Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    23/12/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Agostino Barbarigo respirava lentamente, cercando di non farsi scappare la pazienza. Il marzo, a Venezia, si stava dimostrando clemente, ma non bastava certo un cielo terso e una temperatura gradevole per permettere al Doge di stare tranquillo.

I turchi si stavano dimostrando più difficili da combattere del previsto e, anche tra gli alleati, la situazione era tutt'altro che semplice.

Per questo aveva deciso di incontrare Bartolomeo d'Alviano un'ultima volta, per convincerlo, finalmente, ad appoggiarlo nel trevigiano. L'uomo era stato puntuale, arrivando al palazzo di Barbarigo all'ora pattuita, ma, come sempre, a quel rigore militaresco, era seguita una freddezza altrettanto militaresca, molto diversa dai modi molli come qualcuno li definiva a cui Agostino era avvezzo, lì a Venezia.

“Se il problema sono i cento uomini che volete in più – disse il Doge, stringendo gli occhietti verso il suo interlocutore, che si era chiuso nel suo classico ottuso silenzio – allora ve li darò. A questo punto, però, esigo che dopo i due anni di condotta ne segua uno di rispetto e che, al momento della firma, voi partiate subito per il trevigiano.”

Bartolomeo lo fissò per un lungo istante. Nel salone in cui il Doge l'aveva ricevuto, faceva quasi caldo. Le decorazioni, per lui eccessive, brillavano alla luce del sole che filtrava dalle ampie finestre. Tutto, in quel luogo, faceva venir voglia all'Alviano di andarsene. Eppure c'era qualcosa che lo rendeva riluttante a partire.

“Vi salderò le prime due paghe.” fece Agostino, cercando di interpretare come meglio poteva lo sguardo asimmetrico e burbero del condottiero: “Basta che partiate subito a difendere il trevigiano, perché i turchi stanno avanzando troppo facilmente.”

Finalmente Bartolomeo capì cosa lo rendeva così incerto sul da farsi. L'uomo che aveva davanti era vecchio. Aveva passato gli ottant'anni, ormai. Malgrado i suoi modi ancora energici e la sua mente brillante, la natura stava consumando il suo corpo come faceva con chiunque altro. Poteva, un uomo con tanta vita vissuta alle spalle, e così poco futuro davanti a sé, essere un finanziatore affidabile?

“Dite qualcosa, Bartolomeo!” sbottò a un certo punto Barbarigo, stanco di vedere il brutto viso del condottiero contratto in un'espressione pensierosa, senza capire cosa pensasse.

La febbre – in nessun altro modo l'Alviano avrebbe saputo chiamare il luccicore che vedeva nello sguardo del Doge – che aveva preso Agostino gli ricordò ancor di più la caducità della vita umana, e l'ineluttabile verità che si ostinava a non vedere: se fosse morto in battaglia, a chi sarebbe importato se Venezia avesse o meno saldato il suo debito? Aveva una moglie, era vero, ma per lui restava una mezza estranea, che, per altro, non vedeva da mesi. Aveva anche un figlio, ma aveva provveduto da tempo a metterlo al sicuro da un mondo che non era fatto per anime fragili come la sua. Oltre ai mercenari, che comunque erano sempre capaci di ricavare il proprio utile dai saccheggi, chi altro avrebbe ricevuto un danno, se lui non fosse stato pagato?

“Accetto.” disse l'Alviano, non appena capì che la risposta alla sua domanda interiore era 'nessuno'.

“Bene. Bene!” esclamò Barbarigo, ritrovando il sorriso e stringendo con le mani nodose l'avambraccio del guerriero: “Vi farò versare le due paghe promesse già oggi, se partirete entro domani.”

“Farò così.” assicurò Bartolomeo, riuscendo, con le sue risposte brevi e secche, a non inciampare nella sua lingua ferita e scoordinata.

“Bene. Se non c'è altro di cui dobbiamo discutere, per ora potete ritenervi libero.” concluse Agostino, sforzandosi di aprirsi in un sorriso che sembrasse disteso e sincero.

L'Alviano ricambiò con un breve cenno del capo e, indietreggiando un po', prima di dare le spalle al Doge, lasciò il salone, passando svelto sotto lo sguardo delle due guardie che presiedevano la porta.

Rimasto da solo, Barbarigo andò alle finestre. La sua attenzione era tutta per il cielo azzurro, mentre Venezia, un panorama che aveva imparato, negli anni, a conoscere e amare con qualsiasi tempo, in quel momento non lo interessava.

