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Autore: Adeia Di Elferas    14/12/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Per Achille Tiberti e Giulio Orsini prendere Russi non era stato difficile. Avevano impiegato bene i millecinquecento fanti e i cavalli a loro disposizione e nel giro di un tempo brevissimo avevano fatto loro la preda.

Vitellozzo Vitelli, poi, non aveva dovuto far altro che entrare in paese con i suoi seicento cavalli e con trecento fanti, per sancire l'acquisizione una volta per tutte. Proprio per questo minor sforzo, era stato chiesto a lui di spostarsi verso Solarolo.

Il condottiero non si era tirato indietro, anzi, con un breve fuoco d'artiglieria aveva portato a termine la conquista, catturando perfino il bombardiere del castello, usandolo come messaggio vivente per Astorre Manfredi. Dopo avergli fatto cavare un occhio e mozzare una mano, infatti, l'aveva spedito a Faenza, pregando di portare al suo signore i saluti di tutto l'esercito pontificio.

Anche Granarolo era caduta in fretta e così i comandanti al servizio del Borja poterono riunirsi presto per dare di nuovo l'attacco a Faenza, nella speranza che i recenti scontri persi in Val di Lamone avessero mortificato a sufficienza gli uomini di Astorre Manfredi.

Così, come deciso dal Duca Valentino, che sembrava aver fatto della guerra notturna la sua regola, appena fu abbastanza buio e calò la sera su quel 16 gennaio, l'esercito pontificio si apprestò a dare la scalata alle mura faentine.

L'idea, però, si concretizzò in parte. Bernardino da Marzano aveva infatti intuito qualcosa quando, appena prima del tramonto, aveva scorto nell'accampamento borgiano, lontano, ma visibile dalle bastione più alto, una certa agitazione. Il condottiero aveva quindi tappezzato le mura di guardie, mettendo anche vedette scelte tra i civili, sfruttando, così, tutti gli occhi che Faenza poteva offrire per la difesa della cinta muraria.

Cesare stesso capì subito l'inghippo, quando, dopo aver ordinato al primo fronte di soldati di avvicinarsi alle mura, sentì già le grida dei difensori che avevano visto la manovra e richiamavano i rinforzi.

Spaventato, per non perdere troppi uomini in modo stupido, il figlio del papa aveva chiamato la ritirata, preparandosi per ripetere il tentativo la notte seguente, convinto che i faentini mai si sarebbero attesi un nuovo attacco così presto.

“Il buio gioca a loro favore! L'abbiamo visto coi nostri occhi!” si arrabbiò però Baglioni, battendo un pugno sul tavolo che campeggiava nel mezzo del padiglione del Duca: “Va tutto a vantaggio loro, che sono dietro alle mura, che conoscono il territorio e che possono colpirci dall'alto!”

Gli animi dei condottieri presenti si scaldò tutto d'un colpo. Non era ancora l'alba, ma l'agitazione che regnava nella tenda di Cesare non lasciava dormire nemmeno i soldati il cui bivacco era nelle vicinanze.

“Tra poco ricomincerà a nevicare e noi rimarremo sepolti dalla neve come tanti idioti!” convenne Vitellozzo Vitelli, che cominciava a sentirsi molto stanco di tutta quella situazione: “Già è stato da sprovveduti iniziare un assedio in pieno inverno, ma se lo gestiamo a questo modo allora facciamo prima a calarci le brache davanti al Manfredi e invitarlo a far di noi ciò che vuole!”

Tutti i presenti espressero in vario modo il loro appoggio per quelle parole, tanto che qualcuno applaudì perfino. Il Borja non sapeva come fare a farli placare. Fino a quel giorno, malgrado i ritardi e le difficoltà, aveva avuto l'illusione di cominciare ad avere il rispetto non solo della truppe, ma anche e soprattutto dei suoi comandanti. Ora capiva che non era così. Non più, almeno.

“Voi vi siete messo in testa che basti combattere con il favore delle tenebre per dimostrare di essere il migliore, ma voi non siete certo la Tigre di Forlì!” si lasciò scappare Achille Tiberti.

Il cesenate cambiò subito espressione, però, nel momento esatto in cui tacque. Si era reso conto di aver scelto le parole più sbagliate per dimostrare il proprio dissenso nei confronti delle decisioni del suo signore.

