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Autore: Adeia Di Elferas    09/01/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Fortunati aveva bussato alla porta degli Scali ben prima che sorgesse il sole, eppure, ben addestrato ad aprire a qualsiasi ora l'uscio al piovano, il serve più fedele di Madonna Scali lo lasciò passare immediatamente.

L'uomo, con il volto celato in parte dal cappuccio – benché quella tiepida mattina di fine maggio non richiedesse di star troppo coperti – chiese di poter incontrare il prima possibile la padrona di casa, e anche Galeazzo Riario, perché doveva discutere urgentemente di alcuni fatti con loro.

“Che succede, Francesco?” chiese la donna, con indosso la vestaglia a coprire gli abiti da notte, mentre faceva segno al religioso di mettersi pure sulla poltrona davanti al camino appena acceso.

La luce tremolante delle fiamme si rifletteva sul volto teso di Fortunati in un modo strano, tanto che Galeazzo, per qualche momento, ebbe paura. In tutti quei mesi, il piovano non era mai arrivato a un'ora tanto strana al palazzo, né con aria così trafelata. La sensazione che portasse con sé brutte notizie non voleva quindi lasciare il ragazzo, che, in abiti da camera, si stringeva nelle spalle, scosso da un breve tremito, nemmeno fosse ancora inverno.

“Forse siamo vicini a una svolta.” disse Francesco, cauto: “Questo è un momento molto delicato.”

“Spiegatevi.” lo incalzò Alessandra, portandosi una mano alle labbra e trattenendo il fiato.

“In queste settimane ho cercato di oliare come potevo gli ingranaggi che conosco.” iniziò il religioso: “E gli Otto di Balia hanno cominciato a darmi retta, specie dopo i primi attacchi del Valentino ai nostri, sul confine.”

Spiegò in fretta come l'assedio di Piombino, a opera di Dionigi Naldi e di Giampaolo Baglioni – il quale, pareva, aveva finalmente portato a compimento buona parte della sua vendetta in Umbria – si fosse dimostrato un duro colpo per l'orgoglio fiorentino, e, in via più sfumata, anche per Lorenzo il Popolano, dato che Jacopo Appiani, signore di Piombino, era suo cognato.

Raccontò anche dei malumori nati dall'infruttuoso parlamentare tra il Duca di Valentinois e i due legati fiorentini, ovvero Piero Soderini e Benedetto Nerli. Il fatto, poi, che i pontifici si fossero stanziati a Campi Bisnzio, devastando di fatto il contado circostante, era parso un ulteriore affronto su cui era difficile passar sopra.

“Senza contare – soggiunse Francesco – che le mal celate simpatie di Vitellozzo Vitelli ed Ercole Bentivoglio per Piero il Fatuo stanno innervosendo molto Lorenzo...”

“Arrivate al punto, ve ne prego.” lo incitò la Scali, che cominciava a intravedere il punto di arrivo del discorso dell'amico, ma che non si azzardava a essere troppo ottimista.

“Adesso al sud la situazione si sta complicando.” fece il piovano, guardando sia la donna sia Galeazzo: “I francesi si sono appattati con il re di Spagna, e per Napoli sembra che stia per giungere la fine.”

“Stanno vincendo la guerra...” commentò piano il Riario.

“Esatto. E quando Napoli sarà saldamente loro, i francesi non tollereranno certo di trovarsi in cattivi rapporti con Firenze per colpa del figlio del papa.” commentò il piovano: “Vostra madre potrebbe essere una leva importante, per i francesi, per rimettere al suo posto il pontefice e Cesare, e Firenze farà pressioni affinché sia così.”

“Come fate a dire che Firenze sarà così benevola con nostra madre?” chiese Galeazzo, sporgendo un po' in fuori il mento: “Lorenzo è ancora uno degli uomini più potenti della Repubblica. Se potrà evitare di farla liberare, state certo che...”