Sperava che ricominciasse presto il bel tempo, non solo per rendere più agevole la guerra contro i turchi, ma anche e soprattutto per alleviare i suoi dolori articolari, che si facevano insopportabili, in inverno e nelle giornate uggiose.

Lasciandosi trascinare dai pensieri, il Doge si trovò a ragionare su quello che stava accadendo in Romagna. Vitellozzo Vitelli si era fatto arrogante e aveva attaccato le terre vicino a Russi, forse dimenticandosi che si trattava di zone sotto il diretto controllo di Venezia. Agostino aveva subito reagito impedendo al condottiero di ottenere le armi che aveva ordinato a Brescia, e così il Vitelli si era fatto furbo. Quando i suoi avevano fatto una breve razzia nel ravennate – altra zona protetta dalla Serenissima – aveva subito fatto impiccare davanti a tutti due soldati, inviandone altri al podestà di Ravenna, affinché facesse giustizia come meglio credeva. A quel punto Barbarigo aveva dato il nulla osta per la consegna delle armi, e Vitellozzo aveva ricevuto il suo ordine da Brescia.

Cesare Borja, invece, si stava dimostrando molto più sprezzante dell'alleanza con Venezia. Le ultima notizie certe che il Doge aveva di lui lo davano favorevole a una serie di scorrerie portate avanti da Dionigi Naldi nel castrocarese, motivate, probabilmente, più da ragioni personali del mercenario che da convenienze belliche. E per il resto...

“Messer Caracciolo.” annunciò una delle guardie.

Agostino si era completamente dimenticato di aver concesso un'udienza al marito della rapita Dorotea Malatesta, ma non poteva certo sottrarsi. Quell'incidente era già costato soldi e tempo alla Serenissima, e non era il caso di esasperare oltre la cosa.

Ricordava ancora il giorno in cui era arrivata a palazzo la missiva urgente di Vittorio Dolfin, podestà di Cervia, che avvisava di quanto accaduto, portando anche le testimonianze di alcuni contadini che avevano dato alloggio alla povera donna e ai suoi rapitori nei giorni immediatamente successivi al rapimento. Ovviamente, in altre situazioni, essendo la Malatesta sotto la protezione veneziana, la reazione di Barbarigo sarebbe stata ferrea, ma dato che appariva chiaro che il colpevole fosse Cesare Borja, non gli era parso il caso di calcare la mano.

“Di cosa volevate parlarmi?” chiese il Doge, quando si trovò davanti il trafelato Giovanni Battista.

“Io voglio giustizia.” rispose lui, con gli occhi sgranati e venati di sangue, segno di una lunga notte passata insonne a rimuginare: “La voglio adesso! Se non farete in modo che mia moglie torni da me..!”

“Avete sentito come si è espresso il Consiglio, ieri.” gli ricordò Agostino, scuotendo piano il capo e accarezzandosi la lunga barba bianca: “Vi è stato vietato di portare a compimento rappresaglie private. E poi abbiamo già mandato il legato pontificio e quello francese, assieme al mio segretario, Alvise Manenti, al Duca di Valentinois, affinché lo facciano ragionare...”

“Ragionare, ragionare..!” sbottò il Caracciolo, prendendo la berretta che portava in tenta e cominciando a stropicciarla con le mani, per gestire il nervosismo: “Fatemela riportare e io l'ammazzo qui dove mi trovo! Quella svergognata! Più tempo passa con quell'uomo, più il mio onore va in frantumi!”

Il Doge lo fissò per un lungo istante. Aveva sospettato fin da principio che quell'uomo desiderasse riavere la moglie – di trent'anni più giovane – solo per poterla punire per una colpa non sua. Eppure sentirglielo ammettere così francamente lo scuoteva.

“Dovete tenere la testa più salda, amico mio.” disse, con una certa durezza, Agostino.

Giovanni Battista lo guardò, accigliandosi: “Parlate così perché, con tutto il rispetto, non siete voi a cui è stata tolta una sposa. Non ho nemmeno avuto modo di averla nel mio letto, da quando ci siamo sposati, e ora quel... Quel... Quel maledetto figlio di papa sta mangiando da un piatto che non è suo!”

“Aspettate a trarre conclusioni...” tagliò corto Barbarigo, che pure era convinto, esattamente come il Caracciolo, che il Borja, o chiunque altro fosse il vero colpevole, l'avesse rapita per un solo scopo: “Siate paziente e lasciate fare a noi. In un modo o nell'altro, avrete giustizia.”

