quella osservazione, sollevai lo sguardo verso di lei.

Hisae, come colta in fallo si morse un labbro e roteò gli occhi verso quegli arnesi del demonio che troneggiavano sul tavolo.

«Tu che ne sai di Akito?» Le chiesi, tirando via la mano.

«Devo ancora finire!!» Sbottò.

«Hisae, che ne sai di Akito?»

«Me l’ha detto Fuka…»

«E che ne sa Fuka?»

«Ci è andata a letto… Più o meno un anno fa, ma è successo solo una volta e lui era pure mezzo per aria…»

Quella notizia mi spostò verso un posto molto lontano da quella casa, in un luogo che ormai apparteneva al passato.

Non provavo niente di particolare per Fuka, neanche per Akito, o per Hisae che aveva ritenuto superfluo informarmene, eppure glielo chiesi.

«Mi hai detto che non ti piaceva avere segreti con me.»

«Infatti!»

«Beh, questo lo era.»

«No, Sana! E’ che… Lo sai… Te l’ho detto come la pensavo, non credevo t’interessava saperlo dopotutto…»

«Tranquilla… Tanto non mi fa né caldo né freddo.»

Così le dissi, di fatto però mi alzai di scatto e mi rifugiai nel bagno.

Fuka e Akito.

Quel binomio mi frullava nella testa ancora una volta, crollai ai piedi della porta chiusa alle mie spalle.

Cercai di pensare a quella ragazzina di dodici anni che seduta su un masso aveva ricevuto quella stessa notizia proprio dal diretto interessato.

Cosa avevo provato in quel momento?

In effetti proprio niente, o comunque, una marea di emozioni così potenti che di fatto mi mandarono in black out il cervello, lasciandomi incapace di capire che nome dare a quel vuoto improvviso che mi sentii nascere dentro.

Rannicchiata ai piedi della porta, mi strinsi le gambe al petto e mi chiesi se anche quello fosse stato un primo segno della mia malattia.

Assenza di percezioni.

Quella volta però durò poco, giusto il tempo di realizzare che il vuoto aveva lasciato spazio al dolore, ad un immotivato senso di tradimento per una promessa mai espressa.

Quel momentaneo black out, trovò poi un nome preciso, correlato da emozioni precise ma non altrettanto piacevoli.

Io amavo Akito Hayama, la Sana dodicenne l’aveva capito attraverso le parole di Asako e quelle lacrime che aveva versato.

Quell’amore era da me incompreso e per me incomprensibile, ma c’era. Non lo volevo sentire dentro perché non potevo averlo e quella consapevolezza mi straziava, mi faceva soffrire. Volevo soffocarlo quell’amore, tirarmelo via di dosso e sotterrarlo più lontano possibile, ma più ci provavo più mi esplodeva dentro appropriandosi di ogni angolo della mia testa.

La Sana che ero in quel momento, invece, continuava a non realizzare neanche con l’aiuto di medicine, psichiatri e amici.

Forse, pensai, la mia mente era sotto l’effetto di un lungo black out e aveva bisogno di una scossa potente per riattivare tutto.

O forse, la scossa era già arrivata, ma le croste spesse che quel black out aveva creato intorno alla mia mente negli anni, erano ormai impossibili da abbattere.

Perché quelle lacrime dopo averlo visto? Perché quella necessità immotivata e necessaria di rivederlo, di sapere che fosse vivo, che respirasse, se poi non soffrivo per lui o per la sua mancanza?

«Sana…» La voce di Hisae mi arrivò dall’altro lato della porta.

Non provò ad entrare, né tentò di spingere la maniglia, però sentii fosse seduta anche lei sul pavimento, dall’altro lato della porta.

«Sono proprio una frana… Non so fare un cerchio nemmeno con un compasso tra le mani… Vero?»

«Non sono arrabbiata, Hisae.»

«Certo… Lo so che non lo sei.»

«Non so perché ho reagito così… Forse per quella vecchia storia del passato, forse un dejavù.»

«Come ti senti?»

«Stavo pensando ad Akito.»

La sentii sbuffare, battere un po’ la testa sulla porta. «Vorresti vederlo?»

«No… Io… Diamine non so neanche cosa penso a riguardo… Ma ecco, forse Gomi ha ragione. Io l’ho visto in quel letto, ho sentito le parole di Gomi, ma non ho provato niente. Una linea piatta. Sono un cazzo di mostro insensibile, Hisae?»

«Vuoi sapere una cosa, Sana?»

«Un altro segreto?»

«Beh… Non so se chiamarlo così.»

«Sentiamo.»

Hisae sbuffò un po’ e la sentii poi ridere nervosamente. «A casa di Gomi, sono stata un po’ invidiosa di te.»

«Di me?»

«Sì… Quando sono entrata in quella stanza, prima che quel cretino ti tirasse via da Hayama io… Quella immagine mi ha sconvolta.»

«Ha sconvolto anche me, pensa.»

«Quello che voglio dire… E’ che io non penso riuscirò mai a provare certe cose per qualcuno.»

«Beh vale anche per me, Hisae.»

«Stupida… Tu dici di non aver sentito nulla, che sei un mostro insensibile, però ti assicuro che a me è arrivato tutto, con una potenza tale da stordirmi. Tu e lui… Sì… Mi avete… Non lo so, ma era potente.»

«Se lo dici tu…»

«Io non lo so come ho fatto a considerarlo preistoria… Puoi perdonarmi?»

A quel punto, mi spostai un po’ e, rimanendo seduta sul pavimento, aprii la porta.

Hisae era lì, dove mi aspettavo che fosse.

Rimase immobile e seguì i miei movimenti con la coda dell’occhio.

Gattonai un po’ verso di lei e le posai la testa su una spalla.

«Fuka è veramente una merda.» Le dissi.

«Già, è una merda.» Bisbigliò poggiando la testa sulla mia.


*****


Da quando l’avevo rivisto quel venerdì sera della rimpatriata i miei incontri con la dottoressa Aoki mi mettevano addosso una strana e indomabile agitazione.

Per due settimane non avevo fatto altro che entrare nel suo studio il venerdì alle 17 per uscirne alle 18 trascorrendo quell’ora seduta sulla poltrona in silenzio.

Lei si limitava a guardarmi e annotare qualcosa di tanto in tanto, senza proferire neanche una parola.

Io mi guardavo attorno giocherellando con una ciocca di capelli. Mi accorsi che non era una cosa usuale per me, in generale non amavo toccarmeli, trovavo più semplice lasciarmi andare le braccia ai lati del corpo, ridurre al minimo i movimenti, però ecco, cominciai a trovare un certo conforto in quel gesto.

Poi, però, ricordai il modo che aveva lui di guardarmeli, di toccarli, quasi con la speranza di cancellarci via quel colore che proprio non gli andava giù e allora smisi di farlo.

O forse no, forse neanche mi accorgevo più se la mia mano fosse ferma sulla coscia o roteava piano tra i capelli.

Quel venerdì pomeriggio, dopo circa quaranta minuti di silenzio, la Dottoressa Aoki mi regalò un sorriso soddisfatto.

«Siamo sulla strada giusta, signorina Kurata?»

«Come prego?»

«Beh, sono quasi tre settimane di silenzio.»

«Questo è un bene?»

«Beh, questa è una reazione.»

Sollevai gli occhi al cielo, non era certo la prima volta che trascorrevo ore seduta su una sedia a fare silenzio di fronte a uno strizzacervelli.

«Ha avvertito l’esigenza di assumere dosi maggiori in queste due settimane?»

«No…»

«Benissimo. Penso che possiamo anche considerare l’idea di cominciare lo scalaggio.»

«Guardi che in realtà mi sembra di essere anche peggiorata.»

«Perché dice questo?»

«In queste ultime settimane ci sono state delle situazioni che… Beh situazioni poco chiare in cui io non ho avvertito niente.»