“Qualcosa sta cambiando.” lo interruppe Francesco: “Dionigi Naldi stava tornando in Romagna, con Ramiro di Lorca e Piero Gambacorta, passando dalla Val d'Arno. I fiorentini hanno reagito, senza aspettare l'ordine espresso dalla Signoria, catturandolo a Montevarchi, e svaligiandolo.”

“Questo non...” cominciò a dire il Riario, che non voleva per nessun motivo illudersi che l'incubo stesse per finire e che, presto, avrebbe potuto rivedere sua madre.

“Questa notte Naldi è stato portato qui a Firenze, al Podestà.” rivelò Fortunati, con tono quasi trionfale: “E vi assicuro che gli Otto di Balia lo hanno fatto torturare, interrogare e rinchiudere alle Stinche.”

Gli occhi sorpresi con cui Galeazzo e la Scali si guardarono portarono il piovano a sentirsi soddisfatto per l'effetto delle sue parole, ma lo indussero anche a farsi più cauto nel suo entusiasmo.

“Probabilmente lo libereranno a breve, ma il messaggio mi pare chiaro.” concluse.

“E quindi adesso che facciamo?” chiese il Riario, accigliandosi.

“Sto cercando di contattare tutti i nostri amici. Adesso anche Paolo Riario è qui in città – rivelò Francesco, curandosi solo in parte della sorpresa vista sul viso di Galeazzo, fratellastro di Paolo – e tutti noi siamo pronti a riaccoglierla qui, costi quel che costi.”

I tre discussero ancora per quasi un'ora dell'intricata situazione politica in cui si trovavano immersi, ma, alla fine, quando decisero di congedarsi, erano tutti abbastanza sicuri che, se giocate con cautela, le carte che si trovavano in mano potevano essere quelle giuste.

“E riguardo al piccolo Giovannino e a vostra sorella Bianca – concluse Fortunati, rivolgendosi al Riario – sarebbe opportuno che, non appena avremo notizie rincuoranti da Roma, venissero a stare anche loro qui... E anche Cesare... Forse... Forse dovrebbe tornare a Firenze, per sicurezza... In quanto a me... Io partirò per Roma il prima possibile.”

 

La notte era scesa a Mantova, spegnendo un 31 maggio straordinariamente fresco, dato il periodo dell'anno. La Marchesa, però, non aveva goduto nemmeno un attimo di quel piacevole clima, perché fin dal primo mattino aveva avvertito dei dolori inconfondibili, che l'avevano portata a passare l'intera giornata in attesa dell'inizio del travaglio.

Questo era arrivato quando ormai cominciava a imbrunire e così, in piena notte, il palazzo dei Gonzaga era tutto un fermento di servi, balie e levatrici, e le urla di Isabella spaccavano le orecchie a tutti quelli che trovavano il coraggio di avvinarsi alla stanza in cui stava partorendo.

Francesco era il primo a non avere un cuor di leone, quella notte, tanto che si tenne accuratamente lontano per quasi tutto il tempo. Non gli sembrava utile, restare troppo vicino alla moglie, anche perché era certo che lei stessa gli avrebbe chiesto di allontanarsi, se avesse avuto abbastanza fiato per gridare di dolore e rimproverarlo contemporaneamente.

In effetti all'Este sembrava di non avere polmoni abbastanza grandi per supplire il fabbisogno di aria che già provava, senza dover mettersi a rimproverare il marito. La ventisettenne non si era mai sentita così provata da un parto, e desiderava solo che finisse tutto presto, e che il figlio fosse maschio, come il suo Federico.

Mentre seguiva le direttive inflessibili della levatrice, stringendo le mani attorno alle braccia di due serve fidate, la donna cercava di distrarsi, per non pensare al dolore, sempre più lancinante, che le toglieva lucidità.

