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Atlas’s Strength
-“Quanti minuti sono passati da quando è uscito
dall’ufficio?”
Seduto sul divano di pelle scura, a sorseggiare
una tazza di thé caldo, il corvino alzò lievemente lo sguardo verso l’orologio
appeso al muro.
Segnavano le cinque in punto.
Una volta, le aveva confessato che odiava il
ticchettio di quell’orologio quando capitava che si sentisse tesa e con il
fascio di nervi al limite della sopportazione, e più volte aveva avuto il forte
impulso di distruggerlo con le sue stesse mani.
Menomale che aveva avuto il pensiero di
smontarlo e cambiare qualche meccanismo dell’orologio, cosicché non facesse più
quel ticchettio costante e fastidioso.
-“Venti minuti contati.”
Seguì poi con lo sguardo la figura irrequieta
della sua amica, che non la smetteva di mordersi frequentemente il labbro
inferiore e a rigirarsi tra le mani il ciondolo dorato a forma di un occhio, donatagli
dalla sua amica demone Mujika, usandolo come antistress.
Le parve pure di sentirla sussurrare, di
sfuggita, fra sé e sé alternando varie frasi; alcune la facevano allarmare fino
sbattere più volte le ciglia e scuotere la testa contrariata per chissà cosa,
mentre le altre la facevano semplicemente serrare la mascella in una piccola
smorfia infastidita prendendo poi vari respiri profondi.
“E
se non dovesse tornare in tempo?”
“E
se lui non avesse alcuna intenzione di ascoltarmi?”
“E
se decidesse di cambiare strategia, nonostante avessimo stipulato un accordo?”
Per Ray, era insolito vederla in quello stato.
Emma non è mai stata una persona ansiosa o
paranoica, eppure era chiaro come il sole che, in quel momento, non riusciva ad
essere positiva come al suo solito.
Era lì, che con passi svelti camminava avanti
ed indietro dentro lo studio di Norman, le mani intrecciate come in segno di
preghiera e un’espressione pensierosa fino a farle corrugare la fronte.
La giovine era talmente in sovrappensiero e
concentrata a parlare tra se’ e se’ che non sentì la sua voce quando provò a
chiamarla.
Sospirò, seccato da quella strana situazione in
cui si era ritrovato involontariamente.
Imprecò mentalmente ad un certo migliore amico,
di lunga data, che pur di far avverare i desideri più folli della ragazza che
le piaceva, si sarebbe spezzato l’osso del collo pur di riuscirci.
Non lo diceva spesso, ma il corvino ha sempre
pensato che quando si trattava di proteggere la propria famiglia, certe volte, i
suoi amici davano di matto.
Senza preoccuparsi dei rischi o di qualche
imprevisto, Emma e Norman erano capaci di tutto per raggiungere il loro
obbiettivo, arrivando persino ad usare ogni mezzo possibile ed inimmaginabile.
In veste di fratello e migliore amico di
entrambi i ragazzi, lui doveva fare qualcosa.
Doveva agire.
Posando la tazza ormai vuota, si alzò con
decisione dal divano e arrivando proprio davanti alla sua interlocutrice, le
diede un bel pugno sopra la sua testa distraendola da pensieri poco piacevoli.
-“Hey, scema se non te ne fossi accorta, starei
cercando di parlarti.”
Sussultando per il colpo appena ricevuto alla
nuca, Emma si lasciò scappare un gemito di dolore fra le labbra, esclamando un
sonoro “ahia” massaggiandosi cauta sul capo, il suo punto più dolente.
Ovviamente, non prima di aver lanciato
un’occhiataccia ostile al corvino lamentandosi di quanto, certe volte, avesse
la mano pesante.
-“Mi hai fatto male, miseriaccia!
Ma che ti
salta in mente di colpirmi in quel modo!?”
-“Oh, domando perdono per avervi disturbata nel
vostro sonno di bellezza.
Ma non ho potuto fare a meno di notare, Vostra
Altezza, quanto sembravate buffa con quell’espressione da ebete.”
Di tutta risposta, lei ringhiò mostrando i
denti, piccoli ma bianchissimi, come per intimorirlo dal suo sguardo truce.
Serrò poi le iridi verdi al suo interlocutore,
chiaramente infastidita dal tono saccente e sarcastico.