«Gliel’ho già detto… Anche non sentire è comunque sentire, signorina Kurata. E poi questo non c’entra affatto con la sua malattia.»

«Ah no?»

«No… Il senso di vuoto interiore che lei avverte…»

«Già è proprio così… Un vuoto interiore.»

«Sì… Beh quello è dato solo da lei, signorina.»

«Da me? Questo è assurdo!»

«Lei non può essere distante da sé stessa... E’ un’illusione della sua mente.»

«E come diamine funziona la mia mente?»

«Sono meccanismi complessi, Signorina Kurata.»

«Ah, certo! C’era da scommetterlo!» Quel suo parlare vacuo mi accorsi che mi spazientì. «Lei, Dottoressa, dovrebbe aiutarmi invece di blaterare assurdità!»

«Dunque vuole che l’aiuti?»

Non risposi a quella domanda, mi limitai a lasciar andare un sospiro e strizzai un po’ gli occhi massaggiandomi le tempie.

«Ci arriveremo, Signorina Kurata. Siamo sulla strada giusta.»

«Le ripeto che io non sento niente.»

«Vede, la sua mente può illuderla di non sentire, ma non è così potente da impedirle di ricordare qualcosa di significativo e scolpito. Dunque, anche se in questo momento non riesce a provare niente, presto o tardi sentirà una piccola scintilla, piccola ma talmente forte da scuoterle un istinto…»

«Ne ho avute tante di scintille in queste settimane, mi creda. Non è successo niente… Porca miseria io mi sento un mostro!»

«Allora lo vede? Lei sente?»

Non risposi, neanche mi soffermai a cercare un senso in quella provocazione perché di fatto era solo quello, nulla di concreto, a quel punto però la vidi annotare su un foglio qualcosa, poi mi sorrise.

«Signorina, può chiamarmi quando vuole, anche prima del prossimo venerdì.»

Così mi disse, prima di chiudere il suo block notes e lasciarmi intendere che la nostra ora insieme era finita.


*****


Avevo il turno 20-2 quel venerdì, proprio come quel venerdì in cui avevo rivisto Akito.

Quando entrai nel konbini trovai Nobu seduto alla cassa che cercava di mettere ordine tra libri di testo e dei fogli sparsi.

«Oh, Sana!» Fece, continuando a raccattare i libri e quei fogli che mi accorsi fossero un po’ ingialliti, battuti con la macchina da scrivere.

Ne afferrai uno scivolato sul pavimento e glielo passai.

Pensai fossero un po’ come lui. Trasmettevano una certa consistenza, una certa calma.

«Com’è andato l’esame?»

«Veramente una schifezza!» Esclamò in una risata.

«Beh… Almeno ti è rimasta della serotonina ancora in circolo.» Constatai.

«Na… E’ che adesso sono anche preso da altro. Comunque non importa, andrà meglio la prossima volta.»

«Vai via? Ma non avevi doppio turno, oggi?» Gli chiesi, accorgendomi che aveva ormai sbarazzato il bancone della cassa da tutte le sue cianfrusaglie, mettendosi libri e fogli nello zaino.

«Sì, ma mi sono fatto sostituire da Masami, ho un appuntamento importante tra meno di due ore!»

«Beh… Allora buon divertimento…»

«No, Sana!» Trillò infilandosi il cappotto. «Dimmi buona fortuna!»

«E perché?»

«Se questa sera andrà bene te ne parlerò, per ora voglio essere scaramantico.»

«Ok… Buona fortuna, allora!»

«Ripensandoci… Meglio in bocca al lupo.»

«Nobu…»

«Sì, ho capito, vado!» A quel punto mi si avvicinò schioccandomi un bacio sulla guancia, non l’aveva mai fatto e tradussi quello slancio come una mera esternazione di entusiasmo per il suo appuntamento.

«Buon lavoro!» Urlò e scappò via di corsa, mentre il casco che aveva agganciato allo zaino gli si impigliò in almeno tre espositori e vari decori natalizi.

Si voltò a guardarmi con l’aria da cane bastonato, poi fissò la merce che il suo passaggio aveva spiattellato sul pavimento e si grattò un po’ la testa con aria colpevole.

«Lascia stare, Nobu, faccio io. Va pure!»

«Sei un angelo!» Urlò schizzando fuori dal konbini mentre io mi apprestai a riordinare i suoi pasticci.

Mi scocciava il fatto che Nobu si fosse fatto sostituire da Masami.

Sei ore in compagnia di quella ragazza non sapevo se avrei potuto reggerle, soprattutto se abbinate all’ora di saccenteria e disagio che mi aveva regalato la Dottoressa Aoki quel pomeriggio.

Almeno, pensai, Hisae l’avrei ritrovata già a letto, con la benda per le occhiaie sugli occhi e le gambe lunghe aggrappate al cuscino.

Non mi piaceva molto lavorare con Masami, era una ragazza carina e tanto dolce ma un tantino stressante per me. Aveva una voce stridula e acuta e adorava civettare con i clienti coinvolgendo anche me o chiunque si trovasse in turno con lei, ed era una cosa che proprio non mi piaceva.

Per fortuna ci beccavamo poco a lavoro perché lei prediligeva i turni del mattino mentre io li odiavo, mi ci voleva sempre un po’ di tempo per riuscire a tirarmi fuori dal letto e mettere un piede avanti all’altro.

Di lei si diceva avesse una tresca con il proprietario e forse anche con un paio di clienti abituali, io non avevo mai creduto a quelle voci, a mio avviso era semplicemente una bellissima ragazza di 23 anni con un modo di fare un po’ espansivo che forse veniva frainteso.

Forse c’era parecchia invidia che le aleggiava intorno, lei comunque pareva interessarsene poco.

A me di sicuro non me ne fregava niente, certo, trovavo un po’ bizzarri tutti i fermagli e le perline che metteva tra i capelli o le ciglia finte stile sailor moon, però ecco in verità a me sarebbe bastato solo che fosse meno esuberante e per il resto la trovavo ok, fermagli e ciglia finte incluse.

«Certo che è un mortorio qui di sera, non entra mai nessuno.» Urlò dalla cassa mentre io controllavo le scadenze di alcuni prodotti al banco frigo.

«Già…»

«Io lo odio il silenzio.» Piagnucolò mentre io decisi d’ignorarla sperando di rendere ancora più incisivo il mio punto di vista.

«Ce l’hai il ragazzo, Kurata?»

«No.»

«Strano… Forse perché sei sempre triste, per questo non vieni notata dai ragazzi.»

«Forse.»

«Io sì invece, lui è veramente fantastico, si chiama Tenma!»

Ecco anche quella era una caratteristica di Masami, rispondeva sempre a domande che nessuno le poneva. Certe volte pensavo che i suoi atteggiamenti sottintendessero delle mancanze, ma poi mi stringevo nelle spalle e lasciavo perdere perché mi bastavano già i miei di casini.

Non le risposi e lei non aggiunse altro, più tardi però, quando mi avvicinai alla cassa per registrare i prodotti andati a male e preparare l’inventario mi accorsi che mi fissava attentamente.

«Sei veramente bella, lo sai?»

Le regalai un lieve sorriso distratto e continuai a compilare le schede per gli ordini.

«Sto parlando con te!» Urlò.

«Ho capito, grazie… Sei bella anche tu.»

«Beh, sarebbe il minimo, spendo tutto quel che guadagno per essere così come sono!» Esclamò in una risata, passandosi platealmente una mano tra i lunghi capelli perfettamente in piega.

«Però tu… Non sembri come me.»

«Pazienza…»

Lei nascose un risolino e mi si avvicinò allungandomi le mani sul viso, cominciando a tastarmi il naso. «Avrei giurato avessi il naso rifatto, sai? E’ così da occidentale! E poi hai delle ciglia così lunghe, cazzo che belle!»

