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Autore: Adeia Di Elferas    12/02/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando aveva sentito suonare la mezzanotte, Caterina si era messa in piedi, in attesa. Sapeva che tra i domestici del Cardinale Sansoni Riario c'erano persone fidate e che gli uomini di Yves d'Alégre di certo sapevano a chi rivolgersi, per farsi aprire la porta della servitù, ma un brivido d'ansia la percorse ugualmente, nell'attesa.

Ogni minuto che passava, le sembrava un'eternità. Alla luce tremula delle candele, stava quasi immaginandosi i soldati del francese catturati da qualche infiltrato pontificio, e, quando sentì toccare la sua porta, quasi si vide già spacciata, tanto che, in un gesto automatico, del tutto istintivo, portò per un istante la mano alla gamba, dove, per anni, aveva tenuto nascosto il pugnale.

Stentò a rilassarsi anche quando l'uscio si aprì e si trovò davanti due uomini vestiti di scuro, di cui uno dei quali, con spiccato accento d'Oltralpe, le porse una sacca, dicendo: “Ecco i vestiti, vi prego, fate più in fretta che potete.”

La Tigre prese quanto le veniva offerto e, appurato che si trattava di abiti maschili, se ne sentì quasi sollevata. Cominciò subito a cavarsi la veste da notte che portava, e i due uomini che l'aspettavano, colti da un moto di rispetto, tornarono verso la porta.

“A me non dà noia, se restate.” fece lei, continuando a spogliarsi: “E poi, meno vi fate vedere fuori da questa stanza, meglio è per tutti.”

A quelle parole, i due francesi non si mossero, e nel giro di un paio di minuti, la Sforza aveva finito di cambiarsi. Il giaccone – di foggia poco elegante, forse per farla scambiare per un mercante in viaggio o anche per meno – le stava un po' largo, mentre le brache erano quasi troppo lunghe, ma ciò che più le interessava, in vista di una fuga, erano gli stivali, e quelli, per fortuna, erano proprio della taglia giusta.

“Andiamo.” soffiò non appena ebbe finito di legarsi anche i capelli, per nasconderli sotto al cappuccio del mantello.

“Copritevi bene il capo.” le suggerì uno dei due uomini: “Ormai siete un volto noto, a Roma. Meno siete visibile, meglio è.”

La Leonessa fece come le era stato suggerito, e si apprestò a seguire gli altri fuori dalla stanza, senonché, proprio all'ultimo, ebbe una breve esitazione: “Potete darmi un'arma? Una qualsiasi.” si azzardò a chiedere.

I soldati dell'Alégre si scambiarono uno sguardo silenzioso, e poi, quello più taciturno, cercò un istante sotto al proprio tabarro, e ne estrasse un piccolo stiletto, molto appuntito, celato da una fodera scura, perfetta per mimetizzarsi con i suoi abiti: “Immagino siate anche più brava di me, con questo...” commentò, con un mezzo ghigno.

Caterina non ribatté, ma sistemò con cura l'arma sotto al giubbone, pregando di non doverne fare uso.

Invisibili come tre ombre, la Tigre e gli altri due passarono attraverso gli ampi ambienti del palazzo che Raffaele aveva decorato e abbellito a suo uso e consumo, e poi si inoltrarono nei locali della servitù, fino a raggiungere la strada, immersa nella notte tersa di Roma.

Il profumo di luglio era mescolato al tanfo tipico di ogni grande città, ma alla Leonessa sembrava di sentire solo le note più dolci di quella cacofonia di fragranze. Inspirava a pieni polmoni, mentre, a passo svelto seguiva la sua scorta. Non incontrarono praticamente anima viva, se non un paio di ubriachi e una donna di strada, e nessuno di questi fece caso a loro.