Fumante, ma più calmo, Giovanni Battista chinò un po' il capo e poi, dopo aver borbottato qualcosa tra sé, sbuffò: “Se è questo che volete...”

“Tornate al vostro alloggio e riposate: la mancanza di sonno toglie lucidità.” gli consigliò il Doge.

Caracciolo gli diede ragione e poi, mansueto come non mai, si scusò più volte e se ne andò.

Agostino sospirò in modo pesante, quando lo vide andare via, e si chiese come sarebbe finita quella storia. A lui non interessava assolutamente nulla di Dorotea Malatesta, benché fosse pure la sorellastra di Pandolfo Malatesta, altra spina nel fianco della Serenissima. Però sapeva che da quel rapimento potevano nascere incidenti e fraintesi con il papa, e non era una cosa di cui essere lieti.

“Ho bisogno di riposo.” lasciò detto a una delle guardie, camminando lento, i suoi oltre ottanta anni che pesavano sulle ginocchia come macigni: “Cercatemi solo se davvero necessario...”

 

Cesare guardava di sottinsù Alvisa Manenti, segretario del Doge, quasi curioso di vedere fin dove si sarebbe spinto con le sue accuse. Di quando in quando lanciava un'occhiataccia anche all'ambasciatore francese e a quello pontificio, anche loro giunti a spron battuto dalla Serenissima per quel colloquio, ma loro, a differenza del veneziano, avevano almeno la buona creanza di tenere gli occhi bassi, in segno di vergogna per tutto quel trambusto.

“Dunque – concluse Manenti, senza dar cenno di trovarsi in difficoltà, nell'accusare così platealmente il Valentino di un rapimento – quale che sia il motivo per cui l'avete fatta catturare, il mio consiglio è quello di renderla subito al suo legittimo consorte, in modo che tutti possano dimenticare il prima possibile questo incidente.”

Il figlio del papa che per tutto il tempo era stato seduto su una delle ottomane dall'imbottitura ricamata del salotto di casa Numai, si alzò di scatto, allacciandosi le mani dietro la schiena.

Era stanco, aveva anche avuto un po' di febbre, e i segni della lue che gli deturpavano il viso in quei giorni erano tornati a farsi fastidiosi, tanto che, quel giorno, aveva ricevuto i suoi ospiti coprendosi il volto con la sua maschera di seta nera.

Era nervoso per colpa di Michelotto, che aveva dato vita a qualche inutile scaramuccia nel contado di Faenza, facendo solo perdere qualche uomo e un po' di tempo, e risentiva ancora dell'ansia provata nel sapere l'alleanza con i Baglioni in forse. Anche se ormai aveva saputo che Foligno, che aveva richiesto l'aiuto del papa, grazie al Cardinale Giacomo Serra, si era riappacificata con Giampaolo che la voleva conquistare, lo metteva a disagio pensare che il perugino avesse potuto credere di mettersi contro una città protetta dal Vaticano senza averne conseguenze.

In tutta quella confusione, sentirsi sotto interrogatorio per colpa di una donna da nulla come Dorotea Malatesta, lo faceva davvero imbestialire.

“Dunque, voi, non paghi di non avermi trovato nel cesenate, siete venuti di corsa a cercarmi fino qui a Forlì – disse il Borja, sollevando un sopracciglio in modo plateale, come a sottolineare l'assurdità del comportamento di Alvise e dei suoi compari – per dirmi di restituire una donna di cui non ricordo nemmeno il nome?”

“Non siate sciocco...” provò a riprenderlo Manenti: “Sapete benissimo chi è Dorotea Malatesta...”

Le labbra di Cesare parvero raggelarsi. La linea del suo mento si era fatta improvvisamente dura e i suoi occhi sembravano due pietre.

“Avete ragione.” disse, a voce bassa, mentre l'ambasciatore francese e quello pontificio si facevano piccoli piccoli, quasi volessero sparire: “So benissimo chi è, la donna di cui parlate. E so anche che è sposata e che spetterebbe a suo marito curarsi della sua incolumità, e non certo al Doge di Venezia.”

“Vi prego, non peggiorate le tensioni che già si stanno creando con la Serenissima...” intervenne, cauto, l'ambasciatore francese: “Sapete quanto siano fragili, gli equilibri, ora che anche Faenza...”

Che anche Faenza cosa?!” esplose il Duca, irritato da quell'allusione alla difficoltà che stava avendo nel conquistare l'ultimo baluardo dei Manfredi.