Quel contatto m’infastidì, arretrai guardandola un po’ di traverso, ma lei parve non badarci, infatti mi passò una mano tra i capelli e ne saggiò la consistenza con le dita. «Hai anche dei bei capelli… Sai? Perché li tingi?»

Mi scansai velocemente da lei e le spinsi via la mano fissandola astiosa, non sapevo neanche quello che mi stesse passando per la testa, però sentii dentro uno strano fastidio che sembrava non contenersi, neanche mi accorsi delle parole che mi uscirono dalla bocca.

«Senti, non toccarmi i capelli, ok?»

«Ok! Ok! Volevo solo …»

«Non m’interessa!» Urlai. «Non toccarli!»

Masami mi fissò interdetta, certo non s’immaginava quello strano moto di stizza per una cosa così innocente, soprattutto non si aspettava una reazione del genere da me che trascorrevo il 90% del mio tempo con la testa bassa, lasciandomi scivolare le cose di dosso.

«Scusa…» Mi disse e si allontanò alla svelta dalla cassa perdendosi chissà dove tra i corridoi.

Che diamine mi prendeva?


*****


Dopo il lavoro mi sistemai alla solita fermata dell’autobus, quella sera però, oltre alla solita stanchezza c’era anche altro a farmi compagnia. Un pensiero simile a una consapevolezza strana che mi si stagliava di continuo nella testa.

Mi ero arrabbiata.

Masami mi aveva messo una mano tra i capelli e io mi ero arrabbiata.

Mi domandai se quindici anni di psicoterapia potevano essere racchiusi in quella frase.

Se fosse stato così, avevo decisamente buttato al vento migliaia e migliaia di Yen.

Poi però mi chiesi perché mi fossi arrabbiata così tanto per un gesto così innocuo da parte di una semplice collega e non seppi trovare una risposta.

L’unica cosa che sapevo era che la rabbia ormai non c’era più, così come le sue mani tra i miei capelli.

Le mani di Hayama o di Masami?

Quella domanda cattiva mi risuonò nella mente.

Non sapevo francamente a quali delle due mi stessi riferendo, non lo sapevo forse perché sentivo che la rabbia di aver avuto una mano di Masami tra i capelli era molto simile a quella di non avere avuto la mano di Hayama tra i capelli per molto, troppo tempo.

Sbuffai nascondendomi il viso tra le mani.

Perché facevo così?

Senza alcun logico collegamento mi ripetei nella mente le parole di Gomi, ma neanche in quel momento avvertii rabbia o fastidio. Come cazzo funzionava la mia mente?

Mi illudeva o no? E se mi stava illudendo, anche quella rabbia era un’illusione?

Anche quelle lacrime senza senso lo erano?

Eppure mi erano parse così reali quella notte, dopo il bacio che Akito mi aveva rubato addirittura mi avevano spalancato i polmoni permettendomi di respirare senza ansimare.

Non capivo e non riuscivo nemmeno a percepire uno straccio di desolazione per quel mio malfunzionamento interiore.

Come stava Hayama? Perché non m’interessava saperlo?

Sentii l’ansia tendermi gli arti, le dita fredde mi s’indurirono sulla pelle della faccia, dovevo smetterla di rimuginare su cose che non portavano a nulla.

Mi sembrava di andare a tentoni in un gioco di labirinti e porte.

«Ciao, Kurata.»

La sua voce.

Ora la mia mente cominciava persino a farmela sentire. Pazzesco!

«Kurata…»

A quel punto mi bastò voltarmi di scatto per accorgermi che la mente non c’entrava affatto.

Akito, in piedi davanti a me, mi fissava con le mani nelle tasche, un berretto nero tirato sulla testa e l’espressione stravolta.

Ero io a procurargliela?

«Che ci fai qui?»

«Vieni, ti do un passaggio a casa.»

Mi disse semplicemente quello accompagnandolo con un cenno della testa, sperando forse facessi qualche capriola per l’emozione, in realtà me lo guardai per un istante prima di voltare il capo dall’altro lato della strada, volevo alzarmi, girare i tacchi e andarmene scrollando le spalle, ma le gambe come due pezzi di legno che non collaboravano nonostante gli impulsi che il mio cervello gli mandava, m’impedirono di schizzare via di lì.

Perché il mio stupido corpo trovava fastidioso staccarsi da lui?

«Kurata?»

«Va via.»

«Voglio solo accompagnarti a casa e parlarti.» Disse e mi tirò da quella panchina, trascinandomi di fatto difronte ai suoi occhi.

«Gomi… Lui… Non devi credere alle stupidaggini che dice…»

Non era sincero, i suoi occhi si allontanarono nell’esatto istante in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca.

«Di stupidaggini ne dici parecchie anche tu.» Constatai fissandogli l’ombreggiatura lasciata dai lividi sul suo viso.

Lo vidi sollevare una mano, seguii attenta il suo movimento, mi sembrò stesse per accarezzarmi. «Mi se...»

«Per favore... Va a casa.» Così gli dissi e mi voltai dal lato opposto schizzando via, lasciandolo con la mano a mezz’aria.

Per fortuna le mie gambe collaborarono e lui non mi seguì.

Avrei voluto correre senza mai fermarmi fino a casa, ma avevo il cuore in gola e sentivo il respiro cominciare a mancarmi, pensai che a quel punto avrei aspettato l’autobus alla fermata successiva, l’importante era allontanarmi da lì, mettermi in salvo da quello sguardo e tutto il brusio confuso che mi provocava nella testa.

Quando pensai che fossi ormai lontana dal suo campo visivo, voltai l’angolo della strada e mi fermai cercando di riprendere fiato.

Fu a quel punto che mi sentii avvolgere alle spalle dalle sue braccia.

Fu come un’onda di calore che m’inglobava all’improvviso, mi sembrò di percepire solo quello.

Non c’era altro se non un conciliante tepore.

«Non devi pensare a me…» Sussurrò sulla pelle del mio collo.

Mentre me lo diceva, anche senza guardarlo negli occhi, percepii che stesse solo tentando di scacciar via il senso di colpa che pensava di avermi gettato addosso. Mi sembrò crudele quella sua convinzione, mi sembrò crudele perché quel suo parlare rinnegava il mio star male. Perché quel senso di colpa, a conti fatti, io me l’ero cercata dentro per settimane, per anni, ma non ero mai riuscita a tirarlo fuori.

«Lasciami!»

«Mi aveva detto che stavi bene… Scusami se ci ho creduto…»

Che diamine stava dicendo? Forse Gomi gli aveva parlato di me?

«Hayama, non respiro! Non ci sto capendo niente, lasciami andare!» Ansimai cercando di tirarmelo via di dosso, ma lui mi parve come marmo ben piantato sull’asfalto.

«Lei mi aveva detto che tu eri felice…»

«Ma lei chi? Ti prego, Hayama, lasciami andare!»

«Mi dispiace, non ci riesco proprio...»

«Beh, provaci perché io non ti voglio!»

«Bugiarda!»

«Sei troppo convinto, Hayama!»

«No, Kurata… Mi sei mancata!»

E a quelle parole, strozzate tra i capelli e la spalla, ebbero ancora una volta quel potere di farmi bagnare gli occhi, di scivolarmi come una colpa sulle guance. Lui forse capì, o forse lo sentii, fatto sta che mi strinse più forte e si nascose meglio nell’incavo del mio collo. Sentii il suo profumo, le sue labbra schiudermisi sul collo, ma dentro non ci fu niente se non la consapevolezza gelida di esser diventata un mostro insensibile e incapace di provare emozioni.

Di certo capii che quelle lacrime esprimevano solo del disagio. Ero veramente peggiorata.

«Hayama, da quando ti ho rivisto va solo peggio.»

A quel punto, le braccia di Akito scivolarono via dal mio corpo, non mi mossi da quella posizione, eppure lo sentii indietreggiare e immaginai alla perfezione la sua espressione sconvolta.

