Libri > L'Attraversaspecchi
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Autore: MaxB    28/12/2020    8 recensioni
Questa storia non è altro che una raccolta di tre capitoli, più o meno lieti, che raccontato gli ipotetici finali di Echi in tempesta.
Ho immaginato decine di diversi scenari conclusivi e ne ho selezionati tre, che vanno dal più lieto e indolore possibile a quello forse più improbabile e non proprio roseo. Ma del resto, nessuna storia è mai rose e fiori, e il quarto libro dell'Attraversaspecchi lo ha ampiamente dimostrato.
Spero solo che almeno uno dei miei finali possa colmare il vuoto che la fine della saga ci ha lasciato dentro.
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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FINALMENTE. Finalmente ho finito. E ho messo la spunta su Completa ad una delle tre storie in corso. Mi sembra di aver partorito.
Ringrazio prima di tutto tutti coloro che hanno seguito questo strano percorso e hanno letto i deliri della mia mente che si è chiesta: "Ma come farà Ofelia a riportare indietro Thorn?"
La mia mente pensa troppo. Io comunque, personalmente, preferisco il finale in cui per uscire dallo specchio Archibald prende il posto di Thorn, mi sembra il finale più... accettabile.
Questo invece è quello che potrebbe succedere se... niente spoiler. Dico solo che spero di essermi riuscita a spiegare, perché personalmente amo amo amo tutti e 4 i libri della Dabos e l'unica pecca che potrei trovare, se proprio devo trovarla, è tutto il discorso incasinato del Corno, delle inversioni, degli echi... insomma, ogni tanto mi soffermo ancora a pensarci e spero di essere giunta alle giuste conclusioni in questo capitolo. Se avete dubbi o pensate che abbia preso un mega granchio o un super abbaglio, ditemelo pure che... be', se proprio ho cannato in pieno cambierò il capitolo xD Ma spero di no perché non ne ho molto voglia ahahahha.
Grazie ancora a tutti♥


4. Lieto fine drastico

Ofelia si girò e rigirò nel letto, stanca, sfinita, forse troppo per dormire. Si sarebbe volentieri distratta guardando il cielo fuori dalla finestra, ma il giardino del palazzo di Berenilde era troppo ammantato di illusioni per riuscire a distinguere quali stelle fossero vere e quali fossero il frutto delle manipolazioni altrui.
Aveva visto Thorn per l’ultima volta tre anni e cinque mesi prima. Quasi quattro anni. E ogni notte il conto aumentava, pensandole sulle spalle come se fossero la causa del suo invecchiamento, e forse era proprio così. Il tempo scorreva a prescindere dallo scopo e dalle motivazioni di ognuno. Che lei avesse passato quei tre anni alle terme, a coltivare campi sotto il sole o rinchiusa in una biblioteca non faceva differenza: erano passati, togliendole vita.
Si alzò lo stesso dal letto, ma invece di affacciarsi alla finestra si diresse verso il grande specchio a muro che la riprendeva a figura intera. Stava abusivamente occupando una stanza dimenticata nel grande palazzo di Berenilde, certa che nessuno l’avrebbe trovata. La prima volta che Thorn l’aveva abbandonata si era compatita e chiusa in camera sua, su Anima. La seconda volta si era dedicata ai vagabondaggi con tappe di ristoro a casa della zia del marito, ignara di tutto. Alla fine dei conti, rimaneva sempre sola a escogitare piani infruttuosi su come ritrovare Thorn. La prima volta era stato provvidenziale l’intervento di Archibald. In quel momento, invece, l’ex ambasciatore non avrebbe potuto aiutarla in alcun modo. Lui. Gaela. Renard. Tutti morti.
L’avevano tutti lasciata sola.
Cercò di distrarsi da quei pensieri depressivi guardandosi allo specchio, cercando di scorgere l’adolescente che era stata, la donna acerba che si era rifugiata a casa dei suoi dopo che il marito era scappato, la moglie che aveva finalmente trovato il suo posto nel mondo quando aveva lavorato al fianco di Thorn come una coppia.
Non le trovò.
Vide solo una signora con i capelli ricci e lunghi, spettinati, una sciarpa floscia al collo, gli occhiali storti sul naso, una statura più bassa della media e delle mani senza dita. Mani che non erano state in grado di trattenere la persona che più aveva amato, e che continuava a cercare inesorabilmente. Nonostante la stanchezza. Le sembrava di aver passato la sua vita intera a cercare.
Continuò a guardarsi senza davvero vedersi, cercando qualcosa, qualcuno dietro lo specchio. Ma c’era solo lei. Lei e il suo riflesso. Quanto lo invidiava! Lui era dall’altra parte, almeno. Se avesse visto un guizzo di vita avrebbe avuto la conferma che la via per il Rovescio, dove si trovava Thorn, era aperta.
Ma la conferma che aveva era che quel passaggio era chiuso.
Alla fine si allontanò e si sdraiò nuovamente a letto.
Berenilde forse non era del tutto ignara dei suoi pernottamenti lì, comunque. Ofelia trovava sempre la stanza, la stessa, ogni volta ripulita e con lenzuola fresche e profumate, un vassoio di frutta sul comodino e ogni tanto anche pane e qualche dolcetto. Era il modo della madama di incoraggiarla nella ricerca perché, a discapito di tutto, a Berenilde mancava suo nipote, l’unico appoggio che aveva avuto per anni. E nemmeno la presenza della sua amata Vittoria poteva soffocare del tutto quel piccolo angolo di nostalgia che Berenilde provava.
Per Ofelia, però, quella sensazione non era relegata in un angolino. Era un torrente, un fiume in piena che minacciava di travolgerla sempre più spesso.
 
Il sonno giunse irrequieto e carico di sogni misti a ricordi che al mattino lasciavano confusi, incapaci di distinguere tra ciò che era realmente successo e ciò che invece si era solo immaginato.