“La rimpiangete?” gli chiese il Valentino, rompendo il silenzio glaciale che era piombato nel padiglione: “Ditemi: la rimpiangete, quella meretrice? Preferireste essere ancora al suo servizio?”

“Non è questo che ho detto...” si schermì Achille, imbarazzato.

“Meglio così.” tagliò corto il figlio del papa, convinto che l'attenzione che si era appena guadagnato a causa della battuta storta di Tiberti andasse sfruttata in altro modo: “Attaccheremo con la luce. E Achille guiderà l'assalto.”

Nessuno trovò più nulla di ribattere e lo stesso Tiberti, raggelato da quella prospettiva, dato che sapeva trattarsi di un'operazione pressoché suicida, si chiuse in un mutismo sordo che durò fino a metà della mattina dopo, quando si preparò per dare l'assalto.

Come la notte prima, i faentini si accorsero subito delle manovre pontificie, ma, senza il favore delle tenebre, agli uomini del Duca andò molto peggio. La ritirata, anche in questo caso frettolosa e scomposta, non aveva avuto il beneficio della notte come copertura. Più visibili, i soldati del Borja erano facile preda delle frecce scagliate dall'alto delle mura faentine e cadevano a terra come mosche.

“Questa volta facciamo a modo mio e basta.” concluse il Valentino, davanti ai suoi comandanti, Tiberti compreso, scampato per puro miracolo alle sventagliate di frecce e pietre dei nemici.

Cesare si prese quasi tre giorni di tempo. Nessuno sapeva cosa stesse macchinando, ma alla fine, quando disse che era tutto pronto, nessuno fece domande.

Fu subito chiaro, quel 21 gennaio, che dentro Faenza qualcosa fosse accaduto. L'ipotesi più probabile, era che il Duca avesse corrotto qualcuno, introducendo una talpa in qualche modo, affinché venissero lasciati passare dei soldati all'altezza dei terrapieni delle mura.

Fu così che, dopo un primo assalto poco fortunato, una decina di soldati spagnoli raggiunsero senza alcuna fatica i terrapieni e da lì, in fretta, cominciarono ad aiutare i compagni a salire sulle mura.

Sembrava quasi cosa fatta. Il Valentino, che osservava da lontano, sentiva già il sapore della vittoria sotto ai denti, senonché qualcosa andò storto all'improvviso.

Una squadra di faentini, accorsa ai terrapieni accerchiò in un lampo i pontifici che stavano dando la scalata alle mura. Li uccisero quasi tutti e fecero prigionieri i superstiti.

La battaglia si affievolì subito, e si spense del tutto quando i corpi senza vita di quelli che erano stati presi vennero appesi alle merlature, alla bella vista dei nemici.

Cesare cominciò a gridare che si continuasse a combattere, ma il morale dei suoi soldati non era recuperabile. La vista dei commilitoni morti, il freddo, la neve che ricominciava a cadere e la scarsa spinta data dai comandanti, portarono le truppe a ritirarsi spontaneamente, abbandonando la linea di fuoco prima ancora che i faentini potessero cominciare a far fuoco con la propria artiglieria.

“Qui la cosa si fa lunga.” commentò Vitelli, quella sera, mentre cenava assieme al Borja davanti al focolare, nel padiglione del venticinquenne: “Fossi in voi metterei le mani avanti, con vostro padre.”

“Che intendete?” domandò, teso, Cesare.

“Niente, solo che il papa non mi sembra un uomo capace di accettare che il proprio figlio ripeta due volte lo stesso errore...” commentò l'uomo, staccando un pezzo di carne dal cosciotto di pollo che teneva in mano: “Men che meno se i risultati sono peggiori la seconda volta rispetto alla prima.”

Il Duca di Valentinois deglutì rumorosamente e poi, rilanciando nella pentola da campo il suo pezzo di carne, borbottò qualcosa e, allargandosi con due dita il colletto del giubbone, uscì dalla tenda per prendere una boccata d'aria.

 

“Adesso sembra che il Duca, non riuscendo a far breccia a Faenza, stia facendo scorrerei tra Cesena e Cesenatico e nella zona di Castrocaro.” spiegò Fortunati, tenendo le mani conserte sulle ginocchia accavallate, come se stesse facendo un semplice elenco di fatti tanto per chiacchierarne e non perché fosse una cosa grave: “E sembra che, nella confusione, sia venuto a scaramucciare anche con qualche gruppetto di soldati fiorentini...”