L'Urbe, che pure era tentacolare e pulsante anche di notte, quella volta sembrava aver deciso di addormentarsi al solo scopo di lasciarli scappare in pace. La Leonessa era concentrata sui suoi passi, sul suo respiro, che si faceva affannoso, ogni volta in cui acceleravano l'andatura, e sui suoi muscoli, che minacciavano di cedere allo sforzo di una camminata tanto lunga e rapida. Stava mettendo tutta l'anima, per riuscire a seguire il piano. Mai come in quel momento sentiva che obbligare il suo corpo a ubbidirle sarebbe stato fondamentale per la sua sopravvivenza. Spense il cervello, concentrandosi solo ed esclusivamente sui suoi movimenti. Non si faceva neppure domande sul percorso, non cercava di prendere nota delle svolte e dei vicoli, convinta che, tanto, non sarebbe mai più passata per quelle strade per il resto della sua vita.

Quella volta, si diceva, avrebbe lasciato Roma veramente per sempre.

Il gorgogliare del Tevere arrivò al suo orecchio ben prima che il bagliore argenteo dei suoi flutti arrivasse ai suoi occhi. Mentre scendevano verso gli argini, sotto una luna troppo grossa e luminosa per lasciarli davvero nell'anonimato che cercavano, uno degli uomini di Yves chiamò qualcuno con un cenno della mano. Da sotto al ponte più vicino, una figura scura arrivò di corsa, e solo quando fu loro appresso, Caterina lo riconobbe.

“Vi ringrazio per esservi ricordata di me.” le disse frate Lauro, occhieggiando da sotto il cappuccio del suo mantello di lana cotta, troppo pesante, per l'estate, ma che ben lo celava, anche sotto i raggi della luna.

“Avevo fatto una promessa e l'ho mantenuta.” fece notare la donna, non riuscendo a trattenere un moto di irritazione per il sorrisetto furbo che Bossi sembrava incapace di levarsi dal volto anche in una situazione del genere.

“Dico solo che non è da tutti, fare come avete fatto voi.” insistette il frate, mentre i due uomini dell'Alégre, con qualche richiamo, facevano avvicinare una chiatta ormeggiata poco lontano.

“Se c'è una cosa che ho imparato, con gli anni – tagliò corto la Leonessa – è che non c'è nulla che leghi di più due persone dell'aver combattuto insieme, o dell'essere stati prigionieri insieme.”

Bossi parve soddisfatto da quell'inciso e, come a rispondere alla tacita richiesta della donna di non parlare più, fece un cenno con il capo e tacque.

Salire sull'imbarcazione di fortuna che avrebbe condotto tutti loro fino a Ostia non fu semplice come la Tigre credeva. Le acque colleriche del Tevere rendevano difficile ogni movimento, dandole l'impressione di appoggiare i piedi non su travi di legno, ma sulle sabbie mobili.

“Reggetevi a me.” disse uno degli uomini che stava già a bordo.

La donna obbedì, ma appena recuperò un briciolo di equilibrio, lasciò il braccio che le era stato offerto e, prima di cadere, si sedette, come stavano facendo anche gli altri. A illuminarli, oltre alla luna, avevano una piccola torcia.

In tutta onestà, la Leonessa avrebbe preferito che non vi fosse nemmeno quell'esile barlume, ma proprio mentre fissava con insistenza la fiamma, come a volerla spegnere con la forza del pensiero, lo stesso uomo che le aveva offerto aiuto nel salire sulla chiatta, commentò: “Non possiamo viaggiare senza nemmeno una luce. Attireremmo più attenzioni a quel modo che così... Allo stesso modo, non staremo tutti in silenzio: i mercanti e i manovali che passano per il Tevere gridano ordini per tenere dritta la rotta e per ammazzare il tempo.”

“Vi conosco?” chiese Caterina, guardando un po' meglio il profilo, in parte celato, del suo interlocutore.

Non aveva un accento francese, ma emiliano. Il suo volto le ricordava qualcosa, ma non era certa che si trattasse di una persona incontrata dal vivo, quanto più un ritratto, o anche solo una descrizione fatta a voce. Forse, addirittura, si stava solo suggestionando.

Mentre la piccola zattera prendeva velocità, accarezzando l'acqua scura del Tevere, l'uomo le si avvicinò, abbassando la voce, tanto che quasi non lo si sentiva, tra il fracasso del fiume e le indicazioni di voga che davano i due soldati incaricati di remare.