Ofelia aveva sognato di parlare con il suo eco, l’ombra del suo potere di Attraversaspecchi. Lui non le aveva ovviamente risposto, ma si erano tuffati insieme nello specchio, alla ricerca di Thorn. O almeno così aveva pensato Ofelia. Nel momento in cui si era trovata dall’altra parte dello specchio aveva capito, con la certezza che si ha in un sogno, in cui non c’è mai una causa per gli avvenimenti, o una spiegazione, che Thorn era tornato nel mondo al dritto. Si erano scambiati i ruoli come se fossero ormai incapaci di coesistere nella stessa dimensione, riavvicinarsi. Il suo eco l’aveva portata in giro, ma alla fine si era resa conto che, come lei lo stava seguendo, allo stesso modo l’eco stava seguendo lei. Avevano quindi girato in tondo per un periodo imprecisato, mentre la sua ombra silenziosa si mangiava dei piccoli puntini luminosi come se fossero frutti di un albero. Erano tutti buchi, corni dell’abbondanza che l’eco divorava come se ne andasse della sua stessa esistenza.
Ofelia si svegliò di soprassalto quando l’eco offrì a lei un corno dell’abbondanza, che però la risucchiò invece di farsi mangiare. Aveva immaginato di precipitare, ecco perché si era destata così bruscamente.
Si guardò intorno, cercando di fare mente locale mentre gli strascichi del sogno la abbandonavano come fango lavato via dalla pioggia. Le rimase solo una sensazione, un’idea generica di cosa fosse successo. E una grande malinconia, perché nemmeno nei sogni che la assillavano la notte poteva riconciliarsi con Thorn. Le sembrava una profonda ingiustizia, ma prendersela con il suo subconscio non avrebbe aggiustato nulla. Ovviamente era in una camera del palazzo di Berenilde, era una mattina uggiosa e lei era nel Recto. Thorn era ancora nel Verso. Il passaggio tra i mondi era ancora chiuso, il marito era ancora irraggiungibile e il corno dell’abbondanza non esisteva più, mangiato dal suo stesso eco.
Sussultando, si rese conto che un’idea, un’ipotesi, un cambiamento le batteva nella testa, divorandola come un parassita, ma non riusciva a distinguerla, a darle una forma. C’era qualcosa che le sfuggiva, una strada che ancora non aveva tentato nonostante avesse provato ogni esperimento possibile e immaginabile.
Si lavò velocemente nel piccolo bagno della camera, anche quello sempre rifornito di asciugamani puliti, permise alla sciarpa di sistemarle, o arruffarle, i capelli, di rimetterle gli occhiali sul naso e di allacciarle i bottoni del vestito. Era diventata più brava e veloce di lei in quegli anni, e Ofelia la toccò con il palmo nudo per ringraziarla prima di farsi aiutare a mettere i guanti. Guanti inutili, che non le servivano più come prima, ma almeno davano l’illusione che ci fossero ancora delle dita invece di mostrare al mondo le sue mani mutilate.
Si tuffò nello specchio con gli occhi chiusi, varcando innumerevoli superfici senza mai soffermarsi troppo a lungo, vagando per tutto il globo tentando di trovare un posto di quiete che la aiutasse a tornare nel luogo di mezzo. Anche quello si era chiuso tre anni prima, ma Ofelia tentava e tentava ancora di tornarci.
Quando aprì gli occhi, ansimando, si ritrovò nel luogo che non avrebbe mai pensato di rivisitare: l’isolatoio. Il gabinetto, il lavandino, la doccia, i medicinali e il materasso erano ancora lì, immutati come se quella stanza fatta di specchi fosse al di sopra dello scorrere del tempo, come se non ne fosse stata intaccata. Le girò la testa per un istante quando, guardandosi attorno, vide i suoi movimenti riflessi ovunque, sulle pareti, sul soffitto e persino sul pavimento.
Aveva odiato l’isolatoio quando l’avevano costretta ad andarci per punizione. Lo odiava anche in quel momento, perché era lì che era riuscita a raggiungere per la prima volta il luogo di mezzo. Era lì che aveva finalmente compreso, anzi, ammesso, i suoi sentimenti per Thorn. Era scivolata nel suo stato d’animo, attraversando gli specchi per approdare dentro se stessa. Vigliacca e pavida com’era stata, bugiarda, si rese conto in quel momento che era stato un miracolo che fosse riuscita ad attraversare gli specchi. Solo chi era in grado di vedersi per ciò che era poteva farlo.
Lei era tornata per quel motivo.
E aveva un’idea.
 
Gli specchi le riflettevano decine di differenti versioni e angolature di se stessa. Era cambiata così tanto, dentro di sé, dall’ultima volta che era stata lì. Troppe cose erano diverse, negativamente diverse. Aveva perso più persone care di quante ne avesse conosciute nel frattempo, e aveva perso quel marito che aveva fatto tanta fatica a capire di amare. Scosse la testa. Non poteva indugiare in simili pensieri.
Non poteva più scivolare nello iato tra gli specchi, rimanere sospesa tra i due mondi. Però poteva ancora attraversarli. Si diresse verso una parete riflettente. Vi immerse la mano, e come aveva previsto la vide uscire dallo specchio della parete opposta. La ritrasse, e la fece uscire dal soffitto insieme ad un piede. Rischiò di inciampare e si allontanò un secondo, toccando il vetro duro e freddo senza però trapassarlo. Poi sospirò e, immergendo di nuovo il braccio, lo vide sbucare dal pavimento. Rimase a fissare quel braccio che ondeggiava per terra.
Era suo, lo muoveva lei, ma era come se non lo fosse. Era distaccato da lei, non ne faceva più parte. Eppure, se lo riavvicinava a sé, tornava a fare parte del suo corpo.
Non si era mai chiesta granché come funzionasse il suo potere, come nessun altro probabilmente. Chi si domandava come agisse la telepatia della Rete? O gli artigli? E l’animismo? In base a quale legge fisica? C’erano così tante stranezze in quel mondo variegato abitato da persone ancora più variegate. I poteri familiari di solito venivano studiati e riportati in un compendio, su Anima, così da catalogarli e tenere nota delle mutazioni di quei doni e delle loro manifestazioni. Ma non veniva mai spiegato come mai esistessero.
A volte ciò che un potere familiare era in grado di compiere travalicava la consapevolezza stessa del portatore.