“Dunque Firenze si leverà in armi contro il figlio del papa?” la voce di Bianca era piatta, perché la ragazza sapeva benissimo che la sua era un'ipotesi iperbolica.

L'aveva detto, anzi, più per rompere la monotonia delle parole di Francesco, che non perché ne fosse convinta, ma l'uomo non colse la sua vera intenzione, ribattendo, contrariato: “Se credete che basti così poco per smuovere Firenze, dopo che Lorenzo ha fatto di tutto per far sì che la Repubblica avvallasse i progetti del papa, significa che non capite nulla di queste cose.”

La ragazza, che in un primo momento era stata felice di ricevere una visita dal piovano, strinse le labbra e guardò altrove, quasi sperando che la Madre Superiora arrivasse a interromperli. Per quanto la riguardava, Fortunati non le aveva portato nessuna notizia interessante. La guerra, in Romagna, c'era ancora e i pontifici erano sempre i favoriti, e riguardo a sua madre non c'era nulla di nuovo di cui parlare. Per il resto, tutte le informazioni che il religioso le aveva dato circa la situazione di Firenze, le interessavano marginalmente. Dopo mesi e mesi passati alle Murate, il mondo esterno le sembrava quasi irreale, non tangibile e quindi poco meritevole delle sue attenzioni.

“E quindi ora...” la voce si spense nella gola dell'uomo, però, perché dalla porta dello studiolo privato di Suor Elena – che era stato offerto come parlatorio per quell'ospite particolare – era appena entrata Suor Ubbidienza con Cornelia stretta al collo e Giovannino, come sempre vestito da femmina, tenuto per mano, preda delle lacrime.

Non appena vide la sorella, il bambino smise all'istante di disperarsi e, correndole incontro fino a farsi prendere in braccio, passò dal pianto al sorriso.

“Madonna Bianca perdonatemi, ma credo che abbia fatto un incubo...” si scusò la suora, dopo aver fatto un saluto reverenziale al piovano: “L'avevo lasciato solo un momento, perché era nell'altra stanza con Cornelia e quando si è svegliato si è trovato da solo e...”

“Non importa, va tutto bene.” fece la Riario, asciugando una lacrima raminga sulla guancia del fratellino: “Andate pure...”

Suor Ubbidienza, in parte sollevata dal poter lasciare il bambino alla giovane, strinse a sé ancor di più Cornelia, con cui aveva un rapporto molto più disteso, e, scusandosi di nuovo, se ne andò.

“Avete altro da dirmi?” il piglio con Bianca si era rivolta al piovano, gli fece aggrottare la fronte.

Aveva vissuto per un certo periodo a Forlì, ma si rendeva conto di conoscere in realtà poco l'unica figlia della Tigre. Gli era sempre sembrata così modesta e tranquilla, da non far davvero mai caso a lei.

In quel momento la ragazza stava accarezzando Giovannino, che nelle sue mani si era fatto calmo come un mare dopo la tempesta, e gli dava di quando in quando un bacio in fronte. Quel genere di gesti affettuosi Francesco li aveva visti fare anche da Caterina, quando aveva con sé l'ultimo figlio.

Perciò il commento che si lasciò scappare gli uscì dalle labbra quasi senza che se lo volesse: “Voi somigliate molto a vostra madre.”

“Abbiamo gli stessi colori.” ribatté la Riario: “Così come lei assomigliava a mia nonna Lucrezia...”

Il piovano avrebbe voluto dire che non erano i tratti somatici a cui li si riferiva, ma gli bastò incrociare un secondo lo sguardo della giovane per comprendere che lei aveva inteso benissimo la sua intenzione, ma aveva deliberatamente deciso di contraddirlo sottolineando in quel modo come le loro somiglianze si fermassero a una questione fisica.

“Credo che voi sarete un'ottima madre, un giorno.” proseguì Fortunati, sinceramente convinto della propria affermazione.

Sapeva che Giovannino era sempre stato un bambino difficile da gestire, tanto che, puntualmente, a Ravaldino le balie non vedevano l'ora di lasciarlo a Caterina. Vedere come Bianca riuscisse a coccolarlo senza suscitarne l'insofferenza rafforzava solo la sua convinzione.