La stanza era troppo buia, secondo lei, ma non aveva la forza di chiedere di accendere altre candele. In compenso trovò la forza di pensare alla caduta di Astorre Manfredi, di cui aveva saputo solo pochi giorni prima. Il faentino era poco più di un bambino e, secondo Isabella, la sua sconfitta era inevitabile, tuttavia l'aveva ammirato per tutto il tempo della strenua resistenza al Borja.

Come seguendo una catena invisibile, mentre il suo ventre si contraeva con violenza, strappandole un urlo dopo l'altro e infradiciandola di sudore, l'Este si chiese che ne sarebbe stato di Napoli e dove fosse sua cugina, Isabella d'Aragona, di cui non aveva avuto più notizie da un po' di tempo.

Si interrogò sulle ambiguità dei fiorentini, dapprima alleati certi dei francesi, e ora pericolosamente in polemica con il papa e con re Luigi, pronti a scaramucciare sui confini con soldati che fino al giorno prima erano stati loro difensori...

Con un grido liberatorio, la Marchesa diede l'ultima spinta chiesta dalla levatrice e finalmente vide il bambino scivolare tra le mani della vecchia donna che l'aveva guidata in quella notte difficile.

Cercando di stringere gli occhi nella penombra fumosa della stanza, mentre riprendeva pian piano fiato, Isabella cercò di capire se il neonato fosse maschio o femmina. Le sembrava solo un corpicino disarmonico e sporco, agitato come un'anguilla e brutto come una larva.

Distolse lo sguardo mentre le aiutanti della levatrice l'aiutavano, e fece un cenno di assenso quando la donna le chiese di aver pazienza, finché anche la placenta non fosse stata espulsa. Aspettò che sistemassero il piccolo e che glielo mettessero tra le braccia, prima di chiedere, con voce roca, che cosa fosse.

“Una bellissima bambina.” rispose con un sorriso un po' tirato una delle balie.

L'Este guardò il fagottino con freddezza e poi, voltando la testa dall'altra parte, ribatté: “Sono debole, non voglio tenerla tra le braccia.”

“Dovreste provare a mettervela al seno...” tentò di ammorbidirla una della serve.

“Per quello ho le balie.” ribatté la Marchesa, scontrosa: “Non sono certo una giumenta da mungere, io.”

Passarono alcune ore, prima che la donna riuscisse a riprendersi del tutto e la bambina, accudita dalla balia, venisse sistemata un momento nella sua nuova culla. Solo allora arrivò Francesco.

Dall'espressione felice, ma non euforica che campeggiava sul suo viso, la moglie capì che l'uomo già sapeva di essere di nuovo padre di una bambina.

“Isabella...” cominciò lui, guardingo, avvicinandosi un po' al letto.

“Vorrei tanto poter dare la colpa a un altro uomo, per quest'altra figlia inutile – fece lei, con un filo di voce, senza guardarlo – ma purtroppo non posso.”

Quella conferma di paternità, che solo qualche giorno prima avrebbe rasserenato Francesco – mai convinto fino in fondo di essere davvero il padre della nuova creatura che la moglie portava in grembo – in quel momento gli arrivò invece come una pugnalata tra le scapole.

“Ma che dovevo aspettarmi?” soffiò di nuovo lei, muovendosi appena tra le lenzuola, la fronte ancora imperlata di sudore e una debolezza incoercibile a renderle difficile anche il più piccolo gesto: “Forse è già tanto che tu mi abbia dato almeno un figlio maschio. Due, per te, sarebbero stati troppi...”

Il Marchese di Mantova preferì non attaccarsi a quel pretesto per iniziare un litigio, così, spento e avvilito, si avvicinò alla piccola. La bambina, ignara, dormiva beata e silenziosa, ignara del rifiuto che sua madre aveva già espresso in modo abbastanza chiaro verso di lei.

“Come la chiameremo?” chiese l'uomo, tenendo le spalle alla Marchesa.

“Chiamala come ti pare.” ribatté lei.