Antipatico, pensò lei.
Saettando lo sguardo verso l’orologio appeso al
muro, proprio dietro di lei, girò lentamente la schiena fino a quando non ebbe
una visuale migliore nel suo campo visivo.
Si morse nuovamente il labbro inferiore.
Cinque e un quarto.
Sarebbe dovuto tornare indietro molte ore fa,
da loro due, ma non si era presentato all’appuntamento stabilito.
Non andava affatto bene.
Doveva ancora parlargli di cosa aveva scoperto
nella Foresta Promessa, prima di arrivare con Ray e gli altri ragazzi di Grace
Field e Goldy Pond alla base operativa “La Mascella del Leone”, grazie
all’aiuto di Jin e Hayato.
Doveva, assolutamente, persuadere l’albino a
non attuare il suo folle piano: un
genocidio di massa sia all’intera comunità dei Demoni, la Famiglia Reale e al
Clan Ratri, sebbene non nutrisse una buona simpatia per loro.
Voleva proteggere Mujika e Sonju a tutti i
costi, visto che a loro doveva tutto: li avevano salvati da morte certa da
altri mostri famelici, senza avere secondi fini, gli avevano insegnato le varie
tecniche di sopravvivenza ed a cacciare autonomamente e, cosa più importante, li
avevano trattati come dei veri esseri umani; stringendo così un insolito
legame.
La ragazza era talmente grata e riconoscente di
quell’amicizia che, finalmente, aveva trovato nuovamente la speranza di poter
andare avanti.
La speranza di poter vivere appieno il
“domani”, con la sua famiglia, senza paura.
Emma doveva lottare con tutte le sue forze, per
poter realizzare quel suo sogno impossibile conscia che, presto, avrebbe corso
vari rischi.
Pensò a Mujika.
Se lei, il Demone del Sangue Maledetto, poteva
forgiare la nuova Promessa alla Famiglia Reale e alla comunità stessa,
significava una sola cosa: libertà.
Se Mujika avrebbe guidato tutti i Demoni ad una
nuova “Era”, maggiori erano le possibilità di poter bandire, una volta per
tutte, l’allevamento dei bambini bestiame nelle Fattorie.
Niente più morti.
Niente più guerre.
Niente più sacrifici.
“Devo giocarmi il tutto per tutto.”
Ripensò alle parole del ragazzo albino quando,
nel cuore della notte e in stato di dormiveglia, era appoggiata sulla sua
spalla ignaro che potesse sentirla.
“Emma,
perdonami per quello che sto per fare…
Ma non voglio perderti, di nuovo.”
Prima di andarsene con Vincent a discutere
privatamente di altre questioni, le aveva promesso che avrebbero parlato meglio
del piano, visto quanto ci teneva la sua opinione e quella di Ray.
Eppure stava tardando a ritornare nel suo
studio.
Per quanto ancora avrebbe dovuto aspettare per
rivederlo?
Abbassò lievemente la testa, dirigendosi con
passi lenti e strascicanti fino al divano dove ci sedette sopra a peso morto,
sprofondando man mano nei cuscinetti di pelle.
Sospirò.
C’era un’altra faccenda che aveva lasciato in
sospeso e che non poteva in alcun modo ignorarla: doveva salvare il loro legame e la promessa di quel
lontano 21 Aprile di tre/quattro anni fa.
“Norman…”
Sapeva bene quanto male avessero causato quei
esseri malvagi alla loro famiglia, quante anime innocenti sono state strappate via
ai loro cari per poi essere spediti
nell’aldilà e quanti orrori avesse visto gli occhi di Norman al stabilimento
sperimentale Lambda 7214.
Eppure, non poteva assolutamente starsene con
le mani in mano e fingere di “non vedere” come stavano davvero i fatti.
Conosceva l’albino quanto il palmo della sua
mano e sapeva, perfettamente, che nascondere le sue emozioni per proteggere il
prossimo e farsi forza con le sue gambe, lo avrebbero portato a brutte
conseguenze.
Immaginava vari scenari in cui il ragazzo fosse
coinvolto ed erano uno più sconcertante dell’altro.
L’ipotesi peggiore era vederlo trascinato in un
baratro senza fondo: qualsiasi sua mossa, un passo falso o un solo movimento
incerto, lui sarebbe caduto giù.