La Riario, punta sul vivo, dato che il desiderio di maternità aveva sempre fatto capolino nei suoi pensieri, arrivando a farle desiderare una famiglia numerosissima, strinse un po' le palpebre e, evitando di guardare il suo interlocutore, ribatté: “Ho già diciannove anni. Se resterò qui dentro per qualche anno ancora, non credo che sarò mai né moglie né madre, non credete?”

“Non dite così...” tentò Francesco, chiedendosi come avesse fatto a infilarsi in un simile discorso di sua spontanea iniziativa: “Potete...”

“Posso pregare che Lorenzo Medici muoia anzitempo liberandosi dalla sua minaccia di prendersi mio fratello?” lo anticipò Bianca.

Non avrebbe voluto suonare così tagliente, ma era dai primi di febbraio che, complice forse il sole che sorgeva prima la mattina o la neve che aveva lasciato il posto a qualche rada pioggia dal sapore già primaverile, pensare al suo destino l'angosciava. Mai come in quel momento sentiva la vita battere nel suo petto e mai aveva avvertito così nitida e crudele la sensazione che tutto quanto le stesse scivolando via dalle mani per sempre.

Si era presa le sue libertà, anche quando viveva a Forlì. Conosceva se stessa e ormai sapeva cosa cercare in un uomo. Poteva accudire Giovannino e Cornelia, avendo il surrogato di ben due figli a cui badare. Aveva vissuto tanto, pur essendo una donna e così giovane. Eppure sapeva che in quei mesi, che sarebbero diventati poi anni, stava perdendo e avrebbe ancora perso tante cose. Aveva avuto la fortuna di avere una madre permissiva, con lei, che le aveva dato un'istruzione e la possibilità di fare le proprie scelte e i propri errori, ma tra le quattro mura di un convento di clausura, tutto quel vantaggio sulle sua coetanee stava andando perso.

“Perdonatemi.” disse, dopo che un silenzio di tomba era sceso tra lei e Fortunati: “Sono stata sgarbata.”

Giovannino fissava la sorella con insistenza, senza dire nulla, come se volesse convincerla a dedicarsi a lui solo grazie all'intensità delle sue pupille color pece. Il piovano prese quella scena come un consiglio: in fondo, quello che doveva dire, ormai l'aveva detto.

“Con permesso, Madonna Bianca.” fece l'uomo, alzandosi e facendo un sorriso stiracchiato: “Se me lo permettete, quando avrò delle notizie importanti, verrò a riferirvele di persona.”

“Ve lo permetto.” annuì la ragazza.

Francesco chinò un istante il capo e andò alla porta, ma, prima di andarsene, non si trattenne e le sussurrò, con un sorriso più difficile da interpretare di quello di circostanza di poco prima: “Avete la stessa fiamma, che vi brucia e vi consuma... Siete davvero simile a vostra madre. Molto più di quel che volete sia detto.”

Bianca non reagì in alcun modo, lasciandolo uscire. Rimasta sola, però, si incupì, mordendosi un labbro e distogliendo perfino l'attenzione da Giovannino.

Il piccolo, però, la richiamò subito all'ordine e le chiese: “Una storia? Bianca... Una storia!”

La passione che il bambino stava sviluppando per le storie, specie se cavalleresche e legate agli Sforza o alla loro madre, era così travolgente che ormai la Riario aveva quasi dato fondo al suo repertorio e si trovava a ripetergli per decine di volte sempre le stesse cose.

“Quale vuoi che ti racconti?” gli domandò, stringendolo a sé e portandolo fuori dalla stanza, in modo da poter restituire lo studiolo alla Superiora.

Il piccolo si perse per un istante negli occhi blu della sorella e poi rispose, risoluto: “Orsi!”

Bianca inclinò appena la testa di lato. La congiura degli Orsi era una delle storie che il fratello amava di più, e lei ogni volta gliela raccontava con la medesima intensità, per quanto fosse un episodio doloroso anche della sua vita.

“Mio padre Girolamo aveva contratto dei debiti con i fratelli Orsi e, quella sera, con la scusa di farsi restituire i loro denari, quegli uomini trovarono il modo di entrare a palazzo...” cominciò a raccontare la ragazza, mentre attraversavano il corridoio, diretti alla loro cella: “Trovarono Girolamo nella Stanza Delle Ninfe e gli si avventarono subito addosso con dei lunghi pugnali...”

Il bambino ascoltava rapito, forse non rendendosi conto che tutto ciò che usciva dalle labbra della sorella era il resoconto di un fatto realmente accaduto. A Bianca, però, non dava fastidio, anzi, in un certo senso, vedere quelle storie con gli occhi di un bambino la stava aiutando a ripensarvi con più distacco.