“Avevamo detto che per una Gonzaga sarebbe stato un bel nome Ippolita...” sussurrò lui, sfiorando con il grosso indice la guancia tonda e rosea della piccola, che, in reazione, schiuse appena gli occhi, ridotti ancora a una fessura.

“Te l'ho detto – ripeté la donna – chiamala come ti pare. E ora lasciami in pace, ho sonno, e sono stanca...”

Lui non disse altro, e lasciò la camera, ma, appena fuori, intercettò una delle balie e le ordinò: “Vi prego: non lasciate mia moglie da sola con la bambina. Mai.”

 

Alessandro VI si passò la pezzuola bagnata sul collo e poi tornò a scrutare fuori dalla finestra. Il settantenne non ricordava di aver mai patito il caldo come in quel giugno. Sudava come un matto e, anche se c'erano state delle piogge, nei giorni addietro, che avevano di fatto alleggerito il clima di Roma, gli sembrava che l'aria fosse rovente e irrespirabile.

A volerci ragionare a mente fredda, sapeva che quella sua sensazione di essere sul punto di scoppiare dal caldo era legata perlopiù allo stato d'ansia di cui non riusciva a liberarsi nemmeno in piena notte, eppure si ostinava a dare la colpa al caldo.

Mentre osservava lo stralcio di Urbe che poteva intravedere dai suoi appartamenti, non riusciva a pensare a tutti i romani che si godevano un giovedì sera uguale a tanti altri, ma benedetto da una lieve brezza che spirava da ovest. Riusciva solo a pensare a Giovan Francesco Sanseverino, che aveva avuto l'ardire di passare per Roma con ottomila fanti, tra svizzeri, guasconi, piccardi e normanni, ottocento lance, un numero indefinibile di cavalleggeri, arcieri a cavallo e con ben trentasei pezzi di artiglieria.

Il papa in persona aveva potuto contare ventiquattro falconetti e dodici cannoni. E, come se non bastasse, il mercenario – che era diretto a Napoli, per combattere contro gli aragonesi – aveva fatto il Dio in terra, prima provocando e poi sedando una rissa enorme tra i suoi soldati e i cittadini di Roma, scavalcando de facto l'autorità del papa.

Quasi in risposta a questa prova di arroganza, Prospero Colonna aveva lasciato sotto sorveglianza Marino e Rocca di Papa ed era corso al sud, alla difesa di Napoli, sfidando, in senso lato, il pontefice, che invece parteggiava per i francesi.

E, infine, mentre Vitellozzo Vitelli faceva, incredibilmente, il suo dovere senza troppe sbavature, lasciando Piombino e andando a Pisa con quasi mille tra armigeri, cavalleggeri e provvigionati, convincendo i pisani a non trattare con Firenze, Ercole Bentivoglio faceva al contrario il pazzo.

Dapprima il bolognese aveva dato manforte a Vitelli a Pisa, con tremila fanti e trecento cavalleggeri, e mettendo sotto assedio la città, ma poi, dimenticandosi di essere in guerra e non a una festa di cortigiane, aveva accantonato tutto quanto per occuparsi della questione di sua moglie.

Non si sapeva chi, né come, ma qualcuno l'aveva convinto che le accuse di adulterio mosse contro Barbara Torelli erano infondate e così Ercole aveva dato ordine di liberarla. Barbara, però, ben lungi dal ritenere la questione chiusa, era scappata a Urbino dalla madre, e aveva accusato pubblicamente il Bentivoglio di aver cercato più e più volte di venderla per soldi o favori, per una notte o due al massimo, a qualche suo amico o a dignitari stranieri.

Ercole si era così trovato impantanato in una diatriba a distanza che gli aveva solo lasciato un gran mal di fegato, le figlie e la dote della moglie. Il papa sarebbe anche stato contento per la figuraccia fatta da quel borioso di un bolognese, se non fosse stato che tutto quel trambusto l'aveva completamente distolto dal suo unico impegno: la guerra.