Proprio lì.
Nelle viscere dell’abisso.
Le venne in mente un altro spiacevole scenario,
che la portò non solo a darsi i pizzichi alla pancia, ma anche a preoccuparsi
ulteriormente per la sua sorte.
Come il Titano Atlante, secondo alcuni miti
antichi, Norman stava sostenendo sulle spalle tutto il peso del mondo, facendo affidamento
sulle sue forze; tuttavia, lei sapeva bene che presto o tardi, quel macigno lo
avrebbe distrutto.
Letteralmente.
Certo, era un pensiero nobile e giusto voler
costruire un mondo migliore per poter vivere tutti, insieme, senza che
venissero etichettati come cibo o carne da macello; eppure, Emma non poteva
fare a meno di pensare che il ragazzo si stesse assumendo troppe
responsabilità, facendo così che il peso sulle sue spalle si aggravasse drasticamente.
Le iridi verdi persero poco a poco il loro
tipico luccichio, divenendo man mano sempre più scuri e tristi.
“Cosa ti sta succedendo, Norman?”
Non poté fare a meno di pensare quanto fosse
cresciuto fuori e, tristemente, quanto fosse cambiato dentro, in quei due/tre
anni.
Perché provare un astio così profondo e
viscerale per i Demoni, arrivando addirittura a programmare ed attuare varie
strategie di sterminio?
Perché riservare lo stesso trattamento anche
alle altre forme di vita che, per molto tempo, sono state innocue?
Perché arrivare a tanto?
Non riusciva a spiegarselo e più cercava di
capire le sue intenzioni, più il suo lato pacifista e genuino continuava a non
approvare le sue scelte.
Emma si sentiva non poco bene sapendo che,
nonostante si stesse comportando in maniera fredda e cinica, l’albino stesse soffrendo,
in silenzio, i suoi demoni interiori.
Le spezzava il cuore.
Aveva pianto per due/tre anni alla sua spedizione,
credendolo morto, e per via di quell’episodio la rossa rimaneva sveglia durante
la notte.
Più di un’occasione.
Quando si accertava di essere sola, in quei
momenti di puro sconforto, si lasciava andare in un pianto disperato e muto.
Tra se’ e se’ pensava: cosa sarebbe successo,
se le cose fossero andate diversamente?
Magari avesse avuto una macchina del tempo per
cancellare, per sempre, quel momento doloroso quanto opprimente.
Avrebbe smesso di darsi costantemente la colpa
per non averlo protetto abbastanza e di essersi lasciata sopraffare dalla sua
più grande debolezza.
Strinse i pugni.
Però, lei non era più debole quando era a Grace
Field.
No, Emma è diventata molto più forte di prima.
Ora sapeva che era vivo ed era riuscito a
scappare dalla sua prigione, questo significava una sola cosa: aveva ancora una
possibilità.
Aveva ancora un’occasione con Norman e, questa
volta, non avrebbe mai più commesso lo stesso errore.
“Sono forte abbastanza da potergli guardare le
spalle e, dora in avanti, lui non dovrà più avere il pensiero di proteggermi…
da chissà quale pericolo.
Non posso perderlo di nuovo…”
Era una promessa, sia a lui che a se stessa.
Sotto lo sguardo incredulo del corvino, si mise
a giocherellare con i fermagli per capelli che aveva tra le dita, sciogliendo
così l’intreccio intricato delle varie ciocche rosse.
Non lo faceva mai, se non quando c’era qualcosa
che la turbasse nel profondo della sua anima.
-“Che ti succede, Emma?”
Persa nei suoi pensieri, Emma intrecciò con le
dita sottili una ciocca fino a creare un arriccio, era in tensione come la
corda di un violino, quando la lasciò scivolare su di se’, le solleticò leggermente
il viso roseo e stanco e le ciglia scure.
I suoi capelli avevano avuto una ricrescita
spaventosa, a tal punto che erano lunghi abbastanza da poterli alzare in un
codino, non troppo alto visto quant’erano scalati, ma aveva modo di tenerli a bada.
Assomigliavano tanto alla criniera di un leone,
belli vaporosi quanto ribelli, ed era di un bel rosso fiammeggiante da avere
varie sfumature; rosso nelle radici, arancio sopra le ciocche e alle punte e
gialle tra i punti luce.