Lo sentii girare i tacchi e andarsene mentre io chinai la testa concentrandomi sulla forma tonda di alcune gocce che mi bagnavano la punta delle scarpe.

Non sentii nulla di particolare, neanche capii il senso di quelle mie parole.

Salvavano me e condannavano lui, o condannavano me e salvavano lui?

Non avevo chiara percezione nemmeno di quello.

Solo, sì, sentii freddo. Improvvisamente.


*****


Quando rientrai nel mio appartamento buio, mi sembrò di non avere neanche un nervo sciolto nel corpo, era tutto teso e al contempo aggrovigliato, che persino inserire la chiave nella toppa mi sembrò l’azione più difficile e faticosa da compiere.

Mi fiondai nel bagno e mandai giù le medicine senza neanche premurarmi dell’acqua. Mi attaccai al rubinetto e deglutii lasciando andare un sospiro soddisfatto.

Anestetizzare, smettere di pensare pensieri senza pensiero, ingoiare, mandare giù, sciogliere e dormire.

Quando sollevai lo sguardo a cercare la mia immagine riflessa nello specchio ci ritrovai dentro un viso stravolto che mi colpì.

Non c’era apatia nel mio sguardo, c’era sgomento.

Mi chiesi come fosse possibile apparire in quel modo senza sentirsi in quel modo.

Senza essere quel sentimento.

Mi passai una mano sul collo, in quel punto dove avevo sentito per l’ultima volta le sue parole accarezzarmi la pelle.

E mi strappai i vestiti di dosso lanciandomi nella doccia.

Sentii l’esigenza di lavarmi via Akito Hayama e tutto ciò che mi stava provocando, tutto quel brusio, quel disagio. Quelle lacrime e quella confusione, quel mio intero corpo che si muoveva verso di lui senza il mio permesso.

Perché era ricomparso nella mia vita?

Perché voleva che me lo sentissi dentro?

Io stavo così bene nella mia apatia, perché voleva a tutti i costi strapparmela di dosso, demolire il mio rifugio, anche a costo di distruggere sé stesso? Che senso aveva? Cosa voleva da me?

Era così difficile da capire che in quegli anni mi ero costruita solo uno riparo, un modo di sentire la vita senza accusarla troppo per essermi scappata via?

In fondo era un riparo tranquillo e gestibile che mi restituiva una dimensione, ma a lui a quanto pareva non piaceva affatto e dopo quindici anni si arrogava il diritto di tornare, mettere in dubbio la robustezza delle fondamenta del mio riparo, dettare legge, pretendendo addirittura che mi sentissi in colpa.

Quanto a lui, chi era diventato?

L’amore della mia vita trovava piacevole farsi massacrare per sedare un senso di colpa nei miei confronti.

E la cosa mi lasciava indifferente.

La mia apatia emotiva era tutta lì.

Quando mi tirai fuori dal bagno raggiunsi il letto in cui la mia amica dormiva da almeno un paio d’ore.

Lanciai uno sguardo distratto a tutte le creme e i flaconcini che mi aveva sistemato sul comodino e scossi la testa come se stessi rispondendo a una domanda.

Ero sopraffatta.

Mi rannicchiai sotto le coperte in un angolo del letto, ma poi, inspiegabilmente, mi feci più vicina a Hisae e le sfregai la testa sulla schiena.

Lei mugugnò un po’ e si voltò verso di me, per fortuna la benda anti occhiaie le impedì di guardare l’orribile spettacolo della mia faccia stravolta, mi nascosi tra le sue braccia e lasciai andare un sospiro, sperando di ritrovare in quella stretta la mia comoda apatia.

«Hai fatto la skin care?»

«No… Ti prego, sono stanca.»

«Le rughe amano la pigrizia.» Biascicò.

«Non fa niente, dormiamo.» Sussurrai stringendomi a lei.


*****


Poi quella notte successe qualcosa di strano, o meglio, sognai una cosa strana.

Ero seduta su un prato, poi d’un colpo la terra si apriva sotto di me come uno squarcio, una fessura stretta ma profonda.

Mi sembrò quasi volesse risucchiarmi e ci sarei sprofondata sul serio se non mi fossi mantenuta su un lato della fessura. Tentavo invano di tirarmi su, quando vidi l’Akito dodicenne affacciarsi su di me e guardarmi con quella sua espressione fredda, il suo sopracciglio inarcato e le mani nelle tasche dei jeans.

Gli chiesi aiuto ma lui non si mosse, si limitò a ghignare guardandomi dall’alto in basso.

«Come ci sei finita lì?»

«Non lo so…»

«Beh, se non lo sai, cadrai.»

Così mi disse e di fatto mi accorsi che le mani persero consistenza, scivolarono nella terra che a quel punto si fece molle come sabbia e caddi giù.

Mi rialzai di soprassalto, ansimavo rumorosamente mentre il cuore sembrava battermi forte in gola.

Lanciai uno sguardo a Hisae che, dritta sul letto come un fuso, mi guardava con tanto d’occhi sbarrati e la benda per le occhiaie sollevata a mo’ di cerchietto tra i capelli.

«Tutto bene? Digrignavi davvero tanto!» Mi disse e con una mano mi sfregò sulla schiena.

Annuii lievemente. «Devo… Il bagno. Dormi.» Per fortuna non fece storie, si morse un po’ il labbro e mi fissò attenta mentre mi trascinavo a fatica verso il bagno.

Pensai fosse passato troppo poco tempo per prendere delle altre medicine e mi misi a sedere sulla tazza del water cercando di regolare il respiro e riprendere i giusti battiti.

Ormai mi regnava dentro un caos che persino le medicine contenevano a fatica.

Per un istante mi chiesi se il metodo scelto da Akito per anestetizzare il disagio con il dolore fisico gli conferisse una sedazione più efficace.

Mi balenò nella mente l’idea di provarci.

Certo, dove lo trovavo io qualcuno disposto a farlo?

Solo io potevo farmi del male, la gente mi trattava sempre con una gentilezza che sapeva d’ovatta.

Con una certa frenesia presi dalla pochette di Hisae un tagliaunghie e ne estrassi la lama, sentii qualcosa di simile all’impazienza spingermi dentro quando bruciai la lama con l’accendino, poi mi guardai un polso e lo feci.

Il primo taglio era simile a un graffio, mi bruciò la pelle ma forse era solo il calore della lama, il secondo era un po’ più profondo ma impercettibile, il terzo più lungo e preciso non mi restituì nessuna sensazione se non quella tangibile del sangue che mi colava dal braccio.

Non sentii niente, solo un leggero bruciore, ma nessuna percezione, nessuna calma, né piacere, né tantomeno dolore.

Mi sembrò solo un inutile spreco d’energie.

Sciacquai il polso sotto l’acqua fredda e ci premetti su delle garze per un po’.

Il dolore fisico non mi restituiva nulla, non era appagante per me, non sedava, era solo fastidioso.

Forse Hayama doveva avere altri motivi per farsi ridurre così, pensai.

Non era il disagio quello che doveva lenire.


*****


Quando mi risvegliai vidi Hisae roteare per la stanza alla ricerca di qualcosa, o, per meglio dire, intenta a generare caos volutamente.

«Oh! Finalmente sei sveglia!»

«Mi hai svegliata…» Precisai continuando a mugugnare qualcosa che arrivò incomprensibile anche a me stessa, per poi nascondermi di nuovo tra le coperte.

«Già che sei sveglia…» Trillò tirandomele via. «Perché non ti vesti? Usciamo a mangiare qualcosa insieme!»

«Non ho tutte queste energie all’alba.»

«L’alba? Ma se sono le 11! Dormigliona!»

«No…»

«Ti prego, Sana…» Piagnucolò. «Fallo per me, devo tornare a casa dai miei oggi… Anche se non te ne sei accorta dopodomani è Natale, sai?»