Il papa stava borbottando tra sé degli improperi contro Ercole, quando sentì la porta alle sue spalle aprirsi. Già pronto a scagliarsi contro il cubicolare di turno per non aver nemmeno annunciato il proprio arrivo, rimase attonito, quando vide davanti a sé suo figlio Cesare.

“Che ci fai qui?” fu l'unica cosa che riuscì a dire.

Il Valentino se ne stava in piedi, fermo davanti alla porta. Indossava abiti da viaggio, sporchi di polvere, e i suoi capelli erano spettinati e disordinati, come la barba che cresceva rada tra le cicatrici luetiche che gli coprivano buona parte del viso. Il giovane era partito alla chetichella, lasciando la Romagna senza dirlo quasi a nessuno, e, appena dopo il tramonto di quel 17 giugno, era arrivato in città. Gli ci era voluta qualche ora per trovare il coraggio di presentarsi al padre, certo che l'uomo non avrebbe apprezzato la sua iniziativa, ma alla fine si era deciso a palesarsi.

“L'esercito francese è vicino a Roma.” disse piano Cesare: “Sapete perché sono qui.”

Alessandro VI si accigliò: in tutta sincerità non vedeva nemmeno un motivo per cui suo figlio dovesse essere lì in quel momento. Anzi, era così contraddetto da non riuscire nemmeno a corrergli incontro e abbracciarlo, salutandolo come un padre avrebbe salutato un figlio appena arrivato dal fronte di guerra.

“Volevo assicurarmi che ciò è mio resti mio.” spiegò il Duca di Valentinois.

Solo allora il pontefice capì: “Sei impazzito o cosa?!” sbottò, diventando subito paonazzo: “Hai lasciato il tuo esercito per paura che ti portino via quella donna?! Ma che hai nella testa?!”

“Siete voi che non ragionate!” si difese il Borja più giovane, facendo comunque un passo indietro, per sottrarsi all'avanzata del padre: “Ma non lo capite? I francesi, i fiorentini, perfino l'Imperatore adesso... Tutti vogliono usarla contro di noi! La pretenderanno e...”

“Non sono cose di cui ti debba occupare tu.” concluse il Santo Padre, abbassando sensibilmente il tono della voce: “Tu dovevi occuparti della Romagna.”

“Non sapete quanto mi è costato, prendere Caterina Sforza.” si impuntò Cesare.

“Ormai sei qui e non voglio cacciarti.” cercò di calmarsi Rodrigo, allacciando le mani dietro la schiena per impedirsi di alzarle contro il figlio: “Ma vedi di limitare i danni. Potrai restare, per qualche giorno, ma appena ti sarà chiaro che non succederà nulla, tornerai in Romagna. Intesi?”

Cesare sporse il mento in fuori e poi, con uno sbuffo, fece un breve cenno d'assenso.

Lasciò subito gli appartamenti del padre, insensibile alla sua richiesta di restare a palazzo, per la notte. Cenò in una locanda, bevendo molto più di quanto fosse abituato a fare. Lasciò detto al suo attendente, che l'aveva scortato fin lì, che sarebbe andato in giro per bordelli, e, invece, non appena accostò il fiume, prese subito la via di Castel Sant'Angelo.

Si fece riconoscere senza problemi dalla guardie e si fece accompagnare fino alle segrete. Il buio della notte di Roma non era nulla, in confronto alle tenebre che regnavano là sotto.

Si fece dare una torcia e chiese che aprissero la cella della Tigre, e poi disse solo: “Aspettatemi qui, non entrate.”

Caterina aveva sentito la voce del Valentino e l'aveva riconosciuta subito. Aveva creduto a un incubo a occhi aperti, ma quando l'uomo aveva avvicinato a lei la fiaccola per guardarla in viso, il calore del fuoco le aveva fatto capire che era tutto reale.