Pur di non guardare Ray faccia a faccia, le
iridi verdi guardavano di sottecchi le sue dita che intrecciavano invano la
ciocca rossa e fluente.
-“N-Non è niente, tranquillo.”
Gli rispose così, a bruciapelo, ma non smise di
torturarsi tra le dita sia i fermagli che le ciocche dei suoi capelli.
Sei poco credibile, pensò lei.
Percepì una leggera fitta all’orecchio
cicatrizzato, cercò di non darlo a vedere all’amico ma si tradì non appena
sentì un brivido proprio all’altezza dell’intero padiglione sinistro, segno che
la stava avvertendo del cambio di temperatura all’esterno.
Bofonchiò un “maledizione” a denti stretti,
stringendosi le nocche fino a sbiancarle, desiderando ardentemente che l’albino
piombasse all’instante nel suo ufficio, solo per poterlo vedere.
-“Non ti credo, sai?
È più che palese che c’è
qualcosa che non va.”
Non si accorse della presenza del corvino che,
con passi felpati, la raggiunse sul divano sedendosi poi con la schiena dritta
e poggiando le mani alle ginocchia, come se si stesse preparando
psicologicamente a una qualsiasi sua uscita “inaspettata”.
Le sue iridi cangianti osservavano silenti e
curiosi la figura minuta di Emma che, nel mentre, si massaggiava con i
polpastrelli il dorso della sua mano destra.
Le venne un brivido dietro la schiena.
-“Eh?”
Inclinò leggermente la testa, facendo oscillare
le ciocche che precedentemente nascondevano l’orecchio cicatrizzato, ora
esposte alla luce.
Le pizzicavano le ciglia e, una buona parte, il
viso; poteva sentire, anche se lieve, il profumo dello shampoo che aveva usato
qualche giorno fa.
Sapeva di fiori di campo.
Non provava fastidio ritrovarsi con i capelli
davanti la sua visuale, nemmeno della lunghezza, visto che alcune volte li
usava come una coperta; per proteggersi dai sbuffi di vento improvvisi e il
freddo secco di fine autunno.
Tuttavia, doveva trovare seriamente qualche
trucco per poter trattare meglio i suoi capelli, visto che non ci teneva sia a
sperimentare altre acconciature “poco” pratiche e farsi trattare da cavia per
le assurde idee di stile della cara Gilda.
Voleva un gran bene alla sua amica, ma certe
volte sapeva essere “troppo” esasperante in fatto di moda.
Sospirò nuovamente.
Ogni volta che si toccava la cicatrice, provava
un senso di disagio mostrare quella ferita deturpata, così, davanti a qualcuno;
ma in presenza di Ray, non aveva alcun timore, anche perché insieme ad Anna si
erano occupati di lei dopo la fuga dall’orfanotrofio.
-“Di che parli?”
-“Non fare la finta tonta con me.
È da quando siamo nello studio di Norman che
continui ad avere degli sbalzi d’umore repentini, in più ti metti a sospirare
con la vista annebbiata… mi fai venire i brividi.”
Lo guardò accigliata.
Delicato come sempre, eh Ray?
-“Non sei divertente.”
Il sorriso sardonico di Ray fece capolino fra
le labbra sottili non appena vide una smorfia infastidita deformando in maniera
infantile le labbra, la fronte e le sopraciglia della ragazza.
Aveva un’idea di cosa si stesse crucciando così
intensamente la sua amica d’infanzia.
-“Ma non stai negando la cosa, no?”
Di tutta risposta, la rossa sospirò.
Bingo, pensò lui.
Pur parlando vagamente, incespicando con le
parole e fermarsi nel bel mezzo del discorso per poi rabbuiarsi di colpo, le aveva
confermato una buona parte i suoi sospetti: Emma aveva un problema con le
cosiddette “questioni di cuore”.
All’inizio dubitava fortemente di quell’ipotesi,
visto che la vedeva poco interessata su quell’argomento, tuttavia il corvino dovette
ricredersi visti gli ultimi episodi successi al Rifugio.
Le poche volte in cui guardava la rossa di
sottecchi, aveva l’aria che stesse nascondendo qualcosa, cercando invano di
comportarsi normalmente davanti agli altri ragazzi con il sorriso.
Specialmente, in presenza di Norman.