“Non credo.” le disse, grattandosi il mento coperto da una barba rossiccia e folta: “Ma la vostra famiglia ha tenuto per molti anni le mie terre come se fossero di sua proprietà.”

Finalmente qualcosa scattò nella testa della Sforza, e per un istante si sentì pervasa dalla paura, convinta di essere finita in trappola come una sciocca: “Siete uno dei Rossi?”

Troilo fece uno sbuffo e, con un cenno del capo, annuì e si affrettò a dire: “Non cerco vendetta, non su di voi. Non è vostra la colpa di quello che hanno fatto alla mia famiglia. Anzi...” il condottiero si sistemò accanto a lei, stendendo le lunghe gambe per riposarsi un momento: “Aiutarvi aiuterà me a farmi ben volere dal re di Francia, in modo da poter ottenere un Marchesato che sia saldo in mano mia, e non più solo il titolo di Conte, come è toccato a mio padre.”

Caterina avrebbe voluto dire tante cose, ma non sapeva da che parte prendere. Aveva intuito l'intenzione del De Rossi, ossia quella di tranquillizzarla, ma facendole capire che per lui si trattava solo di un affare e non di una questione d'onore. Tuttavia c'era qualcosa nel tono della sua voce che la stava realmente calmando e le stava dando la percezione di quanto lei fosse diventata importante nello scacchiere italiano, se non addirittura internazionale. Anche se, in realtà, a nessuno interessava la sua sorte, nella pratica, in molti avevano interesse a metterla in salvo, per ledere chi invece l'avrebbe voluta morta.

Era l'oggetto di una contesa con cui lei c'entrava molto poco, ma che la vedeva ugualmente protagonista.

“Posso sapere come vi chiamate?” chiese, guardando l'uomo che le stava accanto e che doveva avere, a occhio e croce, la sua stessa età.

“Troilo De Rossi.” bisbigliò lui: “Ero con il Trivulzio a Milano, quando vostro zio è stato sconfitto.” ci tenne a precisare.

Anche quella volta, però, Caterina non lesse ostilità nelle sue parole, ma il suo esatto contrario. Il Moro, dopotutto, le era stato più volte nemico che amico, e probabilmente quello era un dato di fatto noto a molti.

Quando tornò tra loro il silenzio, la milanese si concentrò di nuovo su quello che il suo corpo stava percependo. Era stanca per aver percorso le strade di Roma quasi di corsa – e questa constatazione la turbava, perché, da sempre abituata a contare molto sul proprio fisico poderoso, si sentiva vulnerabile nel trovarsi tanto facile all'affaticarsi – ma il poter restare seduta la stava aiutando a riprendersi.

Sentiva l'aria fresca della notte sul viso, e, di quando in quando, qualche sottile spruzzo d'acqua la sfiorava, facendola sentire viva. La voce di quelli che vogavano e l'apparente immobilità del resto dell'equipaggio la stavano cullando come una ninna nanna. Se non fosse stata tesa come la corda di un arco al pensiero di quello che ancora l'aspettava, avrebbe potuto perfino addormentarsi.

Per tutta la traversata nessuno fece caso a loro. Incrociarono anche altre barche e zattere, ma ognuno faceva il proprio tragitto senza badare agli altri. La Leonessa sapeva di essere ancora a rischio, eppure, via via che il viaggio proseguiva senza sorprese, si permetteva sempre più di rilassarsi.

Quando Roma ormai era alle loro spalle da un po', e la chiatta navigava da parecchio, Caterina scorse il profilo di quella che le sembrò una piccola città, con le sue luci e le sue mura.

Attraccarono senza troppa fatica. La donna si fece aiutare ancora una volta sia dal De Rossi, sia da un altro soldato, e poi, seguendoli con cieca fiducia, si trovò a raggiungere il porto di Ostia praticamente senza accorgersene. Forse sbagliava, ad abbassare così tanto la guardia, ma conosceva abbastanza gli uomini e la politica, da sapere che, se qualcuno di loro l'avesse voluta morta, sarebbe stato meglio per tutti sgozzarla ancora sulla chiatta e buttarla nel fiume.