“Sei ancora viva.” disse piano il giovane, scrutandola con sdegno, come se quel fatto equivalesse a un'offesa personale.

“Lo sei anche tu.” ribatté con voce roca, ma ferma, la donna, che pure tremava come una foglia, preda di un panico che non provava da tempo: “Ma in fondo lo dicono: l'erba cattiva non muore mai.”

Il Duca sbatté un paio di volte le palpebre, mentre Caterina, anche se accecata dalla luce della torcia, teneva fisse le iridi su di lui, senza mai chiudere gli occhi nemmeno un istante.

“Sappi che adesso sono a Roma.” fece presente lui, con l'alito che puzzava di vino stantio.

“Questo lo vedo anche io.” la Leonessa rispondeva in automatico, mostrandosi altera e sprezzante, ma in realtà aveva i crampi allo stomaco, avrebbe voluto piangere e scappare nell'angolo più buio della sua cella.

Ritrovarsi davanti il Valentino, sentire il suo respiro, vedere la sua faccia, la stessa che aveva visitato spesso i suoi incubi, la stava annichilendo.

“Ma guardati...” borbottò lui, inclinando la testa di lato: “Eri la donna più desiderata d'Italia, adesso sei solo una vecchia che marcisce nel suo stesso lerciume.”

“Hai altro da dire?” chiese la donna, abbassando lo sguardo e fingendosi quasi annoiata da quella conversazione.

In uno scatto fulmineo, il Valentino le afferrò il mento con una mano, costringendola a guardarlo di nuovo. Caterina non si trattenne più e scoppiò a piangere. Si vergognava per la propria debolezza, ma non poteva far altro. Il tocco del figlio del papa era lo stesso di mesi e mesi prima. In un certo senso, la Tigre si rese conto di non essere mai uscita dalla stanza del palazzo dei Numai in cui il Borja le aveva usato violenza al solo scopo di umiliarla e ferirla.

Cesare, un po' spiazzato da quella reazione, lasciò la presa di colpo, facendo vacillare la donna che, da seduta che era, si trovò sdraiata in terra, rannicchiata in posizione di difesa. Senza riuscire a dire nulla, il Duca di Valentinois le voltò le spalle e uscì dalla cella, facendola ripiombare nel buio.

Rimasta sola, Caterina ci mise ore a riprendersi dai singhiozzi e dal pianto. Si era auspicata un cambiamento, ma mai aveva pensato che lui sarebbe tornato a Roma. Era stata pronta ad accettare la forca, ma non a rivedere il suo carnefice.

Stremata, affranta e preda di nuovo dei fantasmi che l'avevano seguita fin da bambina, fin dal disgraziato giorno in cui Girolamo Riario era entrato per la prima volta nella sua vita, la donna si coprì il viso con le mani e pregò Dio con tutte le sue forze affinché la strappasse da Cesare Borja, facendola morire lì dove si trovava. La morte era una sorte ben più clemente che non tornare tra le grinfie del Valentino...

 

Anche quella sera, Yves d'Alégre non aveva sentito parlare d'altro se non delle colpe dei Borja. Il campo, ora stanziato a Orvieto, era abbastanza vicino alla città da permettere un vivo scambio di informazioni con la popolazione del luogo, ma, come un martello che picchia sempre sulla stessa incudine, tutti quelli a cui il francese aveva rivolto la parola, avevano finito per parlare dei crimini borgiani.

“Dopodomani, che è domenica – gli disse l'oste, padrone della locanda in cui si era fermato per cena, proprio allo scopo di carpire qualche informazione in più – venite a Messa a Orvieto e sentirete che anche il prete ce l'ha con il papa.”

“Ma c'è qualche motivo in particolare? A parte tutto quello che mi avete già detto...” indagò Yves, cercando di parlare con il suo miglior italiano, per farsi capire appieno.

“Tutto quello che vi ho detto.” ribatté il locandiere: “E la storia della Tigre di Forlì.”