La prima cosa che notò in lei fu il suo sguardo.
I suoi occhi verdi e brillanti guardavano
sempre intensamente, se non ammaliati, la figura slanciata dell’albino
accompagnato poi dal suo portamento elegante, l’espressione concentrata e
silente quando compilava alcune scartoffie d’ufficio e le iridi azzurre
saettare freneticamente da un documento all’altro.
S’incantava così facilmente che, spesso,
sembrava di stare tra le nuvole e quando Norman o lui stesso cercavano di farla
ritornare con i piedi per terra, un attimo prima sbiancava di colpo per lo
shock e, quello dopo, la sua pelle diventava un tutt’uno con i suoi capelli
rossi, incespicando con le parole.
Gli capitò di vederla da lontano mentre lo
spiava, di nascosto, mentre lavorava alla scrivania.
Alcune volte, sfruttava il suo tempo libero
davanti alla sua porta, senza farsi scoprire, indecisa se entrare o meno per
salutarlo.
Quando Emma guardava negli occhi il loro
migliore amico, lo faceva con la stessa intensità in cui l’altro vegliava,
silenzioso e discreto, quest’ultima da tempo immemore, come se dipendesse dalla
sua stessa vita.
Come se fosse caduta vittima di un sortilegio a
cui non poteva sottrarsi.
Pensò che fosse solo una mera coincidenza.
La seconda cosa che notò in lei furono i suoi
sbalzi d’umore, che lo fecero stare in stato di allerta.
C’erano giorni in cui, nonostante si mostrasse sempre energica e
positiva, la ragazza si sentisse particolarmente sensibile sognando chissà cosa
ad occhi aperti; poi, c’erano momenti in cui cadeva preda a varie crisi di
pianto isterico e, se Gilda e Anna non erano al suo fianco, non riusciva a
reggersi in piedi.
E quelli ancora, se la ragazza si svegliava con
l’umore sottoterra e non aveva alcuna intenzione d’iniziare una conversazione,
attaccava chiunque si trovasse nel suo raggio d’azione, senza fare nessuna
distinzione, mostrando un lato di se stessa da far lasciare a bocca aperta
tutti quanti.
Irascibile.
Intrattabile.
Erano pochi i momenti in cui lei si lasciasse
così tanto andare, addirittura a sputare varie imprecazioni colorite, ma era
davvero inusuale vedere la sua positività e il suo innato altruismo frantumarsi
in mille pezzi, con una facilità disarmante.
Chi l’avrebbe mai detto che, anche la sua amica
d’infanzia, potesse tirare fuori gli
artigli?
Ora che ci pensava, ultimamente la rossa aveva
un’aria decisamente tesa quando andavano a visitare Norman: era poco propensa a
parlargli del perché fosse così agitata e nervosa; più di una volta, liquidava
la questione con scuse strategiche, del tipo “non ho niente che non va, sarà
l’ansia da prestazione” oppure “è normale se, durante una missione, sono
nervosa”.
C’era stata un’occasione in cui Violet, Paula e
Gillian, avevano preso da parte la rossa per un cosiddetto “scambio di opinioni”
su alcune faccende personali, ma per Ray
si traduceva in una sola cosa: una “chiacchierata tra ragazze”.
All’inizio era un po’ sospettoso nei loro confronti, ma
finì nell’ignorarle completamente; pensando che forse le faceva bene stare con
le altre ragazze e, magari, allargare i suoi orizzonti.
Era una bella giornata di sole nel Paradiso dei
Bambini e non poté fare a meno di sorridere distrattamente per la pace che
regnava in quel luogo, lontano da occhi nemici.
Ricordava che lui era nel cortile, insieme a
Don e Nat, a vegliare da bravo fratello maggiore ai bambini che giocavano
fuori; mentre gli altri due ragazzi partecipavano attivamente alle loro attività,
Ray teneva d’occhio a Jemima, Chris, Yvette e Christie che giocavano a campana.
Sembrava tutto tranquillo, come quando vivevano
allegramente a Grace Field, ignari di tutto; come se intorno a loro governasse
una sorta di “calma piatta”.
Ma avvertì un campanello d’allarme non appena
sentì un urlo.
Era una voce femminile, a lui fin troppo
familiare, provenire dal lato Nord del cortile e come scattò sull’attenti, vide
da lontano il ciuffo rosso, sempre ribelle, di Emma.