Anzi, quel giorno, ormai alla loro cella, quando arrivò a dire: “E sbattendogli il capo contro il davanzale della finestra più e più volte alla fine lo uccisero.” non avvertì nemmeno la solita stilettata di dolore nel petto, ma solo un brivido di stupore, identico a quello che aveva appena attraversato la piccola schiena di Giovannino.

 

Dorotea Malatesta assecondava, annoiata il traballare della carrozza. Fuori c'era buio, ma la ventitreenne, per quanto stanca, non aveva alcuna voglia di dormire.

A tenerla sveglia erano due cose, principalmente. Innanzi tutto la strada scelta era troppo pericolosa, secondo lei. Per andare da Urbino a Venezia avevano deciso di farla passare nel cuore della Romagna, dove imperversava la guerra e i pontifici stavano facendo scempio di qualunque donna incontrassero. In secondo luogo, c'era il pensiero che a Venezia l'avrebbe accolta suo marito, il napoletano Giovanni Battista Caracciolo, un vecchio scelto appositamente da Isabella, la Marchesa di Mantova, per punirla. Gli aveva trovato quello sposo solo per mortificarla, solo perché era stata corrosa dalla gelosia, convinta che Dorotea fosse vista da tutti, soprattutto da Francesco Gonzaga, come più bella di lei. Si erano così sposati a Urbino, l'anno prima, ma, per fortuna, avevano avuto modo di stare assieme raramente, dato che Giovanni Battista era stato subito chiamato da Doge per combattere a Gradara.

Lei era rimasta a Urbino, dopo la partenza del marito, ma ora lui, perentorio, la voleva con sé a Venezia. Le aveva inviato una scorta, qualche lettera di transito, e le aveva augurato un buon viaggio, quasi che lasciarla passare nelle terre occupate da Cesare Borja non gli facesse né caldo né freddo.

Nella carrozza con lei c'era la sua dama di compagnia che russava come un saccomanno, apparentemente per nulla spaventata dall'intera situazione.

Era la notte del 13 febbraio, ma per il freddo che c'era sembrava ancora dicembre. Ormai dovevano essere tra Porto Cesenatico e Cervia, ma l'oscurità che la circondava le impediva di trovare anche solo un punto di riferimento nel paesaggio.

Dorotea cercava di stringersi, di quando in quando, nel suo mantello da viaggio, ma non ne traeva gran giovamento.

Stava quasi per svegliare la sua amica, in modo da avere almeno qualcuno con cui parlare, quando la carrozza subì uno scossone così forte che per poco la Malatesta non scivolò giù dal sedile.

“Gli spagnoli!” gridò il capitano della scorta: “Gli spagnoli! Gli spag...” non terminò la frase e la Malatesta immaginò il perché.

Aprì lo sportello della carrozza, per vedere meglio che stesse accadendo e per capire se vi fosse un modo per far ripartire i cavalli, ma quando si accorse che le bestie erano già state uccise e così buona parte dei soldati che l'accompagnavano, sollevò le braccia e invocò pietà.

Anche la sua dama di compagnia, sveglia e in lacrime, fece altrettanto e così le due donne vennero subito catturate, legate e bendate e messe a dorso di cavallo come due trofei di caccia.

“Quanto sarà felice il Duca Valentino!” si vantò uno degli uomini che le avevano prese: “Oh, come sarà contento!”

 

Quando Giampaolo Baglioni aveva lasciato di nuovo la Romagna per addentrarsi in Umbria, aveva lasciato a Forlì e dintorni una situazione che non faticava a definire quasi comica. Michelotto, il tirapiedi del Borja, si comportava come se fosse un gran condottiero e orchestrava gli uomini rimasti al Valentino con lo stesso trasporto di chi può guidare un esercito di centomila uomini.

I risultati di tanto entusiasmo, però, erano pochi e poco esaltanti. Tanto per cominciare, il tentativo di prendere Porta Candiano e poi Porta Ponte erano falliti miseramente, e a battere i pontifici non erano stati tanto i faentini, quanto le piogge scroscianti che avevano scivolare e cadere le scale da assedio. La confusione che ne era derivata aveva portato in fretta alla cattura di alcuni borgiani e alla difesa pronta dei faentini.