L'Alégre si accigliò. Nel corso delle ultime settimane, scendendo verso Roma, aveva sentito parlare sempre più spesso della Sforza. All'inizio si trattava solo di canzoni e sonetti a lei dedicati, che ripercorrevano ancora la sua eroica resistenza a Forlì, ormai oltre un anno e mezzo addietro. Solo ultimamente, invece, aveva sentito dire strane cose sulla sua prigionia, e si stava facendo convinto sempre di più che il pontefice non fosse stato di parola, assecondando le mire del figlio, più che i patti stretti con re Luigi XII.

L'oste, raccontando di come il Valentino ne avesse fatta una schiava e una prigioniera della peggior specie – tanto che, diceva, in molti si stavano convincendo che in realtà fosse già morta da molto tempo – e poi concluse: “E poi voi francesi parlate d'onore...”

Yves interruppe il discorso, pagò in fretta e tornò al campo. Per tutta la strada ragionò a lungo su quanto aveva ascoltato e finalmente fece quadrare tutte le cose che aveva sentito dire nel corso dei mesi. Ora capiva tutte le ingiurie che si era sentito lanciare e anche l'ironia mostrata da alcuni uomini vicini al Vaticano...

Gli era ormai chiaro quanto fosse stato cieco, quanto avesse sbagliato nel lasciare Caterina Sforza in mano cupidigia del Balì di Digione prima e della gratuita cattiveria del Duca di Valentinois poi.

I Borja si erano presi gioco di lui e del suo onore. Lui si era fatto mallevadore di un patto dai termini ben precisi, e loro avevano calpestato la sua parola infrangendo quell'accordo stretto con il re di Francia, facendo passare lui stesso per spergiuro.

Yves, nel suo padiglione, ancora insonne, benché ormai stesse arrivando l'alba del 19 giugno, arrivò a una decisione irrevocabile. Ci avrebbe messo più di un giorno di cammino, ma non gli importava.

Lui si era fatto garante della salute e del rispetto da portare alla Leonessa di Romagna, quindi lui avrebbe raddrizzato quella stortura, se avesse avuto conferma della malafede dei Borja.

Chiamò a sé il suo attendente, un milanese rinnegato, passato ai francesi all'epoca della caduta del Moro, e gli disse di preparare subito il suo cavallo, anche se con discrezione. Doveva andare a Roma, gli disse, e doveva fare in fretta.

“A Roma?” chiese il ragazzo, stranito.

“A Roma, sì, e subito. Non posso permettermi di perdere altro tempo, ne ho già sprecato troppo con la mia stupida cecità. Giuro sul mio onore – sussurrò l'Alégre – che ridarò a quella donna guerriera la libertà che io stesso avevo promesso e garantito. E la salverò dalle mani dei Borja, traditori vilissimi, come la salverei dalle unghie del diavolo!”

“Non potete andar solo...” tentò il giovane soldato.

“Hai ragione. Preparane tre di cavalli.” convenne Yves, annuendo febbrile: “Verrete tu e il mio scudiero.”

Per nulla spaventato da quella prospettiva, il ragazzo annuì e uscì subito dal tendone per andare a preparare le cavalcature e per avvisare anche lo scudiero.

Cominciando a vestirsi in vista del viaggio, l'Alégre si sentì come sollevato. Era un colpo di testa, il suo, se ne rendeva conto. Era un gesto inadatto a un soldato della sua esperienza e a un uomo della sua età, eppure sapeva che era la cosa giusta da fare. Non avrebbe tollerato nemmeno un momento di più che il suo nome e l'onore della Francia rimanessero così sfacciatamente traditi. I Borja dovevano pagare e dovevano farlo subito.

Non poteva far altro, lui, se non agire: anche questo significava, a suo avviso, essere un soldato e un uomo di valore.

“Je te libérerai, Caterina.” soffiò Yves: “Je te le promets.”

   
 
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