Urlava qualcosa a quelle tre ragazze di Goldy
Pond, agitando la testa e le braccia in maniera scomposta, come posseduta da
chissà quale spirito.
Qui si mette male, pensò lui.
Non potendo leggere bene il suo labiale da
lontano, non aveva modo di comprendere cosa stesse dicendo, ma dato le sue urla
e il fatto che stesse andando letteralmente
in escandescenza, non era un buon segno.
Per niente.
Qualunque cosa avessero detto quelle ragazze ad
Emma, non solo avevano scombussolato negativamente i suoi sentimenti, ma
avevano inconsciamente innescato una bomba ad orologeria, pronta ad esplodere
in qualsiasi momento.
“Ho una sorta di déjà vu…”
Non capì come si accese quella che doveva
essere una “chiacchierata pacifica”, ma era certo che se non fossero
intervenuti Don, Nat e lui stesso a
dividerle, come minimo la rissa avrebbe preso una brutta piega.
Da un lato c’era Violet in ginocchio, che
prendeva fiato, ed era assistita dal moro mentre dall’altro, Paula e Nat
tenevano Gillian su una spalla; a parte qualche bernoccolo, non sembravano
messe male.
Peccato che non poteva dire lo stesso con le
altre due.
Emma aveva i capelli tutti arruffati, qualche
strappo tra i vestiti e un paio di lividi sul viso e alle braccia; aveva
giurato di aver intravisto una goccia di sangue fuoriuscire dal naso, ma i suoi
capelli coprivano una buona parte la sua faccia.
Violet, che si alzò lentamente da terra
ignorando l’aiuto di Don, aveva le stesse ferite che aveva la sua amica, con le
uniche eccezioni della presenza di qualche bernoccolo, un livido intorno
all’occhio destro e il plasma che colava copiosamente dal naso piccolo;
assottigliò le palpebre in due fessure e, nonostante provasse dolore, non smise
di guardare torva la sua avversaria.
Aveva l’intento di suonargliene, nuovamente, di
santa ragione ma con l’arrivo di Oliver e Hayato dovette fermarsi e venire
mandata in infermeria assieme a Gillian e Paula.
Dopo quell’episodio, le ragazze non avevano più
detto una parola.
Nemmeno una.
Persino Emma fece il voto del silenzio.
Ci vollero molte settimane più tardi a farle
convincere che, invece di azzuffarsi come cane e gatto, dovevano
riappacificarsi, decidere chi doveva fare il grande passo e suggellare,
finalmente, il tanto ed agognato patto di pace.
Non ebbe la possibilità di poter capire appieno
tutta la versione dei fatti da entrambe le parti, visto quanto ci tenevano a
mantenere il segreto; tuttavia, se ne dimenticò quasi subito non appena la
rossa le fece una confessione inaspettata.
Ammise, con il cuore aperto, che la sua più
grande debolezza era Norman e, con lui, ogni parte di se stesso: i suoi occhi
azzurri e brillanti, il suo sorriso morbido e caldo e il tepore delle sue mani.
Lui era sempre stato il suo punto debole, ma per
lei era anche la sua forza.
Quando era al suo fianco, si sentiva forte,
energica e determinata come non mai, ma nel momento in cui credette di aver
perso per sempre Norman, si sentì per la prima volta persa.
Debole.
Incapace.
“Ha
sempre nascosto le sue emozioni, per mostrarsi forte davanti ai miei occhi… e
darebbe tutto se stesso pur di proteggermi.
È
come se lui possedesse una maledizione, che lo porta a sostenere un peso
abnorme sulle sue spalle; pur rimanendo in piedi soprafatto dal dolore, lui
resiste… non perché può farcela, ma perché deve farlo.
Non
permetterò che Norman si sacrifichi nuovamente per il mio bene, e se sarà
necessario, sopporterò anch’io quel peso sulle spalle.
Lui…
Io non… è una cosa che non posso accettarlo!”
Possibile che avesse iniziato a capire di
provare qualcosa per lui?
I suoi occhi guardavano, per davvero, l’albino
oltre il “semplice affetto fraterno”?
Rimase stupito quando lo paragonò ad Atlante,
il Titano ribelle che, per punizione di Zeus il Re degli Dei, doveva scontare
la pena di sostenere il Cielo e la Terra con le sue braccia.