“Non è un mistero che stiate facendo fatica a battere quel ragazzino di Astorre Manfredi.” prese la parola Manenti, tenendo la sua espressione neutra: “Così come avete fatto fatica ad aver ragione di una donna, lo scorso anno...”

“Se siete davvero qui per quella poveraccia di Dorotea Malatesta, e non per trarre facili conclusioni sulle mie capacità militari – fece il Duca di Valentinois, ben deciso a chiudere il prima possibile il discorso – vi consiglio di rivolgervi a Diego Ramirez, un Capitano del mio esercito, è lui il colpevole di questa nefandezza.”

I tre uomini si guardarono l'un l'altro per un po', stupefatti da quella rivelazione, finché l'ambasciatore pontificio chiese: “Dove possiamo trovarlo?”

Cesare sollevò l'angolo della bocca: “Non ne ho idea. È sparito dal campo invernali qualche giorno fa e non l'abbiamo più visto.”

“Ma...” prese a dire Alvise.

“Se quello che ho sentito dire è vero – suggerì Cesare, supponente – quella donna si vende per due soldi. Ramirez l'ha pretesa, lei c'è caduta e la cosa è finita male...”

“State dicendo che è morta?” il tono, spento, del legato pontificio suscitò un sorriso ironico nel Borja.

“L'avete detto voi, non io.” concluse l'uomo, alzando le braccia: “E ora levatevi di torno. Mi accusate di andare a rilento nella conquista di Faenza, e poi mi fate perdere tempo con questi pettegolezzi da cortigiane...”

I tre inviati del Doge parlottarono per un po' tra di loro poi, risolvendo che per il momento non era il caso di importunare ulteriormente il figlio di Alessandro VI, si scusarono e se ne andarono.

Cesare si mise alla finestra di palazzo Numai, aprendo appena il vetro, giusto per essere sicuro di vederli andare via. Anche in strada li scorse mentre discutevano, più animatamente di quanto avessero fatto in casa, ma alla fine sembrarono trovare un accordo, e si calmarono, allontanandosi una volta per tutte.

Il Duca non represse un sospiro di sollievo. Si tolse la maschera che occultava gli sfregi del suo volto, e si chiese che ore fossero. Cominciava a far scuro, ma in quegli ultimissimi giorni di marzo le giornate si erano allungate molto.

Con uno sbadiglio, sperando che la cena venisse servita il prima possibile, lasciò il salotto e andò verso la sua stanza. Se n'era scelto una non molto grande, vicina a quelle dei padroni di casa, più per una questione di sicurezza, che non di scortesia verso di loro. Non gli importava che lo sentissero, quando la notte faceva tardi stando in compagnia, così come non gli sarebbe importato sentire i Numai discutere o ritirarsi assieme per la notte. A lui interessava solo stare in un punto del palazzo che sarebbe stato protetto da tutti in caso di pericolo imminente.

“Ah, Michelotto...” disse, quando vide il suo amico ritto davanti alla porta della stanza, dove gli aveva chiesto di far la guardia fino al suo ritorno, per far sì che nessuno vi entrasse: “Non mi hai poi detto nulla della peste a Firenze...”

“Dicono che a inizio mese abbia fatto qualche vittima.” rispose il Corella: “Ma sembra che non sia uscita dalla città, e forse non era nemmeno peste, ma altre febbri.”

“Meglio così.” sbuffò il Borja, che non avrebbe sopportato di vedere la propria campagna militare guastata anche da un'epidemia di morbo.

Congedando Miguel – che se ne andò di malincuore – con un cenno del capo, l'uomo aprì la porta della sua camera e la ispezionò per qualche istante, come a valutare se tutto fosse in ordine. Era una bella sistemazione, elegante e accogliente. In tutta onestà, in quel momento il Valentino si stava chiedendo come avesse fatto Caterina Sforza, figlia e nipote di Duchi, vivere per anni in una rocca militare, quando avrebbe potuto avere un palazzo bello e comodo come quello.

Sospirando e scuotendo da solo il capo, il giovane si avvicinò al letto, dedicando, finalmente, la sua attenzione al ninnolo più prezioso di tutto l'arredamento, o, almeno, a lui piaceva considerarla così.

Dorotea Malatesta, nuda e sorridente, se ne stava in mezzo al materasso, le lenzuola a coprirle a malapena le gambe, e lo sguardo acceso da un'espressione insinuante e maliziosa che ormai il Borja conosceva bene.

“Sai che ti credono morta, adesso?” le sussurrò Cesare, sedendosi accanto a lei sul letto.