Miguel de Corella allora era rientrato agli alloggiamenti, era stato a Imola mezza giornata convinto di trovarvi Cesare, e poi se n'era tornato, più confuso e spaesato di prima nel faentino.

L'unico merito che Giampaolo gli riconosceva era stato catturare e far impiccare undici schioppettieri nemici intenti a scortare degli uomini di Faenza al mulino di Torsellino, sulla via di Brisighella. Certo, se fosse dipeso dal Baglioni, prima di ucciderli avrebbe chiesto loro il perché di quel viaggio al mulino: Faenza stava forse finendo i viveri?

Michelotto, invece, si era accontentato di vedere i loro cadaveri penzolare al vento.

Era stato allora che Giampaolo aveva ottenuto una nuova licenza ed era partito. Gli si era subito unito Ercole Bentivoglio. Sugli appennini erano stati assaliti da Carlo Baglioni e Girolamo Della Penna che, chissà come, avevano saputo del loro viaggio e avevano cercato di impedire loro di tornare a Perugia.

Dopo aver respinto bene l'attacco, Giampaolo aveva riparato a Gualdo e da lì, con cento uomini di Ercole e un'ottantina di cavalleggeri di Bandino da Castel Della Pieve aveva assalito Foligno, trovando però le resistenze della città, che aveva murato subito le porte e aspettava la grazia pontificia.

A Foligno, in realtà, il Baglioni non poteva contare sulla presenza fisica di Ercole Bentivoglio, perché un fatto curioso, avvenuto a cena un paio di giorni prima, ne aveva distratto l'attenzione, portandolo a raggiungere a spron battuto a Fermo.

Per la precisione, gli era arrivata una lettera, mentre mangiava. L'aveva aperta, con una certa fretta, e poi, quasi strozzandosi con il vino, si era fatto cereo e aveva detto immediatamente che sarebbe partito all'istante per Fermo.

Giampaolo non aveva voluto spiegazioni, immaginando, dal suo nervosismo, che c'entrasse sua moglie Barbara Torelli. La gelosia che provava per lei, infatti, era l'unica molla capace di farlo scattare a quel modo.

Arrivato a Fermo, infatti, il Bentivoglio aveva subito cercato la donna, facendo dapprima finta di nulla, provando ad avvelenarla, e poi e l'aveva fatta arrestare, o almeno così dicevano. Era stata accusata di adulterio ed Ercole vi aveva creduto senza un attimo di esitazione.

Perfino il Baglioni, che pure sapeva di essere un fratello padrone per le sorelle, avvertì un moto di pietà per quella donna, conoscendo il Bentivoglio.

“Se esce viva da questa storia...” aveva iniziato a sentenziare Giampaolo, quando gli era stato raccontato il tutto, ma poi si era fermato, incapace di immaginare in che condizioni la povera Barbara Torelli avrebbe potuto sopravvivere alla prigionia voluta da un marito tanto crudele.

 

“Il secchio è da vuotare...” disse piano Caterina, quando vide la ciotola del pasto scivolare dentro la cella dal pertugio della porta.

Dall'altra parte non si sentì nulla, perciò la donna provò a ripetere la sua richiesta, alzando appena la voce, ma anche quella volta fu come se non avesse parlato.

Da quando il cerusico l'aveva curata, aveva avuto la febbre e le allucinazioni molto più di rado, il clima si stava facendo meno rigido, lasciandole immaginare che fuori stesse arrivando quasi la primavera, e, mangiando un po' meglio, sentiva anche di avere più forze. Tuttavia, non appena si toccava le gambe o si guardava le braccia, nella penombra imperscrutabile della sua gabbia, si rendeva conto di quanto fosse dimagrita.

Era sempre stata di costituzione robusta, riuscendo a supplire la tendeva a prendere peso con l'esercizio fisico costante, ma in quel momento rimpiangeva come non mai la sua antica stazza. Era quella che le aveva permesso di essere una guerriera temibile, e, probabilmente, una madre in grado di partorire otto figli senza perderne nemmeno uno alla nascita. Di certo, era anche stato ciò che le aveva permesso di sopravvivere per mesi mangiando così poco e così male. Si rendeva però conto che ormai le sue scorte stavano finendo.

“Il secchio...” provò una terza volta, cominciando intanto a mangiare quel che le era stato offerto.