Pur conoscendolo da tanto tempo, era la prima
volta che vedeva Norman sotto un’altra prospettiva.
Guardò Emma dritto negli occhi, senza lasciar
trasparire nessun’emozione dalla sua espressione seria e composta.
Nonostante fosse convinto di quella teoria, il
corvino non aveva alcuna prova per dimostrarne la veridicità, complice il suo
silenzio riguardo quell’argomento.
Non aveva scelta se non di rischiare.
Ray doveva far “ruggire” nuovamente l’impavida
leonessa.
-“Non potresti capire… è abbastanza complicato
da spiegare.
Io… e-ecco, persino io faccio fatica a capir-”
-“Ti sbagli.
Ho capito tutto, ma era chiaro fin
dal principio.”
Chissà, pensò lui, magari sarebbe riuscito a
farle estorcere qualche informazione “interessante”.
-“Eh? Che vorresti dire?”
-“Noi tre abbiamo vissuto nell’orfanotrofio da
tantissimo tempo e, mentre cercavo di salvarvi la vita dalla mamma e da quei
mostri…
Ecco, mi rendo conto solo adesso, di non aver
calcolato l’eventualità che tu…”
-“Mhm?”
Lui rimase in silenzio giusto per qualche
minuto, guardando di sottecchi la rossa che aspettava, paziente, di poter
seguire il racconto senza intoppi.
Ebbe un flashback di loro tre da bambini che
leggevano di nascosto, nel cuore della notte, un libro di fiabe con solo una
lanterna consumata e una coperta a proteggerli dal buio e dal freddo.
Sebbene gli sfuggì di mente il titolo di quel
libro, ricordava perfettamente come Norman ed Emma pendevano dalle sue labbra,
desiderosi che lui continuasse a raccontare la storia e scoprire come il
cavaliere e il principe avevano unito le loro forze, grazie anche alla loro
solida amicizia, per poter spezzare il maleficio di uno stregone nel loro regno.
Costretti a vagare in eterno nel mondo dei
sogni, per aver distrutto una clessidra dai poteri straordinari in una rovina
antica, i due giovani non sarebbero mai più ritornati nel loro presente; e le
loro amate, la principessa di un altro regno e la sua dama di corte, che
avevano provato invano a salvarli, erano cadute vittime di un altro maleficio:
ogni volta che toccavano lo specchio dell’acqua durante un plenilunio, si
trasformavano in dei cigni, bianchi e candidi come la neve.
Nonostante non nutrisse un gran interesse per i
romanzi di fantasia, Ray aveva sempre provato una sorta di ammirazione nello
spirito combattivo e fiero del nobile cavaliere, ma anche della sua virilità e
umanità; tanto da ritrovarsi in lui in certi momenti.
-“Norman è proprio cresciuto in questi anni,
sembra il principe di quella fiaba che leggemmo insieme tempo fa… sai, quella
dove parlava della nobile amicizia tra lui e il cavaliere.”
Lei lo ascoltò mentre tentava di rifarsi la
treccia al lato dell’orecchio amputato, tuttavia non nascose la sua incertezza
davanti al suo interlocutore.
Perché aveva tirato fuori, proprio adesso, un
vecchio ricordo ai tempi di Grace Field?
Arcuò un sopraciglio dubbiosa.
-“Ad ogni modo, è perfettamente normale che tu
provi queste cose... anche se ne dubitavo.”
Sobbalzò sul posto, facendo cadere i fermagli
colorati che aveva precedentemente con se’ in un tintinnio sordo, sgranò gli
occhi sorpresa.
Una delle punte dei capelli più lunghi gli finì
tra le labbra, tremando debolmente, e il viso cominciò ad imporporarsi sempre
di più non appena si palesò l’immagine del sorriso candido dell’albino nella
sua mente; viaggiava ad una velocità
inimmaginabile che per un attimo temette di dimenticarsi come si respirasse.
Aveva il forte impulso di coprirsi la faccia
con entrambe le mani, cercando di nascondere il suo crescente rossore, ma si
bloccò non appena s’immaginò Norman indossare gli abiti del nobile principe
della fiaba; che per puro caso del destino, erano simili a quelli che aveva
indossato al giorno del suo undicesimo compleanno.