Cominciava a far chiaro. Evidentemente, da quando avevano lasciato il palazzo del Cardinale Sansoni Riario era passato più tempo di quello che era parso a Caterina.

“Quella è la nave.” disse a voce bassa uno dei francesi, indicando una piccola imbarcazione che attendeva in mezzo alle altre.

Sul ponte c'erano delle torce accese e un uomo osservava con attenzione la banchina, probabilmente in attesa di vederli arrivare.

“Spero di non vomitare per colpa delle onde...” borbottò frate Lauro, affiancando la Tigre: “Voi avete esperienza con il mare?”

“Quanta voi ne avete con la spada, frate.” rimbeccò la Sforza, che iniziava a essere tesa almeno quanto Bossi, all'idea di imbarcarsi e affrontare un viaggio, seppur abbastanza breve, in mare aperto.

“Stiamo a posto, allora.” incassò con un sorrisetto il religioso e poi le fece cenno di anticiparlo pure, mentre calavano la scaletta per farli salire a bordo.

La milanese lasciò che i suoi accompagnatori la presentassero al Capitano della nave, a cui – il passaggio fu molto rapido e discreto, ma non le sfuggì – venne subito allungato un sacchetto tintinnante di monete di dimensioni più che rispettabili.

“Va bene...” fece il marinaio, guardando per un lungo istante Caterina: “Ma state attenta a quello che fate... Non voglio confusione, sulla mia nave.”

La Tigre si schiarì la voce e confermò: “Starò attenta, non abbiate paura.”

Mentre gli uomini che l'avevano scortata prendevano accordi per la sistemazione di tutti quanti, la Sforza ottenne di poter restare sul ponte quando avrebbero salpato l'ancora. Come garanzia, però, le fu imposto di tenersi appresso il frate.

Il Capitano sembrava avere gran fretta di lasciare Ostia, tanto che la donna era arrivata al parapetto da pochi minuti, che già l'equipaggio – non molto numeroso, ma parecchio chiassoso – stava dando di voce per coordinarsi al meglio.

Appoggiata al legno scuro e reso liscio dal vento e dal sale, Caterina si mise a guardare l'orizzonte, in cerca della luna. Dopo aver cercato a lungo, però, si rese conto che non era più visibile, e che al suo posto, invece, stava arrivando la luce fresca dell'aurora. Mentre l'imbarcazione cominciava a muoversi, dandole uno strano rimestamento allo stomaco, il mare davanti a loro si impreziosiva di riflessi e guizzi, biancheggiando in lontananza.

Il sentore salmastro dei refoli che le sfioravano il viso le insaporiva le labbra e a ogni respiro, i suoi polmoni si riempivano di libertà e purezza, due cose di cui aveva sentito a lungo la mancanza e che, forse, da quel giorno avrebbe sempre collegato al cigolare del legno della nave e al suono grezzo delle voci roche dei marinari che la governavano.

Bastò poco tempo, per prendere il largo. La costa ormai era una striscia indistinta, illuminata dal sole già prepotente di una mattina di luglio. Caterina si sentiva come la protagonista di uno degli affreschi che avevano abbellito il palazzo di suo padre. Aveva la tentazione, fortissima, di sciogliersi i capelli e lasciarli liberi di riempirsi di vento, ma aveva promesso di mantenere un basso profilo e così avrebbe fatto. Si strinse un po' nel mantello scuro e nel giubbone da uomo che portava – un po' troppo pesanti, per quella stagione – e si limitò a continuare a osservare ciò che si stendeva davanti ai suoi occhi. In quel momento si sentiva così in pace con sé stessa, da non avvertire nemmeno irritazione nei confronti di frate Lauro che, accanto a lei come una sentinella, picchiettava continuamente sul parapetto con indice e medio.

“Quando saremo a Firenze – disse piano la Tigre, rivolgendosi al frate senza guardarlo – faremo di tutto per far liberare anche Baccino. Glielo dobbiamo.”

Bossi sporse un attimo in fuori le labbra, evitando, una volta tanto, il suo consueto sorrisetto indisponente: “Avete ragione. Glielo dobbiamo.”