Ofelia si sedette al centro della stanza, a gambe incrociate. Chiuse gli occhi.
Per una volta cercò di fare ciò che non aveva mai fatto: esaminò la sua memoria. Era sempre stata preda di visioni incomprensibili che appartenevano ad altri, mai a lei. Soprattutto ricordi di Eulalia, ricordi di vita, di chi era stata e chi era diventata. Di come aveva cambiato persino lei stessa.
Così cercò di capire, di capirsi.
Ricordò quando aveva scoperto com’erano nati gli spiriti di famiglia. Eulalia aveva offerto al Corno dell’abbondanza un libro rilegato e confezionato con se stessa: i suoi capelli, il suo sangue, il suo sudore, la sua esistenza, il suo alfabeto. La contropartita. Il Corno era equo. Donava echi da materializzare in cambio di un’offerta.
Ma c’era anche un altro modo per evocare un eco: scindersi dalla propria ombra, dal proprio potere familiare. Era così che Eulalia aveva trovato l’Altro. Lo aveva invocato invertendosi, esasperando le proprie percezioni e i propri sensi, generando qualcosa da sé. Per materializzarlo aveva poi dovuto attraversare lo specchio al posto suo, facendolo uscire e portando con sé l’orrore della guerra.
E lei? Lei, Ofelia, aveva fatto esattamente la stessa cosa. Un’inversione nel Dritto comporta una contro-inversione nel Rovescio. Quando Eulalia si era invertita con mezzo mondo, l’Altro si era contro-invertito prendendo il suo posto. Quando Ofelia aveva tirato fuori Eulalia, anni dopo, dallo specchio, non aveva dato nulla in cambio. Per quel motivo erano iniziati i crolli e il mare di nuvole, l’aerargyrum che prendeva il posto degli oggetti e delle persone che finivano nel Rovescio, aveva cominciato ad imperversare.
Lei aveva creato un’eco offrendo il suo potere di Attraversaspecchi. Era simbolicamente equivalente. Quando si erano fusi nuovamente, all’atto di uscire dal Rovescio in cui si erano ritrovati insieme, Ofelia aveva anche pagato il debito che le avrebbe permesso di contro-invertirsi. Aveva riottenuto il potere di attraversaspecchi, cedendo quello di lettrice. E infine aveva pagato l’ultimo debito ridando al Rovescio l’Altro.
Le sembrava di avere per le mani troppe informazioni rispetto a quelle che era in grado di processare, tra ricordi suoi e di altri, speranze, progetti e congetture. Avrebbe più che mai voluto avere Thorn a fianco a sé, con la sua mente pratica e calcolatrice, la sua capacità di analizzare tutto con estremo distacco.
Le mancava così tanto.
Si rese conto quasi per caso di essere immersa per metà nello specchio del pavimento. Aprendo gli occhi vide parti del suo corpo emergere dal resto degli specchi della camera, una gamba a destra, una a sinistra, la schiena sopra. Stava di nuovo scivolando dentro se stessa, ma il passaggio era chiuso e invece di finire nel luogo di mezzo tra Dritto e Rovescio vagava nella stanza, negli specchi.
Chiuse gli occhi nuovamente, più determinata che mai.
Il mondo era in equilibrio e il Corno dell’abbondanza era sparito. Come avrebbe fatto a riportare Thorn indietro? Offrendo quale contropartita? Ogni passaggio da un mondo all’altro rendeva instabili entrambi, e senza il Corno l’entrata era chiusa per sempre.
Perché il suo eco lo aveva mangiato.
Ofelia aprì gli occhi e tornò in sé, seduta sul pavimento a specchio.
Il suo eco aveva mangiato il Corno dell’abbondanza. Poi si era fuso con lei e avevano riattraversato lo specchio della camera sospesa nel Secretarium, cedendo il potere da lettrice.
Ma dov’era il Corno dell’abbondanza?
Se il suo eco aveva assimilato il Corno e lei aveva assimilato il suo eco, non doveva aver assimilato anche la capacità di attraversare il passaggio tra i mondi? Eppure, in tutti quegli anni in cui aveva cercato il passaggio tra recto e verso non aveva trovato nulla, non aveva sentito nulla. Per lei più che per chiunque altro avrebbe dovuto essere facile trovare quella breccia, dato che l’aveva attraversato più di una volta.
Ofelia era vicina a… qualcosa, lo sentiva. Ma a cosa?
Tornò a sdraiarsi e chiuse gli occhi. Non aveva guadagnato il potere del Corno, ne era certa. Ma il Corno era davvero perduto per sempre? Più rifletteva e più le sembrava che solo il buco che convertiva echi in materia e viceversa fosse la soluzione al suo problema.
Si assopì senza nemmeno rendersene conto, e sognò.
Sognò un eco anticipatore.
Al suo risveglio, sapeva cosa fare.
 
Cercare di riportare tra loro il Corno dell’abbondanza sarebbe stato un azzardo troppo grande. Qualcuno avrebbe potuto ripetere gli errori di Eulalia o, peggio, di Lazarus, e segnare definitivamente la disfatta di entrambi i mondi. Ma se il Corno fosse rimasto nel Rovescio avrebbero forse scongiurato quella possibilità.
Eulalia aveva evocato l’Altro, e lei stessa aveva dato vita ad un eco.
Cosa avrebbe potuto impedirle di rifarlo?
Nulla.
I giorni le sarebbero scivolati via dalle dita come sabbia, se ne avesse avute. Ofelia perse la cognizione del tempo, erano solo i suoi bisogni fisiologici a scandire i ritmi delle giornate. Quando aveva fame approdava nel palazzo di Berenilde, in silenzio, senza mai lasciare tracce. Visite brevi e prive di sostanza che avevano il solo scopo di mantenerla forze. La doccia e il gabinetto incastrati tra gli specchi invece erano fondamentali per mantenersi pulita senza perdere troppo tempo a passare tra gli specchi. Thorn non avrebbe tollerato il contatto con una persona sporca, quando l’avesse rivista, anche se Ofelia aveva il presentimento che avrebbe fatto un’eccezione per lei. Lo aveva fatto anche quando l’aveva abbracciata sull’impluvium a casa di Lazarus, alla fine. E tra l’erba alta.