“Non mi dire...” fu la sola risposta di Dorotea.

“Della tua dama di compagnia non hanno fatto nemmeno cenno...” ridacchiò lui: “Non sei l'unica, a cui non importa niente di quella...”

Il sorriso della Malatesta ebbe un solo, impercettibile fremito. Il Valentino non se ne accorse nemmeno, ma lei, temendo che quell'esitazione potesse farlo adirare, passò subito all'attacco, accarezzandogli la guancia, ruvida per le cicatrici e per la barba che cresceva ormai a chiazze, e lo baciò.

“A me interessa solo quello che il signor Duca vuole...” gli bisbigliò nell'orecchio, mentre lui cominciava a indagare il suo corpo con una mano.

“Ed è bene così...” convenne il Borja, lasciando i modi tranquilli che aveva adottato fino a quel momento e imponendosi subito su di lei, ancora vestito, con tanto di stivali ai piedi.

La Malatesta, che non poteva dire di non essere lusingata dall'interesse di Cesare e travolta dalla sua passionalità, non lo intralciò. Come aveva fatto, anzi, fin dal giorno del suo rapimento, lo assecondò, anzi, lo spogliò di sua iniziativa, lo accolse tra le sue braccia, stringendogli le cosce attorno ai fianchi, sussurrando il suo nome di continuo, quasi fosse una preghiera, baciandolo, adorandolo e ringraziando il giorno in cui quel mascalzone del figlio del papa aveva deciso di strapparla a suo marito Giovanni Battista Caracciolo e alla sua vita da carcerata.

Prima era una nobildonna prigioniera, mentre adesso si sentiva una schiava libera, e non c'era mai stata, per lei, una sensazione migliore di quella.

 

“Madonna Sforza..? Madonna Sforza?” quella voce non ricordava nulla a Caterina, e le sembrava strano che un tono tanto pacato uscisse dalle labbra distorte in un ghigno da demonio che si trovava davanti.

Convulsamente allungò le braccia, quasi per rendersi conto se il Cesare Borja che vedeva davanti a sé esistesse davvero o meno. Quando provò a farlo, però, si rese conto di essere ancora legata al letto, quel letto che l'aveva vista prigioniera subito dopo la sua caduta, lo stesso, forse, le suggeriva la sua mente confusa, che l'aveva vista bambina vittima del mostro che era diventato suo marito...

“Madonna Sforza..! Vi prego...” continuò la voce, e finalmente la donna capì che non poteva, non poteva in alcun modo essere quella del Valentino.

Provò a parlare, mosse le gambe, per scalciare, finché sentì qualcuno afferrarle con forza le spalle, per tenerla ferma.

“Vi prego, riprendetevi!” era frate Lauro, quello che stava parlando, la Tigre ora intravedeva il suo volto, antipatico, ma familiare, nel buio.

“Che è successo..?” la donna si rese conto immediatamente che la sua voce suonava roca e impastata, ma più provava a sciogliersi, più si accorgeva di quanto la sua gola fosse secca e la sua lingua impaniata.

“Nella concitazione delle vostre allucinazioni, avete dato un morso al cerusico che è venuto a curarvi...” spiegò Bossi, con tono pratico, usando addirittura un'inflessione che alla Leonessa parve gioviale: “E così, siccome il papa non vuole che stacchiate un dito a uno dei suoi stipendiati, hanno chiesto a me di farvi mangiare e bere un po' d'acqua.”

Caterina sbatté qualche volta le palpebre, e poi, quando iniziò ad abituarsi al buio, chiese: “Che giorno è?”

Il frate fece una mezza risata sommessa: “Se lo chiedete a me, cadete male. Sto a una cella da voi, mica alla corte di Sua Santità... Il giorno e la notte sono un tutt'uno, in quel buco...”

L'uomo le stava avvicinando qualcosa alle labbra, e così la Tigre, senza farsi domande, lo lasciò fare e bevve qualche sorso di quello che scoprì essere latte e miele, caldo, per giunta. Doveva essere conciata davvero male, se il papa aveva concesso che le venisse servita una simile prelibatezza.

“Non vogliono che io muoia...” constatò lei, assaporando il sapore dolce che le inondava la bocca e le scaldava il petto.

“No, non lo vogliono.” confermò, con una serietà inedita, per lui, il frate: “Bevete ancora un po'...”

La Sforza eseguì l'ordine e poi, risvegliandosi sempre di più, man mano che il miele iniziava a riaccenderle il cervello, sentì un altro sapore, un po' amaro, mescolato a quello del nettare che Bossi le portava di continuo alle labbra.