 

Quel 12 luglio, Cesare Borja si sentiva stomacato dal caldo e dalla tensione. Non era stato tanto il suo arrivo a Capua, seguito a un viaggio abbastanza disagevole e troppo lento, quanto più le notizie che gli erano arrivate, frammentate e confuse da Roma, riguardanti Caterina Sforza.

Gli era stato detto, inizialmente, che la donna si stava preparando a lasciare la città di propria iniziativa, e le sue spie avevano anche scoperto che avrebbe percorso la via Flaminia, per cui aveva disseminato la strada di suoi sicari. Eppure non aveva ancora avuto alcuna loro notizia, e la cosa cominciava a preoccuparlo.

Non si sarebbe stupito se quel diavolo di donna, alla fine, avesse trovato un modo per gabbarli tutti quanti.

Più provava a non pensare alla Tigre, più il Valentino finiva per rivedersela davanti agli occhi. Al campo, che era stato allestito nei pressi della Porta Tifatina di Capua, ci sarebbero state molte cose a cui badare, ma Cesare lasciava ogni incombenza all'Aubigny e questi, ben felice di non averlo troppo tra i piedi, si comportava come se fosse stato l'unico comandante in carica.

Con loro c'erano anche gli uomini del Conte di Cajazzo, e anche lui, approfittando dell'assenza mentale del Borja, si prendeva molte più libertà del dovuto. I suoi soldati erano irrequieti e prepotenti e non passava giorno, anzi, ora, senza che qualcuno di loro infastidisse le campagne vicine o causasse incidenti con la popolazione locale, che, di fatto, stava fornendo loro un aiuto.

In confronto i pochi e disciplinati soldati che difendevano Capua sotto la guida del Capitano Fabrizio Colonna, sembravano quattromila perle di rigore militare.

“Ci sono novità?” chiese in fretta Cesare, quando vide entrare nel suo padiglione il suo attendente con una missiva.

“Non da Roma.” rispose il giovane, ben sapendo che cosa il suo signore volesse sapere: “Ma dall'Aubigny, che mi ha chiesto di portarvi questo dispaccio che...”

“Al diavolo quel francese...” borbottò il Duca, prendendo la lettera e aprendola con tanta malagrazia da romperne un angolo: “Fosse per me, avrei già messo a ferro e fuoco Capua e starei marciando verso Napoli!”

L'attendente non commentò. Sapeva che tutto quel fuoco che si accendeva a sprazzi nel Valentino era legato solo alla sua grande voglia di tornare presto alla corte del papa. Molti dicevano che avesse tutta quella fretta solo per poter tornare a vegliare su Caterina Sforza, una prigioniera che aveva fortemente reclamato per sé più volte, e più i giorni passavano, più anche il soldato si stava convincendo che fosse proprio così.

Confermando in buona parte i suoi sospetti, il Borja sbottò, dopo aver letto il messaggio dell'Aubigny: “Sempre le stesse cose! Perdiamo tempo! Perdiamo tempo e tutto per colpa di questi dannati francesi! Prima vogliono che gli si rendano i prigionieri, e poi dettano anche i tempi della guerra!”

Ciò che faceva letteralmente prudere le mani a Cesare era soprattutto la consapevolezza che l'alternativa a sapere Caterina Sforza libera e in salvo era saperla morta. C'era qualcosa di invisibile che la legava a lei, una sorta di laccio, che gli stringeva il collo e lo strozzava al solo pensiero che quella donna dovesse morire per mano dei suoi sicari, se avesse davvero provato a scappare. Gli era costato troppo, catturarla, e poi...

“Fammi portare il necessario per scrivere – ordinò secco Cesare, andando al tavolinetto da campo che troneggiava quasi nel mezzo del padiglione – ho finito l'inchiostro, e io... Io devo scrivere con urgenza a mio padre...”

 

Alessandro VI avrebbe voluto mettersi a piangere. Non sapeva da che parte sbattere la testa, non sapeva nemmeno più a chi credere. Si sentiva come quando, da bambino, gli veniva affidato qualcosa di prezioso e lui, distratto da altro, finiva a perderlo o romperlo.