Quelle reminiscenze le davano la forza di continuare, nonostante il suo compito fosse caotico, disordinato e doloroso. Ripercorse i passi di Eulalia, esacerbando la sua inversione giorno dopo giorno fino al parossismo. Quando si risvegliava dal suo sonno inquieto aveva sempre più difficoltà a capire quali fossero la destra e la sinistra, e non capiva se fosse diventata come Ambroise o se le visioni di lei con le mani al contrario fossero solo un sogno. Un giorno usava solo la parte destra del corpo, un altro solo la sinistra, e quello dopo la gamba destra e la mano sinistra, confondendo se stessa e il suo corpo. O almeno pensava che i suoi esperimenti durassero l’intero giorno. Per quanto ne sapeva, forse passava solo mezz’ora dal passaggio da un esercizio all’altro. Li inframmezzava anche con gli esperimenti che le avevano fatto fare quotidianamente all’osservatorio delle deviazioni, esasperando la sua inversione ogni volta di più. Cominciò a soffrire di emicrania e i suoi fedeli occhiali divennero una blando palliativo per la sua miopia, perché aveva la vista appannata anche con quelli.
Finché un giorno faticò ad attraversare lo specchio. Le sembrò di aver immerso la mano in uno strato denso e compatto di melassa, che prima la tirava a sé e poi la respingeva. Fece diversi tentativi nell’isolatoio, sbucando una volta dal soffitto anziché dal pavimento, e quella dopo dalla parente destra invece che da quella di fronte. O era a sinistra?
Quando ebbe riottenuto un minimo di controllo, riuscì ad arrivare a casa di Berenilde, nella cucina. Da quando Thorn era diventato un Attraversaspecchi e Ofelia si era messa a cercarlo, la padrona di casa aveva fatto attaccare al muro di ogni ambiente uno specchio a grandezza naturale, nel caso in cui qualcuno avesse voluto ritrovare la strada del ritorno. Per Ofelia era stato estremamente comodo, ma non aveva mai avuto modo di ringraziare Berenilde per quel pensiero.
 Era notte fonda fortunatamente, così nessuno avrebbe rischiato di trovarla. Una candela era come sempre accesa al centro del tavolo, per permettere a chi la notte si alzava di trovare la via della cucina senza svegliare tutti. Ofelia fece passare al di là dello specchio quante più provviste possibili, selezionando quelle che non avrebbero faticato a conservarsi per più di un paio di giorni. Dopo il primo, difficoltoso attraversamento fu facile tornare nell’isolatoio, ma Ofelia sapeva che quella condizione sarebbe cambiata non appena avesse ricominciato con gli esercizi di inversione.
E sapeva anche che non se ne sarebbe potuta andare senza far avere sue notizie a Berenilde, alla zia Roseline e ai suoi parenti.
Con l’aiuto della sciarpa prese un foglietto di carta e una penna che il cuoco teneva sempre a disposizione nella cucina, per quando gli veniva in mente qualche ricetta o qualche ingrediente da comprare e si appuntava tutto per non dimenticarseli.
Era troppo determinata e concentrata per lasciarsi andare alle emozioni, ma non poté impedirsi di sentire gli occhi lucidi. La sciarpa, sempre consapevole dei suoi stati d’animo, le diede dei colpetti impazienti sulla spalla, che la riscossero.
Doveva rinunciare alla sua vanità per ammetterlo, ma la sciarpa scriveva molto meglio di lei. Con la penna in mano, scrisse senza esitazioni o sbavature quello che Ofelia le dettava, tentando di essere breve e concisa. Non fu facile riversare in poche righe tutte le emozioni che provava, contrastanti e vorticose. Sollievo per essere finalmente riuscita a giungere ad un punto, un punto più vicino a Thorn; tristezza e malinconia per il modo frettoloso in cui si era dovuta congedare; affetto per tutti i suoi cari, e rimpianto per essere stata lontana così a lungo, e perché lo sarebbe stata ancora; solitudine e nostalgia, infine, perché aveva l’assoluta certezza che quello fosse un addio.
Ofelia aveva appena finito di dettare le parole alla sciarpa, che si allungò per posare il bigliettino sul tavolo, quando la luce si accese e la investì. I suoi occhi abituati al buio sbatterono le palpebre convulsamente nel tentativo di abituarsi a quell’inondazione. Ofelia avrebbe voluto avvicinarsi quanto più possibile allo specchio della cucina, la sua unica via di fuga, ma incespicò nei suoi stessi piedi, più instabili che mai, e dovette appoggiarsi con i palmi al tavolo per non cadere.
Fortunatamente riacquistò l’uso della vista, per quanto fosse imperfetta, quasi subito. Si rese conto con sgomento che sulla soglia della cucina c’era una bambina alta e magra con la pelle chiarissima e lunghi capelli di un bianco abbacinante che sembravano splendere di luce propria, più che rifletterla. Ofelia sapeva quanti anni aveva la bambina, ma la sua statura e la sua corporatura non rispecchiavano quell’età: la bambina sembrava molto più grande. Eppure, c’era un che di vulnerabile nel suo sguardo, di fragile, come di qualcuno che ha dovuto affrontare già diversi orrori nella vita. Era uno sguardo consapevole e intelligente, eppure intimorito.
Da dietro di lei sbucò un’altra figura, identica nell’altezza e nell’età, ma decisamente maschile, con occhi semichiusi per la stanchezza e una chiara espressione di noia dipinta in volto. Se la bambina dimostrava saggezza, concretezza e coscienza, il bambino sembrava stralunato, svampito e inconsapevole.
Vittoria e Faruk. Più simili a fratello e sorella che a padre a figlia. Chissà se crescendo avrebbero mai scoperto la verità…
- Madrina? – chiamò Vittoria con voce flebile, chiedendo più una conferma che una richiesta di attenzione.
Al di là dello sbigottimento di cui era preda, Ofelia sorrise spontaneamente. Un sorriso piccolo e venato di tristezza, a cui però Vittoria fu pronta a rispondere, seppur con una curvatura di labbra altrettanto accennata.