Mi tirai su con molta flemme, Hisae mi guardò soddisfatta e mi schioccò un bacio sulla guancia.

«Ti preparo il caffè!» Esclamò, per poi avviarsi in cucina canticchiando una canzone.

Mi accorsi che la felpa che avevo addosso aveva un polsino sporco di sangue, mi ricordai la notte appena trascorsa e mi coprì immediatamente il polso, come colta in fallo.

Hisae dalla cucina canticchiava ancora la sua canzone e io lasciai andare un sospiro, non si era accorta di niente, per fortuna.

Prima di scivolare nel bagno afferrai il mio cellulare dalla borsa e controllai le notifiche, mi accorsi che Naozumi aveva provato a chiamarmi per ben tre volte, ma non mi aveva lasciato alcun messaggio.

Che diavolo di ore erano a New York?

Avviai la chiamata continuando a chiedermelo ma lui mise giù a terzo squillo.

Mi strinsi nelle spalle e lasciai correre, era strano anche lui.


*****


Indossavo un maglioncino attillato a collo alto dal colore simile all’avorio, una gonnellina a volant verde salvia a vita alta che mi arrivava a metà coscia, dei collant scuri a mezza coscia che Hisae aveva definito “parigine” e degli stivaletti alti fino alla caviglia.

La mia amica mi guardava soddisfatta.

«Vedi come stai bene quando mi dai ascolto?»

«Se lo dici tu.»

«Sei uno schianto!» Urlò sistemandomi il trucco nell’angolo dell’occhio con la punta delle dita.

«Certo, con i tuoi bei capelli rossi questi colori sarebbero risaltati di più, ma sei bellissima anche così!»

«Ti piacevo di più con i capelli rossi?»

«Tu mi piaci sempre!» Trillò schioccandomi un bacio sulla guancia.

Lei poi, con un morbido vestito di lana color crema e degli stivali neri che gli arrivavano fino alle cosce, s’infilò degli orecchini piuttosto importanti e mi sorrise.

«Andiamo, su!» Urlò.

Mi chiesi perché avesse insistito così tanto a propinarmi quel look, a cui fece aggiungere anche un cappellino alla francese, ma quando raggiungemmo il posto che aveva scelto per pranzare con me, tutto mi fu chiaro.

Lei andava matta per quei posti, avrei dovuto intuirlo.

Eravamo in un ristornate francese e quei vestiti ovviamente servivano, perché c’erano dei codici non scritti che a me scappavano ma che Hisae conosceva bene.

Poi lei si sentiva rinascere in quei posti sofisticati che trasudavano classe ed eleganza, anche se, a onor del vero, pensai che se qualcuno l’avesse conosciuta per davvero si sarebbe accorto subito di quanto la sua immagine e la sua natura fossero stridenti.

Comunque lei mi sembrava felice.

Io mi riguardavo con aria incerta quella pasta dalla forma strana che lei aveva definito “Quenelle de brochet”, galleggiare nel piatto.

Lei invece si divertiva ad assaggiare tante piccole portate dal nome pomposo e l’aspetto poco rassicurante.

«Non mangi?»

«Non ha un colore definito questa roba…» Commentai.

«Se vuoi ti faccio portare del…»

«No, no, ti prego. Va bene questo… Questo… Qualunque cosa sia.»

Hisae sospirò frustrata. «Pensavo fosse carino portarti qui come se fossi il mio unico amore.»

«Non sei il mio tipo, mi dispiace.»

«Lo sapevo mi avresti risposta così, Crudelia! Comunque ti ho preso un regalo per Natale, volevo aspettare il dessert per dartelo però, dato che ho toppato col ristorante, tento un recupero in extremis!»

Cazzo! In quell’esatto istante in cui la mia amica si chinò a prendere il regalo nella borsa mi resi conto di non aver pensato neanche per un istante a comprarle qualcosa.

A dirla tutta, neanche mi ero accorta che, mentre io mi crogiolavo nel mio disagio, Natale era arrivato.

«Hisae io…»

«Lo so che hai dimenticato il mio regalo, Crudelia, ma sta tranquilla, sono un’amante di poche pretese… Ti lascerò offrirmi il pranzo!» Disse e mi strizzò un occhio passandomi una scatola piuttosto voluminosa.

«Ma che borsa hai?» Le chiesi, considerando il fatto che c’avesse tenuto dentro una scatola lunga quanto il mio avambraccio.

«Una molto voluminosa.»

Scartocciai con calma il suo regalo e mi ci vollero giusto un paio d’istanti per capire cosa fosse.

«Ma tu sei matta!» Urlai, sentendomi il viso invaso da un folle calore.

«Non c’è di che!» Disse soddisfatta, bevendo un sorso del suo chardonnay. «Basta che non lo usi pensando a Naozumi o me lo riprendo.»

«Mi hai portata in un ristorante francese per regalarmi un vibratore?»

«E allora? Non si sconvolgeranno mica, i francesi sono un popolo molto aperto e molto passionale, sai?»

«Non siamo in Francia e comunque tu sei un controsenso in termini! Dove dovrei mettermelo adesso?»

«Devo spiegarti anche questo?»

«Smettila, cretina! Rimettiti questo coso nella borsa!» Commentai esasperata.

«Uhmmm… Come sei antipatica!»

Le passai velocemente quell’aggeggio e lei se lo rimise in borsa. «Te lo do dopo, sta tranquilla.» Mi disse, strizzandomi un occhio.

Le avrei voluto rispondere che poteva anche tenerselo ma mi limitai a fissarla di traverso.

Non potevo crederci, mi sembrò una situazione surreale.

«Vuoi farmi un regalo anche tu?» Fece a quel punto.

«Che vuoi?»

«Puoi mangiare qualcosa? Andiamo altrove se questa roba non ti va.»

Me lo disse in un tono così dolce e premuroso che non potei fare a meno di rimirare quelle pietanze cercando di trovarci dentro qualcosa d’interessante.

Sbuffai un po’, misi da parte la faccenda del vibratore e affondai la forchetta in quello che mi parve uno stufato di manzo e l’assaggiai.

Hisae mi sorrise compiaciuta.

«La fanno qui la Crème brûlèe?» Le chiesi.

«Sì!»

«Allora dopo potremmo assaggiarla.»

«Ma certo! Tutto quello che vuoi…» Mi disse e mi strinse forte la mano sul tavolo.

Cominciai a mangiucchiare un po’ di roba, ma fu inevitabile per me pensare a quanto fossero differenti tutte quelle portate elaborate, dalle semplici okonomiyaki che avevo preparato con Akito.

«Ieri sera ho visto Akito.»

La mia amica mi fissò sbarrando gli occhi, mi parve stesse cercando di contenere una reazione che se fossimo state in un semplice ristorante di okonomiyaki non avrebbe contenuto.

«Sei andata da lui?»

«No, lui è venuto da me, alla fermata… Dopo il lavoro.»

«Che ti ha detto?»

«Stupidaggini… Poi l’ho mandato via… Però mi ha detto una cosa che non ho capito…»

«Cioè?» Ormai quel cibo e la suggestiva atmosfera di classe aveva perso ogni interesse per la mia amica, il suo arrotolarsi il fazzoletto tra le dita mi lasciò intendere alla perfezione che avesse solo voglia di fumare.

«Mi ha detto… “Lei mi ha detto che tu stavi bene…” A chi pensi si riferisca?»

Hisae mi fissò inarcando un sopracciglio. «E non l’hai capito?»

«No…»

«A Fuka.» Disse e mandò giù un lungo sorso di chardonnay come se d’improvviso fosse diventata la più grezza delle bevande.

«Mi potresti dire sinceramente cosa faresti al mio posto?»

«Penso che spaccherei la faccia a Fuka, ma poi penserei che per non aver continuato la scopamicizia qualcosa tra loro sarà successo e a quel punto mi sa che le spaccherei di nuovo la faccia per farla parlare.»