Non aveva mai temuto suo figlio, non davvero almeno, ma quella volta sentiva i brividi corrergli lungo la schiena, al pensiero di quello che Cesare avrebbe potuto dire o fare quando avesse saputo che Caterina Sforza aveva lasciato Roma e che i sicari posizionati lungo la Flaminia non l'avevano vista nemmeno per sbaglio.

Si era chiuso nel suo studiolo fin dal primo mattino, quel 13 luglio, e non aveva intenzione di uscirne almeno fino all'ora di cena. Continuava a camminare avanti e indietro come un'anima in pena, domandandosi dove e come avesse sbagliato, e chi avessero commesso l'errore maggiore, se lui, nel non sorvegliare adeguatamente il palazzo di Raffaele Sansoni Riario, o suo figlio Cesare, nel credere ciecamente a ciò che i suoi informatori avevano detto.

Di certo, ormai, non poteva far altro che assecondare la corrente, almeno agli occhi del mondo. La fuga della Tigre non poteva in alcun modo essere il più palese errore di sorveglianza commesso a Roma. L'unica via di scampo era far credere a tutti che quella donna non solo non fosse scappata dall'Urbe, ma che addirittura fosse stato proprio lui, proprio Rodrigo Borja, a lasciarla andare con tutte le benedizioni del caso.

Aveva provato a contattare il Cardinale Sansoni Riario, torchiandolo, come meglio poteva, per capire se fosse al corrente di qualcosa, ma l'uomo non aveva nulla da nascondere, anzi, aveva sottolineato più volte, aveva lasciato la sua dimora temporaneamente alla cugina, ma non l'aveva mai nemmeno vista, dato che lui non era presente.

“Dove diamine... Dove diamine..!” borbottava di quando in quando tra sé l'uomo, trovando quasi impossibile che la Leonessa stesse davvero raggiungendo Firenze, dato che non era stata rintracciata dai sicari.

Ormai, comunque, mancava dall'Urbe da tre giorni buoni, quindi non poteva più far finta di non sapere e di non vedere. Avrebbe fatto doppiamente la figura del fesso, se non si fosse esposto, e in fretta, in qualche modo.

Facendo appello a tutte le due forze, l'uomo si sedette alla scrivania e, dopo un paio di respiri profondi, si decise a prendere in mano la penna. Se doveva mentire, tanto valeva farlo in grande stile.

Indirizzò la sua missiva direttamente alla Signoria di Firenze e, fin dalla prima riga, si riferì alla Tigre con le migliori parole che trovò, ossia 'dilecta in Christo filia, nobilis mulier Catherina Sfortia'.

Con il latino più elegante e comprensibile di cui era capace, il papa spiegò come appunto la dilettissima figlia in Cristo, la nobile donna Caterina Sforza dopo un periodo passato per 'rationabilibus causis' in carcere, era stata da lui liberata con piacere. Aggiungeva che, come suo costume, con la suddetta Caterina aveva usato sempre clemenza, ma che oltre a ciò c'era qualcos'altro che sentiva il bisogno di fare per lei, ovvero raccomandarla caldamente alla Signoria, facendo affidamento sulla devozione che Firenze portava alla Santa Sede.

Chiuse sottolineando come gli sarebbe stato graditissimo sapere che la Sforza non solo sarebbe stata accolta con calore per la predilezione che la suddetta portava per la città, ma anche per riguardo proprio al papa.

Firmò con calma, chiedendosi se qualcuno, a Firenze, avrebbe abboccato a quel pallido tentativo di legittimare la partenza della Leonessa. Affidò la lettera a una staffetta veloce, che andasse via terra il più in fretta possibile: voleva a tutti i costi che la sua missiva arrivasse alla Signoria prima che la Sforza varcasse le porte di Firenze.

“Vorrei sapere – concluse, quando tornò infine nei suoi appartamenti, fissando il crocifisso enorme che stava sopra all'inginocchiatoio – perché dai al tuo papa così tanti tormenti...”

   
 
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