- Siete venuta per restare? – le chiese con voce ferma, conscia di ciò che chiedeva e del ruolo che ricopriva quella donna che aveva visto così poche volte eppure le aveva donato il suo nome.
Ancora una volta, Ofelia sentì le lacrime pungerle gli occhi e le lenti degli occhiali si scurirono. La sciarpa, partecipe del suo dolore, si avvolse più strettamente attorno al suo collo. Avrebbe tanto voluto approfondire la conoscenza della sua figlioccia, e vederla crescere. Avrebbe voluto farlo con Thorn. Se non potevano avere figli, almeno si sarebbero goduti la loro cuginetta…
Scacciò quei pensieri dolorosi e le rivolse un sorriso così triste che si sarebbe potuto scambiare per la smorfia di chi è prossimo al pianto. – No, Vittoria. Sono venuta per salutare.
Lo sguardo della bambina parve brillare per un momento, come se avesse capito esattamente cosa Ofelia voleva dire, nonostante nemmeno lei lo sapesse fino in fondo.
- Avete trovato il cugino Thorn?
Ofelia scosse la testa. – Non lo so ancora. Forse sì. Ci sto provando.
Vittoria si girò per un istante verso lo specchio dal quale Ofelia era arrivata, assottigliando gli occhi come per vedere meglio. Ma fu solo un attimo e quello dopo aveva di nuovo gli occhi puntati su Ofelia.
- Portategli i miei saluti, per favore. E ringraziatelo.
Ofelia aggrottò le sopracciglia, incerta su come interpretare quelle parole. Decise che non avrebbe dovuto pensarci troppo, dato che Vittoria era figlia di Faruk e talvolta anche lui era incomprensibile. Ma avrebbe riferito il messaggio, quello era certo.
- Lo farò.
Vittoria le sorrise per davvero udendo quelle due parole. – Mi mancherete – le disse poi, con un tono nettamente in contrasto con la sua espressione gioiosa. – Spero che ne varrà la pena.
Ofelia non era certa di cosa la bambina avesse intuito, di cosa lei stessa avesse capito o se stavano per lo meno parlando della stessa cosa. Annuì lo stesso, avvicinandosi allo specchio con l’intento di andarsene sul serio.
Non aveva ancora attraversato del tutto lo specchio quando la bambina aggiunse: - Manterrete la promessa che avete fatto quando mi avete dato il nome. Vittoria.
Ofelia capitombolò sul vetro freddo del pavimento dell’isolatoio con il fiato corto. Lasciò che le lacrime sgorgassero copiose, e nemmeno la sciarpa fece un tentativo per asciugargliele. Stava forse per ritrovare Thorn, per dare un senso a quegli anni di ricerca, ma al prezzo di sacrificare tutti gli altri suoi affetti.
Per Thorn ne valeva la pena. Per stare di nuovo con lui ne valeva la pena.
Aveva promesso a se stessa, quando aveva detto a Berenilde che il nome della sua figlioccia sarebbe stato Vittoria, che avrebbe ritrovato Thorn. A costo di sfidare le Decane, il Dio dell’umanità o il distruttore dei mondi.
A costo di sfondare un passaggio invalicabile, di rinunciare ai suoi poteri familiari, agli affetti di una vita e all’Ofelia che avrebbe potuto essere e non sarebbe mai stata, aggiunse in quel momento, infondendo ancora più valore a quella promessa.
Solo che Vittoria non avrebbe dovuto essere a conoscenza di quel voto che aveva fatto quando lei non era che una neonata. Un voto a cui aveva tenuto fede, dato che poi aveva ritrovato Thorn. Lo aveva ritrovato per perderlo nuovamente, però.
Si asciugò le lacrime sentendo crescere in lei una speranza feroce che si tramutò in certezza e scacciò paura, solitudine e confusione come la luce dell’alba che dissipa le tenebre. Quella di Vittoria era stata una profezia, e Ofelia aveva intenzione di portare in alto il suo nome come un vessillo sacro, un blasone da appuntarsi al petto.
Vittoria.
 
Non le rimanevano molte scorte di cibo, ma ad Ofelia non importava. Sapeva che avrebbe portato a termine il suo proposito prima di esaurire gli alimenti. Non era più consapevole di che ore fossero, di quanti giorni fossero passati o quanto avesse dormito, ma abbracciava quell’ignoranza come l’unico mezzo per raggiungere il suo fine. Non era accaduto anche nella cappella, quando aveva vissuto pochi minuti come una quantità di giorni, quando si era immersa in se stessa e in Eulalia, o forse era Elizabeth?, e aveva perso i contorni della realtà e della sua persona?
Quando aveva compiuto la cristallizzazione e aveva evocato il suo eco, l’ombra del suo potere di Attraversaspecchi.
Si era scissa, all’epoca, si era lacerata, aveva originato qualcos’altro.
E con una mano sulla parete a specchio di fronte a sé, mentre ripercorreva e riviveva tutti gli istanti che riusciva a ricordare della sua vita, solo e unicamente della sua vita, lo sentì esplodere in lei. Rifinì i contorni di se stessa, creandone una nuova versione e rivestendo insieme quella vecchia.
Era stata la figlia di Sophie. La nipote del prozio. La sorella di Agata. Una lettrice, e poi la lettrice più competente di tutti. Un’Attraversaspecchi anche in età adulta, capacità rara da mantenere. Una giovane che aveva rifiutato due pretendenti, e poi una fidanzata costretta a sposarsi. Una nativa di Anima, un’abitante acquisita del Polo, una residente di Babel. L’amica di un eco materializzato appartenuto ad un adolescente che anni prima aveva sperimentato il Corno dell’abbondanza. E ancora, una travestita, un valletto sotto mentite spoglie, una ragazza a metà tra adolescenza e maturità che desiderava solo avere il controllo della propria vita. Una ragazza che non aveva voluto quello che poteva avere, e poi una donna che aveva voluto quello che non poteva avere. Una pedina maltrattata e tenuta nell’ignoranza, una figura riscattata che aveva scoperto che le persone non erano ciò che dicevano di essere ed erano quello che gli altri non immaginavano.
La fidanzata dell’intendente. La moglie di Thorn.
Una donna innamorata. Disposta a tutto pur di ritrovare l’unica persona determinata ad amarla tanto da lasciarla libera di compiere le sue scelte, ma che per darle quella libertà le aveva strappato la possibilità di decidere.
Di là. O di qua. Thorn aveva scelto per lei, lasciandola andare affinché lei potesse vivere nel mondo al dritto mentre lui si esiliava nel mondo al rovescio.
Ma ad Ofelia interessava solo vivere nel mondo in cui Thorn esisteva.
Di là.
E se lui non poteva andare da lei, sarebbe stata lei a raggiungerlo.
Era una ex lettrice. Era un’Attraversaspecchi. Era la moglie di Thorn.
Era Ofelia, una donna che avrebbe qualsiasi cosa in nome di quelli che amava.
Sprofondò nell’oblio.
Si sentì lacerare.
Inchiostro bianco su carta nera.
Una scelta controcorrente.
Chi era lei?
Una persona nuova.
Una persona vecchia.
La stessa di sempre.
E stava
andando da
Thorn.
 
Ofelia si sentì strappare la pelle e i capelli di dosso, come se nello spazio angusto dell’isolatoio si fosse all’improvviso sollevato un vento capace di sradicare gli alberi e distruggere gli edifici. Si sentiva bruciare e gelare insieme, rivoltata come un calzino, una sensazione che aveva già vissuto eppure le sembrava peggiore della precedente. La cristallizzazione era un processo doloroso, e capì che più volte lo si eseguiva più gravi erano le conseguenze.
Non lo avrebbe più fatto.
Se fosse andato tutto bene non le sarebbe più servito.
Batté le palpebre più volte, cercando di distrarsi dal dolore, per raccapezzarsi.
Era ancora nell’isolatoio. Era ancora intera, ma senza dita. Aveva ancora la mano posata sullo specchio, ma in qualche modo nel processo di cristallizzazione le era scivolata dentro la superficie. Solo che non riusciva più a tirarla fuori, e la vedeva sbucare, evanescente, al di là della parete a specchio.
O almeno Ofelia pensava che fosse la parete a specchio dell’isolatoio. In realtà sembrava una porta di vetro che separava due ambienti ben distinti: la stanza in cui si trovava lei, e un paesaggio nero e desolato, macchiato di tinte a contrasto, in cui si muovevano banchi di nebbia che nascondevano e mostravano figure sempre diverse. Voltando la testa, Ofelia notò che quel paesaggio desolato non si rifletteva sul soffitto, sul pavimento e sulle pareti ai suoi lati e alle sue spalle, come se non esistesse, o come se gli specchi non riuscissero a rifletterne l’immagine.
Aerargyrum.
O era forse impazzita?
Ma poi, in tutto quel nero-grigio-bianco uniforme, scorse una forma ancora più nera, alta quanto lei, come un suo riflesso fatto d’ombra.
Il suo eco. Il suo potere di Attraversaspecchi. Il suo Altro.
Se ne stava di fronte a lei con la testa inclinata, imitando la sua posa, si rese conto.
E una sua mano nera d’ombra sbucava dallo specchio di fianco a lei, nella sua stessa identica posa.
Ofelia assottigliò gli occhi. Rifletté.
Il Corno dell’abbondanza convertiva materia in echi e viceversa.
Eulalia aveva preso il posto dell’Altro nel Verso e l’Altro si era materializzato nel Recto. Una contropartita simbolicamente equivalente. Uno per uno.
Quando invece il Corno convertiva la materia in aerargyrum, rilasciava a sua volta aerargyrum, per controbilanciare l’inversione.
Per questo Ofelia aveva perso le dita da lettrice: non aveva avuto altra contropartita con cui pagare, e non aveva potuto approfittare nel Corno dell’abbondanza per rimaterializzarsi.
Allo stesso modo, aveva dovuto rispedire l’Altro nel Rovescio per riportare la pace, pagando quella contropartita che non aveva saldato quando aveva involontariamente trascinato Eulalia fuori dallo specchio.
O si utilizzava il Corno, o si pagava un prezzo che riuscisse ad equilibrare comunque i due piatti della bilancia.
Lei aveva invocato il suo eco. L’Altro. Ma non aveva intenzione di usarlo come aveva fatto Eulalia, offrendogli il proprio posto per prendere il suo. Lei voleva convertirsi con il Corno dell’abbondanza.
E ce l’aveva il suo eco.
Non sapendo bene come intavolare il discorso, prese un po’ di tempo per raccogliere le idee. Il suo eco la guardava dall’altra parte con pazienza infinita.
Cosa poteva dirgli? “Ciao, sono Ofelia, per favore rigurgita il Corno, o il buco, o particella, chiamala come vuoi, che ti sei mangiato, così che io possa sfruttarlo”?
Scosse la testa da sola, ma l’ombra non la imitò. In qualche modo quella non-imitazione la rassicurò. Il suo eco non era capace solo di emularla scioccamente. Non aveva senso nemmeno girarci tanto intorno.
- Il Corno dell’abbondanza. L’hai inghiottito, ricordi? Non so come potrebbe essere possibile, ma ci sarebbe un modo per riaverlo?
L’eco inclinò di nuovo la testa, incuriosito. Poi negò.
Ofelia non era giunta fino a quel punto, perdendo persino il suo potere di Attraversaspecchi, di nuovo, solo per farsi dire di no da quello stesso potere. Avrebbe stretto il pugno se avesse potuto, e notò che la sciarpa lo aveva fatto al posto suo, con le due code.
- Dopo potrai inghiottirlo di nuovo. Mi serve solo per trovare Thorn. Non voglio fare altro, solo passare di là.
L’eco parve rifletterci, poi voltò la testa alla sua sinistra. Ofelia vide le nuvole turbinare, esponendo alla vista una figura dai margini confusi. Una figura estremamente alta e magra, con una gamba storta in modo innaturale, che teneva in mano qualcosa e si guardava attorno. Incrociò il suo sguardo, o almeno così credette Ofelia, dato che con quella pelle nera e traslucida era difficile dirlo. Parve irrigidirsi, forse. Tremolava come l’aria calda sopra i barili infuocati accesi durante la Festa delle Castagne su Anima.
Era Thorn?
L’ombra lo indicò con la testa, come a chiederle: - Parli di lui?
- Sì, lui – rispose lei, sperando che fosse la cosa giusta da dire. – Voglio andare da lui. Voglio stare con lui. Ma non posso distruggere questo mondo, e il tuo, com’è già successo in passato. Abbiamo, ho imparato dagli errori che sono stati commessi. C’è un modo per entrare nel Rovescio senza dover causare una catastrofe, senza lacerare i mondi. Ed è il Corno dell’abbondanza.
Thorn continuava ad osservarla in silenzio, o forse no. Forse si stava immaginando tutto.
L’ombra indicò lei e poi aprì la mano, una mano integra che lei non aveva più, ad indicare l’ambiente alle sue spalle. Ofelia comprendeva perfettamente i suoi gesti, come se fossero uno strano linguaggio dei segni interpretabile solo da loro, come se l’eco le stesse bisbigliando all’orecchio.
Scosse la testa. – Non voglio tornare – mormorò, mentre le lacrime le bagnavano le guance. La sciarpa, afflosciata, non fece nemmeno lo sforzo di asciugargliele. – Non voglio tornare, senza di lui.
Voleva tornare. Abbandonare la vita che aveva conosciuto, la sua famiglia, sia quella di Anima che del Polo, le procurava un dolore che trascendeva quello fisico, era come una sofferenza interna, un altro tipo di logoramento. Non era nulla, però, paragonabile a quello che soffriva per via della mancanza di Thorn. E se doveva scegliere obiettivamente, andare da Thorn era la scelta più giusta: Berenilde aveva la figlia e la zia Roseline, la sua famiglia su Anima era grande, Octavio aveva sua sorella.
Thorn chi aveva?
Thorn era in isolamento da anni, costretto ad una solitudine che si era autoinflitto, ma che non avrebbe augurato a nessuno. E per com’era stata la sua infanzia, la sua intera vita prima che lei decidesse di appartenergli, era la persona che più di tutti non meritava una simile esistenza.
Toccava a lei salvarlo, a qualunque costo, anche se quel costo significava abbandonare tutto quello che era stata per raggiungerlo e stare al suo fianco fino alla fine. Solo loro due, insieme. Come sempre.
- Fammi venire di là – implorò a mezza voce, sentendo in gola il sapore del sale.
Erano gli occhiali ad essere appannati, o l’aerargyrum si stava agitando e infittendo?
L’eco la squadrò per dei lunghi momenti, o così pensò Ofelia, dato che era difficile capire cosa la sua ombra stesse pensando. Alla fine la vide annuire brevemente. Si posò una mano sulla pancia, la mano che non aveva immerso nello specchio fino a pochi centimetri dal viso di Ofelia, e cominciò a muovere ventre, trachea e faccia a scatti, come un’onda che si rifrangeva sugli scogli, si allontanava e tonava a sbattervi contro.
Alla fine l’eco si portò la mano alla bocca, estraendone un puntino luminoso che mostrò a Ofelia con atteggiamento trionfante.
Il Corno dell’abbondanza.
Ofelia si lasciò sfuggire un singhiozzo nel vedere quel piccolo… buco, che rappresentava la ricompensa della sua lunga ricerca. Finalmente. Ma come poteva raggiungerlo?
Intuendo i suoi pensieri, l’ombra allontanò brevemente il Corno.
- Sei sicura? – sembrava volerle chiedere.
- Permettimi di venire di là. Non tornerò più indietro. E non ti chiederò di rifonderti con me. Sarai libero, nel Rovescio.
La figura fatta di nera oscurità parve rianimarsi a quelle parole, e per un attimo Ofelia pensò di vedere due occhi bianchi brillare di desiderio.
Eppure, invece di accettare egoisticamente le condizioni, parve esitare ancora.
Sussultarono entrambe quando l’altra figura che era rimasta dietro le quinte, nascosta nella nebbia, mise una mano sulla spalla dell’eco. Una mano dalle dita lunghe e ossute, attaccata ad un avambraccio nero solcato da cicatrici bianche. Era Thorn, era davvero Thorn.
Ofelia gli sorrise, facendo del suo meglio per non apparire triste, ma insicura del risultato.
- Ti prego… - mormorò ancora. – Portami di là. Sono libera di compiere le mie scelte, e questa è la scelta che desidero compiere. Voglio giocarmi i miei dadi. E punto tutto quello che ho.
Senza preavviso, la mano dell’eco, che aveva attraversato lo specchio, le afferrò la spalla. Con l’altra mano, quella che reggeva il Corno, afferrò il palmo di Ofelia.
Il suo riflesso fu l’ultima cosa che vide prima di volare in frantumi.
 
Il senso di dolore estremo la lasciò senza fiato, anche se una piccola parte di lei lo immaginava. Ormai ci stava quasi facendo l’abitudine, anche se si chiedeva come il suo corpo potesse sopportare delle condizioni simili così tante volte. Forse avrebbe peggiorato la sua inversione interna, avrebbe danneggiato qualche altro organo. Non bastava la sterilità.
Poi non pensò più a nulla mentre cadeva verso l’alto, con un senso di vertigine e al contempo di ebbrezza, di gioia. Percepiva le lacrime scorrerle sul viso, ma quando atterrò sapeva che non le avrebbe mai più sentite.
Aveva pianto per l’ultima volta.
Atterrò. Di fianco a lei, l’ombra le lasciò spalla e mano, per tornare a guardare nello specchio e osservare gli echi prodotti dalla sua inversione che si disperdevano come foglie al vento, senza lasciare traccia dietro di loro. Poi si rimise il Corno dell’abbondanza in bocca, masticandolo come una caramella gommosa, e con un gesto fece sparire anche lo specchio.
Guardò Ofelia. Annuì, un cenno brevissimo. Un addio.
Voltò le spalle e si allontanò.
Ofelia guardò con malinconia la sua figura ombrosa andarsene. Il suo potere incarnato di Attraversaspecchi. Un pezzo di sé che si allontanava per vivere la sua vita.
Non era più una lettrice. Non era più nemmeno un’Attraversaspecchi.
La sciarpa si strinse al suo collo, confortandola, ricordandole che era ancora un’animista. Le ombre ai suoi piedi, invece, smussate in quel momento, le fecero notare che aveva anche gli artigli di un Drago. Il potere di Thorn.
Mentre l’eco scompariva di fronte a sé, avrebbe voluto ringraziarlo, ma le parole non lasciarono mai la sua bocca.
Quel mondo era privo di parole, ecco perché venivano accettate come contropartita. Le parole erano potenti, un’ottima merce di scambio. Un potere che lei non aveva più. Come Thorn.
Di fianco a lei, la sua alta figura in negativo si chinò. Ofelia avrebbe riso di fronte a quella scena, notando come la sua altezza fosse ancora più smisurata di quel che ricordava, la sua colonna vertebrale lunga e lenta nei movimenti, se la gioia non le avesse procurato un dolore tale da farla singhiozzare.
Sprofondò nel buio, o nella luce di quel mondo al rovescio, quando Thorn la strinse a sé. E l’abbraccio di quelle braccia forti valse più di tutte le parole che erano e sarebbero state inventate nei secoli trascorsi e a venire.
Si ritrovarono per terra, in una grottesca imitazione in contrasto di quello che era successo nell’immaginatoio, quando Thorn aveva ucciso il barone Melchior per salvare lei e, per la prima volta, lei si era abbandonata a lui, in cerca di conforto.
Thorn, ancora impacciato nei suoi anodini tentativi di consolazione, ma reso impaziente dalla lunga attesa, fece scorrere le mani sulla sua schiena, sui suoi capelli, sul suo viso, portando via quelle lacrime asciutte che Ofelia non percepiva più. Più volte sentì la sua bocca e la sua corta barba tra i capelli, più volte desiderò stringersi ancora di più a lui per porre fine a quella distanza inesistente fisicamente che però era stava scavata nei lunghi anni di attesa. Distanza che finalmente sembrava essere stata colmata.
Se avesse potuto, si sarebbe fusa con lui come aveva fatto con il suo eco quando era uscita dal Rovescio la prima volta.
Thorn la cullò meccanicamente per tutto il tempo in cui lei singhiozzò silenziosamente, ondeggiando avanti e indietro con il lungo busto, tenendola sempre premuta a sé. Quando Ofelia si scostò appena per accarezzargli il viso e guardarlo, guardarlo dritto negli occhi, vide che anche lui aveva delle tracce bianche slavate sotto gli occhi, che non erano cicatrici ma ombre di lacrime. La sua espressione era austera e distaccata come sempre, però, in netto contrasto con i segnali che il suo corpo le lanciava. Ofelia gli tracciò con le dita la lunghezza delle cicatrici che le erano tanto mancate, sulla gota, sul sopracciglio e sulla tempia.
Memore dei gesti che aveva compiuto in un altro momento, in un’altra storia, si alzò sulle ginocchia per baciargliele, sentendo nascere sulle sue labbra un sorriso annegato nelle lacrime quando percepì Thorn irrigidirsi. Durante quegli anni trascorsi completamente da solo doveva aver scordato del tutto cosa fosse il contatto umano.
Tornò a guardarlo negli occhi, rimpiangendone il colore metallico che avevano originariamente, la luminosità del suo sguardo e la sua spietatezza, la sua fissità da rapace. Ma in quegli occhi albergava lo stesso il sentimento che rispecchiava quello di Ofelia, una sensazione di fame e di appartenenza, di struggimento, desiderio e nostalgia, di possessività. E nessuno era possessivo quanto Thorn.
La guardò con rimprovero, sgridandola con l’espressione. Perché sei venuta fin qui? Ti avevo lasciato di là apposta perché tu vivessi una vita vera. Devi smetterla di demolire tutte le statistiche. Non fai mai quello che ci si aspetta che tu faccia. Ma soprattutto… Grazie.
Grazie. Anche un po’ di più.
Non avevano più l’uso della parola, forse con il tempo avrebbero dimenticato il significato della stessa parola, parola, ma ad Ofelia non importava. E nemmeno a Thorn. Con la fronte premuta contro la sua, i respiri che si mescolavano in aerargyrum impalpabile, Ofelia sapeva di aver raggiunto con lui una nuova intesa, un’intesa che trascendeva l’uso della lingua, che si basava su gesti, ricordi, intenzioni e sguardi.
Fu lui, come la prima volta, a colmare la distanza e posare le labbra sulle sue con pacatezza, temendo forse un rifiuto. Fu lei, però, ad approfondire il bacio, impaziente, grata di poter ancora sentire la consistenza della pelle di Thorn sulla propria. Anche la pelle infatti aveva un proprio linguaggio, uno di cui loro avevano appena cominciato a scalfire la superficie quando si erano dovuti separare. Finalmente riuniti, avrebbero avuto tutto il tempo necessario per affinarsi e arrivare a conoscere intimamente uno i pensieri dell’altra.
Del resto, che altro potevano fare?
Erano nel qui e nell’ora, e poco importava di come ci fossero giunti e di cosa avessero perso nel percorso per giungervi.
In mancanza di uno specchio, che non avrebbe comunque potuto più attraversare, Ofelia si immerse nello sguardo ricolmo d’affetto di Thorn, che finalmente aveva trovato la persona a cui sarebbe sempre bastato, disposta a rinunciare alla sua stessa vita per stare con lui. Non aveva bisogno d’altro.
La sciarpa si srotolò dal collo di Ofelia per includere nel suo abbraccio di lana anche Thorn.
Ofelia si tuffò dentro di lui.
E il mare di nuvole li avvolse.
Dimenticò se stessa e il suo passato, come per un attraversamento. L’ultimo.
Perché era insieme a Thorn. Il resto non importava.
 
Anche un po’ di più.
  
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