«Hisae, ti prego… Non è questo quello che m’interessa.»

«Ah no?»

«No. E poi ricordati che Fuka non ha fatto tutto da sola. E poi magari non hanno continuato perché a lei non piaceva, che ne sai?»

«A quella là? Ma se non ha fatto altro che osannare quella scopata? Porca miseria! Mi ha anche descritto il suo affare per filo e per segno!»

Sollevai gli occhi al cielo con aria spazientita, perché continuava a battere su quel punto? «Ok, sei stata chiara, Hisae...»

«Beh… Sì… Scusa… Insomma … Voglio dire… Mi hai capita…»

«Lascia perdere, non è quello che volevo sapere… Solo… Vorrei chiederti se ho fatto bene a mandarlo via.»

Lei si morse un po’ il labbro e roteò gli occhi di lato. «Temo di sì, ma non lo so se è quello che vuoi.»

«Neanche io… Anche perché non capisco veramente cosa provo… O meglio… L’unica cosa che capisco è che non sento nulla oltre al disagio di non sentire nulla… Quindi ho pensato di fare ciò che è giusto.»

«Ti manca?»

«Lui così mi ha detto…»

«E a te?»

«Magari ci penso… Però… No. Non in maniera definita, ecco.»

«E ti manca Naozumi?»

«No… Anzi, averlo così lontano, è l’unica cosa positiva di queste settimane… Ma questo perché ho la mente già troppo…»

«Invasa da Akito Hayama, eh?»

«Mi dà fastidio che venga dopo quindici anni e voglia incasinarmi la vita riempiendomi la testa di domande e… Di quel senso di frustrazione che ne viene, perché non riesco neanche a sentire che di fatto me la stia incasinando. Mi accorgo solo che ho la mente come… Sotto bombardamento!»

«Dio mio! Che casino!»

«Benvenuta nella mia testa…» Sbuffai.

«Menomale che ti ho regalato Kanamara, lui non fa domande, da solo grosse soddisfazioni.»

«Hisae… Ti prego… Sei blasfema.»

«Senti, Sana? Lo vuoi un parere dalla tua vecchia amica?»

«Ormai…»

«Farò finta di non aver sentito e lo prenderò come un sì.»

«Era un sì, solo un po’ timoroso.»

«Lasciati andare e cerca di vivere ogni cosa per come verrà… Come diceva Grace Kelly “Que sera sera”»

«Era Doris Day…»

«Ma lo sai che con la vecchiaia sei diventata saccente e sbruffona come Hayama?»

E a quel punto scoppiò a ridere, in una maniera del tutto sconveniente per un ristorante francese.


*****


Quando rientrai nel mio appartamento in compagnia dell’imbarazzante regalo di Hisae, erano ormai le otto, mi sfilai gli stivaletti all’ingresso e mi trascinai lentamente sul letto.

Certo che la mia amica era davvero strana, che diavolo avrei dovuto farci con quell’affare?

Lo feci scivolare sotto al letto e sbuffai un po’ col naso per aria e lo sguardo rivolto al soffitto.

Ero stanca, però dovevo ammettere che la giornata insieme a lei non mi era dispiaciuta affatto.

Dio mio… Ora parlavo anche come lui.

Forse aveva ragione Hisae che cominciavo a somigliare ad Hayama e al suo muso lungo. O comunque a quello del mio Hayama dodicenne.

Perché in effetti io mica lo sapevo chi era oggi.

Uno che baciava una donna tenendone per mano un’altra?

Uno che sfondava le porte per entrare con irruenza nella vita di una ragazza depressa?

Uno a cui piaceva farsi massacrare di botte? Uno che diceva di non aver saputo immaginare un mondo in cui quella stessa ragazza non fosse felice?

Uno che tornava e poi se ne andava e poi ritornava e poi se ne andava… Senza alcuna logica apparente?

Io non lo sapevo chi era, non lo sapevo affatto, e sì, avrei dovuto seguire il consiglio di Hisae e smettere di pensarci.

Scacciai via tutto quel ragionare vuoto e mi tirai su a cercare il cellulare.

Non avevo ricevuto nessuna chiamata da Naozumi, neanche un messaggio. Mi sembrò strano.

Pensai per un istante di telefonargli, ma poi pensai al fuso e tutti quei calcoli mi stancarono ancora prima di cominciare a contare e lasciai perdere.

Sicuramente stava bene.

Se Hisae fosse stata lì mi avrebbe trascinata in bagno a struccarmi, mi avrebbe rimbeccata perché non avevo voglia di fare la skin care e mi venne un po’ da ridere.

“Ti farai venire le rughe…” Mi ripetei tra me e me, ma non ebbi la forza di alzarmi né di muovere un muscolo.

In fondo, anche il riposo scacciava via le rughe, pensai chiudendo gli occhi.

Hisae sarebbe stata fiera di me.


Quando mi risvegliai erano le 23. Sentii gli occhi appiccicati dal mascara che avevo messo circa undici ore prima e capii che tutte quelle parole spese dalle influencer e dalle pubblicità – e dalla mia amica - sull’efficacia dei mascara waterproof fossero solo fandonie.

Ero così stanca, mi chiesi perché diamine mi fossi già svegliata, neanche avvertivo rigidità, quando sentii distintamente suonare al campanello.

Pensai fosse Hisae e mi rimisi comoda, le avevo dato un doppione delle chiavi, sarebbe entrata tranquillamente.

Sentii ancora suonare. Di certo aveva perso le chiavi nei meandri della sua grossa borsa.

Poi però ricordai che mi aveva detto che doveva raggiungere casa dei suoi che ormai si erano trasferiti fuori città e allora capii che non doveva essere lei.

Me ne curai comunque poco e mi voltai dall’altra parte nascondendo la testa tra le coperte.

Quel suono, però, si fece sempre più insistente.

Mi tirai a fatica fuori dal letto e, sbuffando sonoramente, mi avviai alla porta.

Non volevo aprire, semplicemente volevo dare un volto allo scocciatore della serata, ipotizzai il ragazzino che viveva sopra di me dalla faccia rotonda. Suonava spesso alla mia porta per chiedermi i fumetti e i manga che la madre mi chiedeva di ritirare per lui al konbini.

Come diavolo si chiamava?

Ad ogni modo, non gli avevo ritirato nemmeno i fumetti…

Quando però mi allungai allo spioncino la mia ipotesi si volatilizzò all’istante, sentii il respiro farsi più denso.

Cosa diavolo ci faceva lì?

Gli aprì la porta e lo fissai turbata, ma il mio sguardo s’infranse dinnanzi a quella immagine di lui che mi fissava dritto negli occhi, con le guance rosse e una mano stretta sulla pancia.

Mi accorsi che respirava a fatica, neanche feci in tempo ad emettere un fiato che si piegò su di me quasi a sorreggersi.

«Che ti è successo?» Trillai sollevandolo un po’ per le spalle.

Lui strinse gli occhi e mi sorrise abbozzando un po’ quella sua espressione furbetta.

«Ciao, Kurata.» Biascicò.

Senza neanche rispondergli richiusi la porta, gli sfilai lentamente la giacca di pelle e gli portai un braccio attorno al mio collo, tentando come potevo di sorreggerlo.

Sperai di sentirgli addosso un vago sentore d’alcol ma non mi restituì nulla, non era affatto ubriaco.

Purtroppo, pensai, era ancora una volta quell’altro il suo problema. «Ce la fai a camminare fino in camera mia?»

Lui annuì un po’ e lentamente lo spinsi nella mia stanza buia, senza aver chiara idea di ciò che stessi facendo, un po’ a tentoni, - proprio come stavo procedendo con lui in realtà - lo feci sedere sul letto rimanendo in piedi difronte a lui.

Accesi la lampada sul comodino e lo guardai meglio.

Mi accorsi che nel mettersi a sedere aveva lasciato andare una smorfia di dolore che subito nascose in un mugugno.

«Mi dici che hai fatto?»

Scosse la testa e si distese su un fianco reggendosi ancora quella mano sullo stomaco.

Non sapevo dire le sensazioni che mi si stavano smuovendo dentro, era tutto nebuloso, confuso, cercai di non pensarci e tentai di essere sul momento senza chiedermi troppe cose, così gli sfilai le scarpe e ritornai lì, in piedi difronte a lui.

«Cosa… Cosa devo fare, Hayama? Io…»

Lui aprì un po’ gli occhi e mi guardò le gambe. A quel punto mi regalò un altro dei suoi sorrisetti sbruffoni, allungò una mano verso la mia coscia e la sfiorò lentamente.

M’irrigidì all’istante senza sapere come muovermi, senza sapere se volessi muovermi.

I suoi occhi seguirono attenti il movimento della sua mano.

Sentii le sue dita carezzarmi l’interno coscia, superare senza fretta la parte più spessa dei collant, le dita a quel punto mi sfilarono lente sulla pelle nuda, s’infilarono tra le balze della gonna e mi accorsi di aver lasciato andare un ansimo nell’esatto istante in cui raggiunsero il bordo interno delle mie mutande.

Quasi risvegliandomi gli posai una mano sul polso e l’allontanai da me. «Piantala, Hayama!»

Lui allora, indispettito, voltò la mano sul mio polso in un movimento fulmineo e mi tirò a sé.

«Hayama! Ma non stavi agonizzando fino a tre secondi fa?!» Urlai, o almeno ci provai dal momento che avevo la faccia spiaccicata sul suo petto. «Non puoi venire qui e fare quello che ti pare!» Aggiunsi allontanandomi da quella presa.

«Kurata… Sto male, sta un po’ zitta e fammi compagnia…» Biascicò, ma sentii ancora il suo respiro affannoso, la sua faccia tentare di mascherare un dolore che sicuramente sentiva nella parte alta dello stomaco.

«Ma non hai bisogno di un’aspirina, delle bende, qualcosa… Io non so cosa si fa in questi casi…» Protestai.

«Non mi serve niente, solo che resti.»

Sbuffai sollevando gli occhi al cielo, non lo capivo per niente, eppure mi era parso di esser stata chiara la sera precedente, ora che senso aveva la sua presenza lì?

Mi sollevai un po’ per tirarci addosso la coperta, lui sbarrò gli occhi e mi guardò con fare circospetto. «Non me ne sto andando, ho solo freddo…»

Perché diamine mi giustificavo?

Lui a quel punto richiuse gli occhi e posò la testa sul mio seno stringendomi più forte a sé.

Io ero sicuramente una svitata, ma neanche lui doveva avere tutte le rotelle al posto giusto.

Comunque, non so quanto tempo trascorse, ma mentre io me ne stavo lì con la mente vuota e lo sguardo che puntava a tutto meno che a lui, Akito sembrava essersi calmato sul serio.

Il suo respiro sembrava regolare, pensai addirittura si fosse addormentato e la cosa finì col calmare anche me.

Mi chiesi se fosse quella la potenza di cui parlava Hisae.

Così gli passai una mano tra i capelli e a poco a poco, scivolai con le dita sulla pelle del suo viso sfiorandoglielo delicatamente.

Quel movimento dovette conciliargli il sonno perché a quel punto sfregò un po’ la testa sul mio seno in un mugugno rilassato.

Chissà cosa diavolo nascondeva in quella testa, pensai.

E stranamente l’attenzione mi si concentrò su quella mano ancora stretta sullo stomaco e che di fatto si piantava tra noi dividendoci.

Approfittando del fatto che si fosse tranquillizzato, con una mano scivolai tra le coperte e lentamente la infilai sotto alla sua maglia.

Lui a quel punto, però, scattò subito. Intercettò la mia mano chiudendola nella sua e mi guardò.

«Kurata se volevi riprendere il discorso di prima bastava chiedere.»

«Volevo solo capire…» Gli dissi, tirando via la mano da quella stretta. «Non farti strane idee!»

Lui si morse un po’ il labbro e mi guardò sfacciato. «Per chi ti fai così carina?»

«Certo non per te… Sai com’è non ti aspettavo nemmeno…»

«Sennò l’avresti fatto?»

«Ovviamente no…»

«Per chi lo fai allora?»

«Sono uscita con Hisae…»

«Ma allora è una cosa seria?»

«Potresti farla finita con queste battute idiote e dirmi cosa ti è successo?»

«Qualcosa di buono, immagino.»

Sbuffai sonoramente per quel modo che aveva di rispondere alle mie domande senza rispondere. «Ritrovarsi in questo stato non è mai qualcosa di buono, Hayama.»

«Non mi sono mai sentito meglio di così, invece.»

Mi sembrò d’impazzire, gli avrei voluto tirare un pugno sul naso, perché si ostinava a tacere? Ma soprattutto, perché volevo saperlo così tanto? Perché quando stavo con lui non mi veniva dentro quell’indifferenza e quell’apatia che riuscivo a regalare a tutti?

Perché non faceva altro che bombardarmi la mente con tutte quelle domande che non mi restituivano né sensazioni definite né risposte chiare?

Scivolai giù tra le coperte e mi portai le mani sulla faccia ammazzando uno sbuffo infastidito.

Odiavo l’irruenza con cui m’investiva ogni volta.

Fu a quel punto che Akito si spostò meglio su un fianco e mi tirò a sé. «Non ti devi preoccupare per me.» Sussurrò togliendomi le mani dalla faccia.

«Non vorrei farlo, te lo giuro… E non so neanche se lo sono… A dirla tutta.»

Lui corrugò un po’ la fronte ma non disse nulla.

«Il fatto è che tu sei sbucato così dal nulla e… Non lo so… Da quando ti ho rivisto va sempre peggio… Ho la testa piena di domande e… E non sento niente… Neanche averti appiccicato addosso mi provoca qualcosa… Io solo penso… Di continuo io penso…»

«Kurata?» Mi chiamò, increspando poi le labbra in un sorriso sbruffone.

«Cosa c’è?»

«Non pensare…» Sussurrò guardandomi negli occhi con quello sguardo che anche da ragazzina aveva avuto quel misterioso potere d’immobilizzarmi.

Sentii che mi stava baciando, o forse quella volta ero stata io a baciare lui per prima. Successe tutto così velocemente che non ebbi la lucidità di capire.

Sentii solo che era successo mentre già stava succedendo.

La sua lingua cercò la mia mentre le sue mani già si perdevano tra i miei capelli. Mi prese uno strano impeto, di concreto non percepii nulla se non il desiderio tangibile di sentire le sue mani scivolarmi sulla pelle, la sua lingua calda leccare ogni punto del mio corpo.

Gli afferrai il viso tra le mani e ansimai sulla sua bocca quando mi accorsi che la sua mano era volata a stringermi un seno mentre la lingua mi disegnava piano una scia dal mento al collo. Percepii un brivido nel sentire il suo respiro strisciarmi lungo quel perimetro tracciato dalla sua bocca. «Hayama…» Lo chiamai, tirandogli un po’ i capelli, mentre con l’altra mano già mi lambiva i fianchi.

Cosa diamine stavo facendo? Perché il mio corpo si arrendeva così a lui? Perché ne assecondava ogni movimento?

Com’era successo poche ore prima, sentii la sua mano carezzarmi l’interno coscia, quella volta però gli percepii nelle dita un’urgenza che prima rimaneva silente.

Lasciai andare un gemito sulla sua spalla quando quelle stesse dita superarono il bordo delle mie mutandine e sfiorarono piano quella parte di me che non chiedeva altro che quel momento.

Per un istante ricordai le parole di Gomi.