Dire che fosse rossa come un pomodoro era decisamente un eufemismo.
Era talmente occupata a sognare ad occhi aperti
da non notare il piccolo sorriso del corvino.
Ma guarda un po’ cos’ho scoperto oggi, pensò
lui.
Si era intenerito all’idea che Emma, la stessa
bambina sempre energica e piena di vita che tifava per il lieto fine dei due
protagonisti, stava affrontando la più grande battaglia della sua vita, non
considerando però la cotta che aveva per Norman.
“Ti ho sottovalutata, Emma.”
Ai suoi
occhi, la ragazza si era infatuata di un Icaro, non avendo la benché minima
idea di quanto era disposto a spezzarsi l’osso del collo solo per lei.
Eppure
vedeva la forza virile e la tristezza malinconica di Atlante, condannato a
soffrire in silenzio a sopportare tutto il peso del mondo.
Da solo.
Era proprio vero che, quando si è innamorati,
le persone possono fare cose pazze.
Gli venne in mente le parole di Norman, o come
chiamava lui, Icaro il Folle.
“Sarà
anche la mia debolezza, ma Emma rappresenta la mia forza.”
Si fece forza con le ginocchia e alzandosi dal
divano, prima scostò dolcemente i suoi capelli rossi da bravo fratello maggiore
qual’era, fino a quando non li scombinò energicamente.
Quest’ultima si riprese, quasi subito, dal suo
stato di trance e accigliata, tentò di tenerlo fermo; anche se con scarso
successo, visto quanto fosse diventato forte.
-“H-Hey, ma insomma, Ray!
Così mi fai male,
maledizione!”
Ridacchiò divertito quando cercò di sistemarsi
i capelli in maniera presentabile, anche se non poteva domare al meglio la sua
chioma arruffata e vaporosa.
La rossa inarcò le sopraciglia, ancora più
confusa di prima.
-“Allora, cosa farai con il principe Atlante?
Userai un approccio diretto come solo tu sai fare o hai in serbo una
strategia?”
-“M-Ma di cosa stai parlando!?
Cosa centra
Siegfried con Norman?”
Lei si affrettò a raccogliere con fretta e
furia i suoi fermagli per poi stringerli, arrossendo vistosamente alle gote
andando fino all’orecchio sano.
Presa da un attacco di nervosismo, scattò in
piedi sferrando un paio di pugni al diretto interessato, solo che il corvino le
tenne la testa con una mano; così che
lei colpisse semplicemente l’aria.
Come sentì le sue grasse risate echeggiare per
tutto lo studio, avvampò nuovamente sentendo già il sangue andargli alla testa.
-“RAY, SE FAI ANCORA LO STRONZO GIURO CHE TI
PRENDO A CALCI!”
-“Ohhh, la piccola leonessa sta spalancando le
sue fauci perché ho nominato il suo adorato
principe azzurro.”
Di tutta risposta lei digrignò i denti, più che
furiosa, assottigliando le iridi verdi in due fessure, proprio come quelli di
un felino.
-“Lo sai che così potrei prenderti in giro fino
alla morte, vero?”
Proprio in
quel preciso istante, la porta dello studio si aprì rivelando la figura
slanciata di Norman che, spingendo con la schiena all’indietro, entrò dentro
chiudendola poi alle sue spalle.
I due
ragazzi erano talmente concentrati ad azzuffarsi come gatto e topo da non
notare la sua presenza.
-“Scusate
il ritardo, ragazzi. Vincent m-”
-“ORA TI
PRENDO!”
-“Uhhh, sto
tremando di paura.”
Chissà quando potrò farlo correggere ulteriormente dalla mia Beta-
Considerate l'aggiornamento della raccolta Noremma come regalo di
Natale e se ce la farò mai ad aggiornare anche più
avanti, tipo prima della fine dell'anno, dipenderà dalla mia
velocità(?)
Non ho molto da dirvi visto che sono pochi i lettori a seguire la
raccolta, perciò ritorno a spaccarmi la schiena come mio
solito... se vi è piaciuto e volete esprimere la vostra gioia,
per favore lasciate un commento, anche una critica costruttiva.
(Purchè sia costruita bene)
Intanto, vi auguro buona lettura e, in anticipo, Buon Natale!
Con affetto,
Artemìs