Da tempo, ormai, non provava più alcuna diffidenza per il rancio. Se avessero voluto avvelenarla, si diceva, avevano avuto già un anno, più o meno, da che era caduta Forlì. E, d'altro canto, se l'avessero comunque fatto per qualche motivo, a lei non sarebbe più importato molto.

“Ho sentito!” sbraitò il carceriere, cominciando ad armeggiare con le chiavi, per poter aprire la porta: “E meno male che sei una prigioniera! Hai tante pretese come una regina!”

Caterina non ribatté, rimanendo nel suo angolo, con la ciotola – fredda – in mano. Un tempo non avrebbe saputo tenere a freno la lingua, e avrebbe risposto per le rime, ma Castel Sant'Angelo stava smussando la sua lingua così come stava assottigliando il suo profilo.

“Non oso pensare che pretenderà quel bambinetto viziato di Astorre Manfredi quando lo porteranno qui!” continuò, quasi da solo, il carceriere.

“Astorre Manfredi..?” chiese la Tigre, non riuscendo, questa volta, a tacere: “Faenza è caduta? Lui è stato preso?”

Una paura – abbastanza irrazionale, in realtà – di sapere che Astorre fosse nelle mani del Borja l'assalì con tanta violenza da farla tremare. Anche se sapeva che non era possibile che capitasse, si immaginava Bianca trascinata via a viva forza e portata da Firenze direttamente a Roma, a scontare la sua pena in quanto moglie, sulla carta, del signore di Faenza.

“Ma che ne vuoi sapere, tu...” borbottò l'uomo, prendendo il secchio con una smorfia e voltandole le spalle.

“Devi dirmelo!” gridò la Leonessa, non trattenendosi, e, prima che potesse ragionare, per fermare il carceriere, che stava uscendo dalla cella senza rispondere, lo afferrò per una spalla.

Quello reagì in modo istintivo, colpendola con un gomito e dandole poi una forte botta con il secchio, facendo schizzare il contenuto ovunque.

“Che schifo!” esclamò lui, nero di rabbia, gettando in terra il secchio ormai vuoto e battendo un piede in terra in segno di frustrazione: “Fosse per me ti avrei ammazzata il giorno che hai messo piede a Roma! Mi hai portato solo noie!”

La Sforza, caduta in terra dopo i colpi subiti, aveva il respiro affannoso, ma ancora non voleva demordere: “Dimmi di Faenza! Che sta succedendo in Romagna?!”

“Vai al diavolo, lurida meretrice...” sbuffò l'uomo, scrollandosi di dosso un po' del lerciume che l'aveva sporcato, e uscendo in fretta dalla cella, sbattendosi la porta alle spalle.

Caterina fissò, nel buio, il legno spesso che la separava dal resto del mondo. Le mani le tremavano ancora. Non aveva più cibo nella ciotola e il secchio rovesciato andava solo a peggiorare le condizioni igieniche, già drammatiche, in cui era costretta a vivere.

Per qualche minuto si chiese se davvero, nella sua condizione, avesse senso preoccuparsi tanto per le sorti di Imola e della Romagna in generale, per quelle di Astorre Manfredi e, anche se ormai si era resa conto che le sue paure in merito erano eccessive, di Bianca.

Poi, però, in un guizzo di orgoglio, sentì nel petto riaccendersi una piccola fiamma, mai sopita in realtà.

“Cosa significa essere uno Sforza?” le aveva chiesto una volta suo padre, mentre erano a caccia insieme, quando era piccola.

Non ricordava cosa avesse risposto, ma poteva quasi rivedere davanti a sé il viso di suo padre aprirsi in una mezza risata e la sua voce rispondere: “No, Caterina. Essere uno Sforza è qualcosa che non si può definire in due parole. Essere uno di noi è qualcosa che non ti abbandona mai, e quando sarai grande lo capirai.”

Era vero, finalmente lo capiva appieno anche lei. Non era qualcosa di definibile. Era come una fiamma che ardeva e non si spegneva mai e la portava a interrogarsi sulle sorti della guerra, di Faenza, dell'Italia intera proprio come se ancora potesse vedere la luce del sole e impugnare la spada per combattere dalla parte giusta.

Con un sospiro si avvicinò al muro, senza alzarsi. Appoggiò la schiena alla parete fredda e chiuse un attimo gli occhi. La fiamma c'era sempre, su quello non aveva dubbi. Però, esattamente come lei, quel fuoco era così stanco...

   
 
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