“Mi stanno ancora sfebbrando... Non vogliono solo che sia viva, ma anche in salute...” fece lei, deglutendo.

“Relativa salute, mia signora.” dovette precisare Lauro, rendendosi conto, nel sorreggerla, di quanto la Leonessa fosse deperita in quei mesi: “Tuttavia... Inizia a fare più caldo, non trovate? Io credo che la primavera sia ormai alle porte...”

Caterina non voleva illudersi, ma unendo tutti gli elementi, cominciò a chiedersi se per caso lei, presto, sarebbe tornata a interessare, per qualche fine bellico o politico, a qualcuno. In tal caso, tornava a essere una merce di scambio e forse...

“Se dovessero vendervi – sussurrò Bossi, avvicinando le labbra al suo orecchio, in modo che i carcerieri non sentissero – ricordatevi di chiedere che un confessore vi segua fuori da qui...”

“Lo farò.” assicurò lei e poi, dato che ormai il latte era finito, aggiunse, a voce più alta: “Tornerete domani a confessarmi?”

“Se Dio lo vorrà!” esclamò l'uomo, aprendosi in un sorriso.

Solo in quel momento la donna intravide, nella penombra, il labbro gonfio del frate e un piccolo rivolo di sangue che da lì scendeva verso la gola.

“Vi hanno picchiato?” chiese, in apprensione.

L'uomo scosse il capo e rise: “Non loro.”

La Leonessa comprese e si scusò: “Non era lucida. Io non...”

“Non importa.” concluse lui, raddrizzandosi e mostrando la tazza vuota al carceriere, prima di voltarsi e congedarsi dicendo: “Ce l'avevate con un certo Marcobelli. Ho schivato due colpi, ma alla fine mi avete preso, una volta. Ma preferisco un pugno a un morso! Povero cerusico...”

Sorprendendosi del fatto che il frate potesse ancora ridere con tanto gusto, Caterina sospirò e chiuse gli occhi, mentre la porta della sua cella tornava a chiudersi con un suono cupo e sordo.

 

Era il Sabato Santo, e in quel 10 aprile il sole brillava su Faenza quasi come un monito, quasi a voler indicare ai pontifici il punto esatto verso cui dirigere le truppe.

Da troppe settimane, ormai, il Valentino aveva lasciato relativamente in pace la città, e tutti, Astorre e il fratellastro Giovanni Evangelista, erano certi che quella calma apparente non sarebbe durata ancora a lungo.

Quel giorno, che avrebbe dovuto essere di festa, si trasformò per spontanea iniziativa della popolazione, in un giorno di assemblea. Fin dal primo mattino, la maggior parte dei faentini – tra cui moltissime donne – si ritrovarono nella nuova cattedrale, ossia il Duomo che era stato costruito a partire dal 1474.

Le discordie e le diverse vedute rallentavano i lavori, ma tutti, nessuno escluso, erano interessati a trovare un punto di contatto. La sera scese trovando i faentini più compatti che mai, quasi tranquilli e rafforzati dalla loro stessa coesione.

L'unico che dormì male fu Giovanni Evangelista Manfredi. Si era accorto che Astorre era stato tra i più entusiasti, della ritrovata unità. In quel momento aveva avuto la cifra di quanto il fratellastro fosse di buoni sentimenti, di grande volontà, ma ancora troppo ingenuo per capire davvero certe dinamiche.

E così il diciottenne passò quel giorno preda dei tormenti più disparati, riluttante ad aiutare Faenza nell'organizzare le difese, sopraffatto da un fatalismo che mai aveva provato in vita sua.

Fu così che, all'alba del 12 aprile, nella brezza della primavera, quando all'orizzonte si videro le prime insegne di Cesare Borja, Giovanni Evangelista andò da Astorre e gli sussurrò: “Chiediamo un accordo.”

Il Manfredi più giovane, al suo fianco sulle merlature, strinse un attimo gli occhi contro il sole, e poi, sicuro di quello che stava dicendo, il ragazzo disse: “Oggi è il Lunedì dell'Angelo. Il figlio del papa non attaccherà in un giorno santo.”

Giovanni Evangelista si morse le labbra, ma, volendo disperatamente credere ad Astorre, annuì senza dire nulla.

Prima che calasse la sera, Cesare Borja diede l'ordine di attaccare ed espugnò il Convento dei Minori Osservanti, dove soggiornava la miglior gioventù in armi che fosse rimasta a Faenza.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas