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Autore: Adeia Di Elferas    02/01/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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I giovani faentini che erano stati attaccati al Convento dei Minori Osservati ressero l'attacco per oltre una settimana. Solo quando si resero conto che incaponirsi in quell'eroica resistenza era solo controproducente, si ritirarono in città.

Cesare, che già stava temendo il peggio, non perse tempo e ordinò che quel convento venisse simbolicamente usato come quartier generale dei pontifici.

Per piazzare nel modo migliore l'artiglieria, Cesare chiese consiglio soprattutto ad Achille Tiberti e Dionigi Naldi. Il primo, oltre a conoscere bene la zona, sapeva come i faentini organizzavano la controffensiva, e dunque poteva essere utile per anticipare le mosse del nemico. Il secondo, invece, era animato in quei giorni da una furia tutta sua, che lo rendeva crudele e spietato nei confronti dei faentini, e quindi sapeva suggerire dove colpire per far più male al cuore della città.

Quella reazione era legata a un fatto accaduto a inizio mese, quando Dionigi stava conducendo qualche scorreria nelle campagne lì appresso. Si era imbattuto in Ettore Galli, un prete di Val Di Lamone, cappellano personale, si diceva, di Astorre Manfredi, e nemico personale di lunga data di Naldi.

Quel prete, famose in tutta la Romagna per la sua forza erculea, tale da permettergli di piegare a mani nude un ferro di cavallo, l'aveva attaccato immediatamente non appena l'aveva riconosciuto, e, quando si erano trovati faccia a faccia, aveva disarcionato Dionigi, per poi sollevarlo di peso da terra e issarlo sul proprio cavallo per portarlo a Faenza. Ettore aveva desistito solo perché i fanti del Naldi l'avevano soccorso, ferendo Galli in più punti, convincendolo a lasciare il suo prigioniero e a scappare.

Malgrado il lieto fine della vicenda, però, Dionigi era stato preso di mira da molte battutacce, anche tra i suoi uomini, perché quella scena aveva ricordato a molti il rapimento di una fanciulla a opera di un pretendente respinto e così l'uomo, oltre alla spavento di essere stato quasi portato nella tana del nemico, doveva anche far i conti con quei motti di spirito tutt'altro che piacevoli.

L'unico comandante che davvero mancava al Valentino per starsene tranquillo nel corso di quell'attacco era Giampaolo Baglioni. Pur avendo cercato di trattenerlo, Cesare aveva dovuto lasciare che il perugino tornasse di nuovo in Umbria e, da quello che ne sapeva, doveva trovarsi in quei giorni nei pressi di Fossato di Vico, intento a combattere per il proprio onore contro Carlo Baglioni e Girolamo Della Penna.

Quelle, secondo il Duca di Valentinois, erano poco più che beghe di famiglia, e le riteneva un motivo stupido per lasciare proprio in quel momento la Romagna, tuttavia aveva anche capito quanto fosse importante tenere rapporti distesi con il Baglioni, e quindi non si era permesso di riprenderlo o trattenerlo in modo forzato.

Non appena si mise a discutere con Achille Tiberti e Dionigi Naldi, comunque, il Borja si rese conto che forse il perugino non era nemmeno così indispensabile come avrebbe creduto.

“Attacchiamo massicciamente la rocca.” propose subito Tiberti, indicando con la testa in direzione della fortificazione: “Tutte le bocche da fuoco là contro. Senza risparmio.”

“Al nuovo bastione.” rincarò Naldi: “E se riusciamo a distruggere il ponte che collega la rocca alla città, tanto di guadagnato: isoleremo i pochi soldati buoni che sono rimasti loro dal resto dei faentini.”

Cesare strinse le labbra e poi, scrutando il cielo, che in quel giorno d'aprile sembrava intenzionato a sorridere al loro attacco, chiese: “Cinquecento, seicento colpi potrebbero bastare?”

Achille e Dionigi lo guardarono in silenzio per un lungo momento e poi si fissarono un istante l'un l'altro. La risata che uscì dai loro petti fece vergognare il figlio del papa, che provò un immediato moto di rabbia verso quei due condottieri che si permettevano di prenderlo in giro a quel modo. E tuttavia, non volendo trasformare Faenza in una seconda Forlì, ben deciso a far sì che quella fosse la conclusione della campagna e non solo una penosa stazione di una lunga via crucis, il Valentino evitò di dar sfogo alla propria ira e, per non perdere tempo mise da parte l'orgoglio.

“E allora quanti? Parlate, invece di ridere!” sbottò.

“Non meno di mille.” ribatté Achille, facendosi serio.

“Anche millecinquecento.” convenne Naldi, annuendo piano.

Prima di sera vennero esplosi milleseicentosessanta colpi di cannone.

Si fece una breccia nelle mura della rocca e venne distrutto il ponte che la collegava alla città. I pontifici erano pronti ad sferrare l'attacco decisivo, ma il sopraggiungere delle tenebre fece diventare accorto il Duca, che preferì rinviare l'attacco, con la scusa di riorganizzare le truppe.

Il giorno seguente, così, si preparò un assalto che fosse degno di quel nome. Nottetempo i faentini avevano ricostruito il ponte – grazie, soprattutto, all'aiuto delle donne faentine, che, permettendo agli uomini di riposare, avevano svolto il lavoro di fatica pressoché da sole – e le nuove scariche di bombarda ordinate da Cesare erano riuscita appena a scalfire il mastio, senza lambire più quel prezioso collegamento tra fortificazione e città.

L'attacco era stato pianificato in modo sistematico. Dapprima erano andati in avanscoperta i francesi, ritenuti più temerari, poi gli spagnoli, abili nel forzare l'eventuale blocco di resistenza oltre la breccia, e infine avrebbero dovuto arrivare i soldati italiani.

Il primo slancio, però, venne respinto, con gran perdita di soldati francesi e spagnoli, e tanto bastò a smorzare le velleità dei pontifici sul nascere.

Il figlio del papa non voleva credere a quella che gli sembrava la prosecuzione di un brutto incubo.

Ciò che più lo avviliva era sapere che a Forlì, se non altro, aveva pagato il noviziato e si era trovato contro uno degli eserciti più efficienti e fedeli d'Italia, oltre che contro la Leonessa di Romagna che, seppur donna, poteva annoverarsi davvero tra i migliori guerrieri al mondo. Questa volta, invece, si trovava contro un ragazzino che guidava un'accozzaglia di militari improvvisati, lodevoli per la loro cocciutaggine, ma di fatto, per quanto osannati come eroi da tutti gli altri Stati italiani, non ritenuti comunque abbastanza solidi da meritare un aiuto concreto, che andasse oltre qualche sonetto scritto in loro onore.

Perciò Il Valentino non attese. Per il terzo giorno di seguito ordinò un attacco, ma questa volta lasciò alla guida di seicento uomini Ferdinando Farnese.

Appena dopo mezzogiorno, l'uomo lanciò il grido di guerra e si lanciò con i suoi verso la breccia. I cannoni pontifici, ben calibrati, continuavano a far fuoco, ma in modo da non mettere a rischio i propri commilitoni, mentre il resto dell'artiglieria era pronta a far lavoro di copertura in caso di bisogno.

La reazione a quella nuova aggressione, da parte di Faenza, fu immediata. Non solo i soldati, ma anche i ragazzini, gli anziani e le donne avevano imbracciato le armi si apprestavano a rispedire indietro gli assalitori.

Ferdinando Farnese, però, non si lasciava intimorire da quattro sottane, tre bambini e un paio di vecchi.

Stava filando tutto liscio. I soldati del Borja stavano prendendo piede e il Farnese era sicuro che nell'arco di un'ora, massimo due, sarebbero entrati in città e l'avrebbero conquistata. La breccia si allargava sempre di più e tra la polvere e il fumo delle bombarde era difficile vedere al di là del proprio naso, ma Ferdinando sapeva che la fortuna stava sorridendo loro.

“Avanti!” gridò, appena cinque minuti dopo lo scoccare dell'una di pomeriggio: “Avanti! Faenza è nostra! È nost...” la voce gli morì in gola.

Aveva alzato la celata dell'elmo proprio per far fronte alla scarsa visibilità e per respirare meglio, e così facendo aveva esposto il viso e, soprattutto, la gola più del dovuto. Era bastata la punta di una lama nemica, per incidere la pelle nivea del suo collo e farne zampillare tanto sangue quanto ne aveva in corpo.

Vedendo crollare in terra quel condottiero, che con tanta naturalezza aveva ucciso e distrutto, guidando i suoi a quella che era parsa una vittoria semplice, molti soldati tentennarono. Quel freno, dovuto allo sbigottimento di aver visto morire così in fretta il Farnese, costò la vita a molti, che, impreparati, vennero infilzati dalle spade nemiche, o colpiti dalle mazze faentine.

Colmo di sventura, mentre già la truppa vacillava, un tiro fuori misura di una bombarda colpì una loggia della rocca, che rovinò travolgendo un po' di faentini, ma soprattutto molti pontifici, uccidendoli tutti sul colpo.

Senza che nessuno desse l'ordine, gli uomini del Duca di Valentinois si ritirarono di corsa per la terza volta in tre giorni.

Costernato, Cesare non poté far altro che osservare impotente quello che i suoi soldati stavano facendo, e, ritiratosi nel proprio padiglione, cominciò a ragionare sul da farsi.

Passò un giorno e quasi una notte intera, quando al campo, coperto dalle tenebre e da un mantello spesso e scuro, arrivò un certo Bartolomeo Garminante che chiese di essere ricevuto dal Valentino in persona.

Il figlio del papa, informato del fatto, si agitò. Temeva si trattasse di una trappola, dato che l'uomo arrivava, per sua detta, da Faenza. Tuttavia l'esperienza maturata a Imola e poi a Forlì gli aveva fatto capire quanto fosse importante dare udienza a un certo tipo di fuoriusciti, perché un tradimento, spesso, faceva vincere le guerre molto più facilmente dei cannoni.

“Chi siete?” gli chiese, quando l'ebbe davanti.

L'uomo, con il capo chino e il volto cupo, lanciò una brevissima occhiata al Borja e poi a Michelotto, che gli stava alle spalle, e infine rispose: “Bartolomeo Garminante, della parrocchia di San Lorenzo.”

“E cosa sei?” indagò Cesare, allacciandosi le mani dietro la schiena e scrutandolo alla luce delle torce.

“Un tintore.” rispose quello, con un filo di voce.

“E cosa sei venuto a fare qui, tu, un tintore, nella tenda di un uomo del mio rango?” lo incalzò il Valentino.

“Posso dirvi come fare per attaccare Faenza – disse a voce ancor più bassa il tintore – e posso assicurarvi che Faenza è ormai senza cibo e senza speranza.”

“Spiegati meglio.” il Duca era tutt'orecchi, anche se il timore che quella delazione fosse frutto di una visione parziale e tendenziosa della realtà frenava un po ' il suo entusiasmo.

“Posso dirvi da che lato attaccare per espugnare le mura, tanto per cominciare.” rispose Bartolomeo, acquistando un po' di sicurezza.

Cesare scambiò uno sguardo d'intesa con il Corella e poi, sollevando appena il mento, disse a Garminante: “Avanti, parla.”

Il tintore rimase a colloquio con il Valentino fino all'alba. Quando il sole spuntò su quel 22 aprile, però, Bartolomeo non lo vide.

“Quest'uomo era un traditore – spiegò Cesare, mostrando il cadavere del tintore ai suoi soldati – si è macchiato del più bieco dei crimini: tradire chi fino a ieri gli ha dato da mangiare e da vivere. Io, in qualità di tutore della legalità e della giustizia, l'ho punito con la morte. Che sia di monito a tutti.”

L'annuncio venne preso con un misto di motti e grida, sia di chi era del tutto d'accordo con il proprio signore, sia di chi ne temeva la furia, sapendo di non essersi sempre comportato come un soldato fedele.

“Quell'uomo avrebbe potuto esserci utile.” gli fece notare Tiberti, non appena la confusione generale si placò.

“Quello che doveva dire ce l'ha detto.” sorrise il Borja: “La gola gliel'abbiamo tagliata solo quando non ci serviva più, state tranquillo.”

Achille si accigliò e poi chiese: “E quindi adesso che faremo?”

“So dove attaccare e quando. Tenete pronti i fanti: ormai è quasi tempo che Faenza vesta la porpora di San Pietro.” ghignò il Duca.

 

Astorre non aveva dormito per tutta la notte. Si era fatto giorno da poco e dal campo borgiano non si sentiva arrivare il minimo rumore.

Giovanni Evangelista, suo fratellastro, lo aveva messo a parte della fuga dalla città di un certo Bartolomeo Garminante, un tintore. Era noto per la sua tendenza a farsi lusingare dai soldi più di quanto fosse lecito per un uomo timoroso di Dio e quindi tutti avevano subito capito che il suo lasciare Faenza doveva significare un tradimento.

Il giovane signore di Faenza si allacciò le mani dietro la schiena e camminò per un po' avanti e indietro nella sua stanza. Era fine aprile, ormai. Fuori si poteva sentire il profumo di una primavera pronta a esplodere, ma il quindicenne non avvertiva nessuna attrazione verso quella stagione di norma tanto cara ai suoi coetanei. Per lui, il freddo delle giornate nevose dell'inverno appena finito non se n'era mai andato.

Mancavano, ormai, a Faenza uomini, viveri e minuzioni. Il Manfredi aveva voluto dar retta a Bernardino da Marzano, concedendo ancora quattro giorni di fiducia a tutti quelli che avevano promesso loro un aiuto. I Capitoli, però, si erano espressi per la resa – in termini onorevoli, ma comunque per la resa – e in effetti il tempo stava scadendo e né Bologna, né Venezia, né Firenze avevano ancora inviato mezzo uomo in loro soccorso.

Con il tradimento quasi certo, poi, di quel tintore, di certo ormai i pontifici sapevano quando, dove e come attaccare la città. E se li avessero presi a quel modo, non ci sarebbero più state ballate a raccontare le gesta eroiche dei faentini, né pietà per i vinti, né rispetto per il gli anziani e le donne caduti prigionieri dei nemici.

Con un sospiro greve, Astorre, ancora in abiti da camera, uscì dalla stanza per chiamare a sé il fratellastro.

Giovanni Evangelista accorse e, non appena furono di nuovo soli, il ragazzino, con un'espressione malinconica in volto, disse: “Dobbiamo radunare il Consiglio: è tempo di stilare i nostri termini per la resa.”

 

Il 25 aprile, sotto il cielo terso che sovrastava Faenza, Cesare Borja accettò senza alcun problema tutti e venti i capitoli della resa proposta da Astorre Manfredi.

Trai punti principali, che fecero quasi sorridere il Valentino, c'era la promessa di eliminare ogni censura, quella di lasciare salvi e liberi tutti i Manfredi, così come tutti i sudditi, senza nemmeno privarli dei loro beni personali, che il Duca non entrasse in città con l'esercito, ma che mettesse solo il necessario numero di soldati nella rocca per governarla, si garantiva anche che la legge in vigore sarebbe stata mantenuta e che di fatto venisse concesso l'onore delle armi ai soldati di Astorre.

Addirittura, firmando, il Borja si accollava l'onore di risarcire per i danni subiti in guerra, tutti i faentini che ne avessero fatto richiesta.

Chiunque avrebbe potuto capire che la cedevolezza del Valentino era eccessiva e sospetta, ma non il giovane Astorre, animato ancora da un'ingenuità che al Duca risultò quasi stucchevole. Nemmeno Giovanni Evangelista parve farsi troppi problemi, per la facilità con cui il figlio del papa aveva detto di sì a tutto. In un certo senso, al Borja sembrava di prendersi gioco di due bambini.

Lo stesso 25 aprile, Cesare mandò subito Miguel de Corella a occupare la rocca di Faenza con cinquecento uomini, molti di più di quelli strettamente necessari di cui si parlava nel documento di resa. Il giorno dopo, poi, nominò un suo fantoccio, Juan Vera, Cardinale, legato pontificio, e lo mandò in città affinché la popolazione giurasse fedeltà al Vaticano tramite lui.

Infine, la sera del 26, verso le nove, pretese che Astorre e il fratellastro uscissero da Faenza per inchinarsi a lui, sancendo così il passaggio di proprietà della città.

Dopo la scenetta, più a uso e consumo dei suoi uomini che altro, il Valentino tenne presso di sé, a cena, i due ragazzi, ben deciso a capire cosa prevalesse davvero nei due Manfredi, se il sangue antico che scorreva nelle loro vene, o la vanesia ingenuità che sembrava averli mossi fino a quel momento.

Alla fine della cena, quando avrebbe dovuto rendere a Faenza il suo vecchio signore e Giovanni Evangelista, il Borja tergiversò e li fece attendere. Chiamò al campo Michelotto e, dopo avergli parlato per meno di un minuto, fece un cenno con il capo.

Prima che sorgesse il sole sul nuovo giorno, Astorre e il fratellastro avevano già lasciato il confine faentino, legati e imbavagliati, scortati dal Corella verso gli Appennini, destinazione Roma.

 

Anche se era passato qualche giorno Cesare era ancora molto perplesso dalla richiesta di Vitellozzo Vitelli, ma alla fine aveva ceduto. Il vedere un uomo della sua tempra inginocchiarsi davanti a lui e quasi mettersi a piangere pur di ottenere il suo benestare l'aveva fatto cedere.

Ora che Faenza era presa, poi, il Valentino era certo che lasciare un po' di sfogo ai suoi condottieri non sarebbe certo stato un male. Così aveva permesso al Vitelli – mandato in avanscoperta verso Bologna – di catturare, se mai ci fosse riuscito, Pirro da Marciano, fratello di Ranuccio, a Medicina e poi di danneggiare i fiorentini, presenti sul confine, per vendicarsi della morte del fratello Paolo.

Allo stesso modo aveva accettato la proposta di mettersi al suo servizio di Melchiorre Ramazzotto, accettando la sua iniziativa di partire per Firenzuola alla testa di mille uomini, in modo da preparare il terreno al Borja. Quello, in realtà, era stato un mezzo problema, perché subito dopo il suo arrivo in loco, era stato respinto dal Capitano fiorentino Ceccotto Tosinghi, e per ripicca si era dato alla depredazione delle campagne. Cesare aveva già dovuto scusarsi formalmente, dato che Firenze, almeno sulla carta, non era loro nemica.

Tutto si era acquietato quando lui non si era opposto all'imposizione di una taglia su Ramazzotto da parte dei fiorentini: duemila ducati morto, tremila vivo e in ambo i casi la cancellazione di un eventuale bando da Firenze per l'autore della cattura e per due suoi amici.

Ora che gli era giunta ufficialmente notizia della sua elevazione a Duca di Romagna da parte di suo padre il papa, Cesare si sentiva potente come un Dio e quasi si divertiva, a giostrarsi tra quelle diatribe.

“Mio signore...” uno degli attendenti del Duca aveva fatto capolino nella sua tenda.

Si stavano muovendo, anche se lentamente, verso Bologna, seguendo vagamente le orme di Vitellozzo. Anche se probabilmente il re di Francia li avrebbe frenati a Castelbolognese, Cesare voleva provare a espandere il più possibile verso nord il suo nuovo regno.

“Che c'è?” chiese, annoiato, il Valentino.

Il giovane si schiarì la voce e riportò: “Messer Vitelli ha catturato Pirro da Marciano, l'ha decapitato e l'ha gettato nel fossato del castello di Medicina con un masso al posto della testa.”

“C'è altro?” domandò di rimando il figlio del papa, trovando quella notizia quanto di più prevedibile possibile.

“Ecco, è entrato in scontro con dei fiorentini – il tono del soldato si era fatto più teso – e si è mosso verso Empoli.”

Cesare ebbe un attimo di interdizione. Non erano quelli i patti. Vitellozzo si era lasciato prendere la mano, ma quel suo gesto andava a pregiudicare, forse, la loro riuscita nella seconda parte del progetto di conquista.

“E..?” lo incalzò il Duca di Valentinois, ormai in piedi, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo che saettava sul volto dell'attendente.

“Ha saccheggiato le campagne, distrutto i campi di frumento e sradicato alberi e viti.” proseguì il ragazzo, deglutendo rumorosamente: “E ha catturato donne, ragazze e bambine, dando ordine di portarle a Roma, e venderle ai postriboli e ai lenoni come meretrici.”

Il Borja si rabbuiò. Il Vitelli era andato ben oltre quello che gli era stato concesso. Ciò che aveva fatto non era stato vendicare un fratello morto, ma offendere Firenze. Fosse dipeso da Cesare, non gli sarebbe importato, anzi, gli avrebbe chiesto di andare avanti così, ma sapeva che il papa non avrebbe accettato quell'esagerazione.

“Io devo...” cominciò a dire il Borja, ma una forte esplosione lo distolse da ogni altro pensiero, portandolo, come l'attendente, a correre fuori dal padiglione.

Seguendo la colonnina di fumo che si alzava da un punto periferico del campo, Cesare arrivò all'origine dell'esplosione.

“Stavano controllando quel cannone – spiegò un soldato che era lì vicino, stordito e sporco, ma tutto intero – e all'improvviso è scoppiato tutto!”

Il Duca si avvicinò con cautela, come stavano facendo altri. Tra il fumo che iniziava a diradarsi, l'odore di bruciato e l'erba completamente carbonizzata, riconobbe uno dei suoi migliori artiglieri e poi, quasi del tutto sfigurato, ma ancora ben riconoscibile dal naso, riconobbe anche Achille Tiberti.

Oltre a loro due, una dozzina di altri uomini giaceva in terra senza vita, chi più e chi meno riconoscibile. A molti mancavano pezzi di arto, e un paio erano addirittura stati decapitati dalla violenza dell'esplosione.

Il Valentino, però, aveva occhi solo per Tiberti. Non gli era mai piaciuto, ma gli era sempre stato utile. Sentendo il fato di nuovo a lui avverso, si chinò sul cadavere del cesenate e, dopo un brevissimo momento di raccoglimento si rialzò.

“Pulitelo e ricomponetelo – ordinò, indicando il cadavere di Achille – e poi fate in modo che venga sepolto a Cesena con tutti gli onori.”

 

Caterina era sveglia e presente a se stessa. Erano ormai giorni che si sentiva così. Credeva che buona parte del suo miglioramento fosse dovuto al cambiamento del clima.

Doveva essere ormai primavera inoltrata e il freddo si stava placando perfino nelle viscere di Castel Sant'Angelo. Certo, quando scendeva la notte, la temperatura scendeva tanto da farle ancora battere i denti, ma di giorno la luce che filtrava dalle feritoie che affacciavano sul cortile le lasciavano immaginare lunghe giornate di sole, tiepide e tranquille.

Stava quasi raggiungendo, se così la si poteva davvero definire, una sorta di placida rassegnazione, un equilibrio che la portava a restare immobile per buona parte del suo tempo, riducendo gli sforzi al minimo, giusto per mangiare qualcosa – ormai era di nuovo autonoma nei pasti, che le venivano serviti dal carceriere a cadenza quotidiana e in quantità leggermente migliore rispetto a prima – e per adempire ai suoi bisogno fisiologici, per il resto non alzava nemmeno un dito, cosciente che più forze risparmiava, più tempo avrebbe resistito.

Frate Lauro le aveva dato speranza, le ultime volte che l'aveva visto nella sua cella, e quella fiamma accesa nel suo petto non si era più spenta. Non poteva sapere che stesse accadendo fuori da lì, ma era certa che qualcosa di grosso fosse successo e che, nel bene o nel male, la risacca di quella grande onda sarebbe arrivata a lambire anche lei, strappandola dall'inerzia insopportabile della sua prigionia.

Non teneva mai ferma la mente, convinta che non perdere il senno fosse la sua arma migliore, se mai avesse potuto rimettere piede fuori da lì. E così ragionava sui massimi sistemi, rispolverava le sue conoscenze alchemiche, ragionava sulla strategia militare e, perfino, si ripeteva a memoria poesie e prose che le erano state care prima di diventare la schiava dei Borja.

Era proprio immersa nella – difficile – revisione mentale di una novella di Boccaccio, quando sentì un frastuono incredibile arrivare da oltre la porta. Avrebbe voluto avvicinarsi per capire chi stesse parlando e cosa stesse dicendo, ma la paura la relegò in un angolo della cella, impedendole di muoversi.

Quando gli uomini che vociavano furono proprio all'altezza della sua porta, riuscì a capire qualcosa in più. Stavano portando un prigioniero, o forse due, in gabbia.

“I patti non erano questi!” sentì gridare la voce di un ragazzo che non conosceva: “Avevate promesso a me e ad Astorre la libertà! Che uomini siete? Che cosa credet...” la sua recriminazione si spense in un gemito strozzato di dolore, e presto il corteo tornò ad avanzare.

Caterina non sapeva dire se avesse sentito bene o bene, ma se davvero era stato citato un Astorre, per lei il quadro si faceva chiaro: Faenza era davvero caduta e il giovane Manfredi, assieme a un altro ragazzo – ovvero quello che lei aveva sentito gridare – erano stati catturati e portati lì a Roma, a Castel Sant'Angelo.

Si sentì cattiva a reagire a quel modo, ma non riuscì a trattenere una risata, vuota, quasi folle, ma liberatoria. Dunque era successo davvero: le acque si erano mosse. In quella tempesta, lei non poteva restare immobile sul fondale, aveva ragione frate Lauro. Prima o poi qualcuno se la sarebbe ricordata e l'avrebbe ripescata per usarla come merce di scambio o recriminazione.

Appoggiando la nuca alla parete e guardando in alto, verso i raggi del sole di maggio che filtravano timidi fino a sfiorarle il viso, la Tigre si permise di piangere, di provare sollievo e di illudersi.

Voleva credere con tutta se stessa che qualcosa sarebbe accaduto. Liberata, giustiziata, scambiata con altri prigionieri: tutto le andava bene, tutto, pur di non restare ancora per giorni, settimane, mesi e anni rinchiusa in una cella buia, celata al mondo, ad aspettare solo che il tempo passasse...

   
 
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