“Torna nel buco nero in cui sei rimasta per questi ultimi quindici anni”, mi aveva detto, e lì, mentre le labbra di Hayama divoravano con foga le mie, mentre le sue dita stavano per infilarsi dentro di me, capii che dovevo spezzare quel momento, perché dovevo smetterla di alimentare quel violento campo gravitazionale che Akito Hayama aveva sempre generato dentro di me.

Lo allontanai con forza da me e voltai un po’ la faccia. «Basta… Non possiamo… Non posso permetterlo.» Ansimai.

Ovviamente non si arrese, approfittando del fatto che gli avessi voltato la faccia, si fiondò a baciarmi il collo.

Cazzo se era bravo, aveva proprio una sicurezza in quel suo modo di prendermi, che pensai si avvicinasse moltissimo a quel "capace" che Hisae usava sempre.

Per un po' cedetti alla sua bocca, ma poi lo spinsi via decretando la fine di tutto.

Lo sentii sbuffare avvilito e si lasciò andare su un fianco accanto a me. «Hai pensato di nuovo?» Chiese ironico.

«Non possiamo fare così, non ci serve a niente, Hayama.»

«Mi pareva di sì…»

«No, il fatto è che…» Stavo per aggiungere altro ma a quel punto sbuffò sonoramente e mi strinse tra le sue braccia agganciando le sue gambe alle mie. «Ho capito… Non dire niente.»

«Se hai capito perché sei ancora qui?»

«Voglio dormire con te.»

«Allora non hai capito proprio niente!» Scalciai fra le sue braccia provocandogli una smorfia di dolore che intuì non provenisse affatto dallo stomaco.

«Vuoi stare un po’ ferma Kurata?»

«Scusami… Pensavo fosse altro…» Bisbigliai con un certo imbarazzo, ormai certa di averlo colpito in un punto ancora troppo sensibile.

Mi sembrò stesse trattenendo una battuta, ma comunque mi tirò a sé e chinò il viso sulla mia testa, carezzandomi i capelli di tanto in tanto.

Quel movimento ipnotico sembrò calmarlo, sentii i muscoli delle sue braccia ammorbidirsi, le sue dita indugiare incastrate tra i miei capelli.

Avrei tanto voluto seguire il consiglio di Hisae e lasciarmi andare, ma c’era quel campo gravitazionale che lui mi generava dentro e che di fatto mi bloccava.

Perché fare l’amore con lui senza neanche sentirmi il cuore in gola, mi parve una brutalità che non potevo infliggermi.

O forse, non volevo infliggere a lui quell’ennesima frustrazione, quella ennesima motivazione da aggiungere alle tante motivazioni che evidentemente si dava per farsi ridurre così.

E poi pensai a Naozumi. Non riuscivo a sentirmi neanche un po’ in colpa nei suoi confronti, ma quello ormai era un aspetto con cui riuscivo a scendere a patti, in fondo non sentivo un coinvolgimento emotivo neanche per Akito.

Però ecco, mi resi conto che, al di là delle mie percezioni, Naozumi non meritava un simile trattamento da parte mia. Non era stato il migliore dei fidanzati in quei due anni, ma a suo modo, con tutti i suoi limiti e le sue convinzioni, aveva sempre cercato di capirmi.

«A che stai pensando?» La voce di Akito mi fece sobbalzare, sollevai lo sguardo con fare colpevole verso di lui.

«Stai digrignando…» Spiegò.

Neanche me n’ero accorta.

«Io… Beh… Pensavo che questo nostro… Neanche so come chiamarlo… Non è giusto per la persona con cui sto, né per quella con cui stai tu…»

«E’ vero.» Constatò, senza smuoversi di un millimetro da me.

«Hai da dire solo questo? Non sei neanche un po’ pentito?»

«Tu lo sei?»

«Te l’ho chiesto io, Hayama…»

«Beh… Sachiko e io… Tra noi è tutto poco definito. Quindi no, non sono pentito. Quanto al tuo tipo, è un coglione.»

«Ma come ti permetti?»

«Andiamo, Kurata. Non sarei qui se non lo fosse.»

«Guarda che sei stato tu a piombarmi in casa due volte, la prima perché mi hai sfondato la porta, la seconda perché hai suonato al campanello di casa mia con le budella tra le mani!»

«Non avevo le budella tra le mani. E comunque è chiaro che lui ti piace poco.»

«Ma che diavolo ne sai tu?»

«Kurata o ti piace poco o ti scopa male…»

A quel punto allungai le braccia sul suo petto e cercai di liberarmi dalla sua stretta, ma lui ovviamente, senza neanche sforzarsi troppo, mi mantenne a sé con un ghigno soddisfatto dipinto sul viso.

«Lasciami andare!» Urlai.

«Non ci penso nemmeno.» Fece divertito.

«Hayama, ti ho detto di lasciarmi!»

«Tu hai veramente un rapporto strano con la verità, Kurata. Lo sai? Ti fa irritare.»

«Forse perché questa non è la verità?»

«Hai ragione… Forse non lo è…  Forse è semplicemente che ti piaccio più io di lui.»

«Ma lo sai che sei veramente un pallone gonfiato?!»

«Però sei diventata rossa…»

La sua espressione tronfia m’indispettì più dello stupido calore che mi scoppiò in faccia.

«Hayama?»

«Cosa?»

«O dormi oppure…» Non riuscii a finire quella frase, non riuscii a dirgli oppure vattene via, o torna a casa, o semplicemente sparisci. Le parole mi si mozzarono in gola.

Forse a causa di quegli occhi che non volevano saperne di allontanarsi dai miei.

«Oppure?»

«Oppure ti…» I suoi occhi addosso mi confondevano sempre più, istintivamente chinai lo sguardo, gli fissai le labbra balbettando quel ti, trascinandolo come se fossi incapace di continuare quella frase.

«Vuoi ricominciare?» Fece lui, nascondendo una mano tra i miei capelli, attirandomi a sé premendomi sulla nuca.

«No, affatto! Dormi!» Urlai e affondai la testa sul suo petto, impedendomi di badare a quanto il mio corpo stesse vibrando per “ricominciare”.


*****


Quando mi risvegliai, di Hayama era rimasto solo il profumo sul cuscino e qualche capello castano che le sue mani avevano strappato via durante quei giochi ipnotici che le sue dita avevano improvvisato tra i miei capelli.

Pensai che mi fossi addormentata proprio così, ipnotizzata, con la sua mano tra i capelli.

Mi tirai su con flemme e mi guardai attorno come se non avessi mai visto quel posto, come se fosse diverso dalla stanza in cui mi ero addormentata con lui e avvertii uno strano senso di nausea alla bocca dello stomaco.

Gli occhi mi caddero su un foglio di carta poggiato sul comodino.

Ciao, Kurata.

Così c’era scritto, ma senza la sua voce mi parvero diverse quelle parole, più reali, più brutali.

Sapevano d’addio.

Mi lasciai andare sul letto e strinsi a me il suo cuscino. 

C’era un capello rosso sul mio polso, gli occhi mi caddero proprio lì.








Ciao a tutte!!!
Terzo capitolo arrivato, spero vi sia piaciuto e spero non vi abbia spiazzate e/o traumatizzate  troppo.

Lo so che non è da me, ma per questa volta non voglio dilungarmi troppo, soprattutto perché non vorrei commentare niente di quanto scritto per non influenzare le vostre opinioni.

Io mi rendo conto di sentire particolarmente questa storia e spero vi arrivi con tutta l’intensità che vorrei. <3
Detto ciò… Veramente taccio!

Come sempre un bacio speciale alle mie amichette preferite <3
E vi ringrazio tantissimo per aver letto questa storia e per avermi fatto sapere cosa ne pensate <3

A presto!
Lolimik





 



 




 





  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Rossana/Kodocha / Vai alla pagina dell'autore: Lolimik