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Autore: Adeia Di Elferas    17/02/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Per tutto il tempo del viaggio in mare, Caterina aveva lasciato la sua mente libera di passare da un pensiero all'altro. Aveva mangiato ogni qual volta le era stato offerto del cibo e, malgrado il dondolio della barca, era riuscita anche a dormire un po' nella cuccetta che le era stata riservata.

Non aveva vissuto con particolare disagio il fatto che il Capitano della nave, per sicurezza, l'avesse messa a dormire vicina agli uomini che l'avevano accompagnata. Anzi, per lei si era trattato di un motivo di maggior tranquillità.

Sul ponte, di giorno, aveva ascoltato il rumore del mare e le voci roche dell'equipaggio, schiacciando gli occhi contro il sole e annusando il sapore salmastro e quasi aggressivo delle onde.

Un paio di volte si era anche soffermata a osservare meglio qualcuno dei marinai che le si affaccendava attorno, e perfino un paio dei soldati che le facevano da scorta. Ne aveva trovati certi abbastanza attraenti. Come un tempo, aveva saggiato con lo sguardo i loro corpi, passando dalle spalle, ai fianchi, alle gambe, al volto... Aveva quasi sentito rimordere nel profondo di sé quella voglia che tanto spesso, a Ravaldino, le aveva quasi fatto perdere di vista tutto il resto. Eppure, quando era stata a un passo dal provare ad avvicinare uno di loro – senza progetti troppo bellicosi, ma quasi più per vedere se lei suscitava ancora interesse negli uomini – si era trovata come paralizzata.

Ci aveva messo qualche istante a capirlo, ma poi le era stato tutto chiaro. A frenarla era il ricordo di Cesare Borja, delle sue mani che l'afferravano con furia, del suo odore pungente e della violenza che le aveva usato, riportandola indietro a quando aveva appena nove anni e con lei c'era Girolamo Riario, ancora uno sconosciuto, ma già il suo più grande tormento.

La paura che il Valentino le aveva instillato di nuovo, alimentando un seme che in realtà non era mai morto dentro di lei, prendeva il sopravvento anche solo all'idea di provare ad avvicinare un uomo, e la Tigre non sapeva come gestire quel garbuglio di emozioni che le si agitava nello stomaco.

Aveva così cercato di ignorare il problema, relegando tutto questo in un angolo buio della sua anima, e aveva aspettato che il viaggio giungesse a termine senza più provare a combattere contro se stessa. Se tutto fosse filato liscio, si diceva, avrebbe raggiunto Firenze e la sua famiglia e da lì, con calma e pazienza, avrebbe avuto il tempo per ricostruire tutte le parti di sé che negli anni erano andate in frantumi.

Così, quando attraccarono a Livorno, la Leonessa aveva in mente solo ed esclusivamente il volte dei suoi figli, e si interrogava su come e quanto fossero cambiati durante la loro lontananza.

Lasciare la nave fu per Caterina un momento complicato. Il suo corpo si stava lentamente abituando all'ondeggiare del mare e, comunque, aveva tratto beneficio da un isolamento meno stretto di quello della cella, ma comunque abbastanza marcato. Trovarsi invece in un porto, in pieno giorno, circondata da gente, l'aveva stordita.

Frate Lauro, che era poco più presente di lei, l'aveva spalleggiata e incoraggiata e anche i soldati che stavano con loro le avevano fatto con discrezione quadrato attorno, fino a portarla via dalla confusione prima che perdesse davvero la bussola.

La Tigre si sentiva piccola e sciocca nell'essere così spaesata, ma anche quella volta si trattava di un mostro più grande di lei, e, invece di provare a combatterlo in modo diretto, accantonò il problema, sperando di poterlo risolvere in un secondo momento.

Senza fermarsi in Livorno, che pure era al momento sotto il dominio francese, quindi amica, ripartirono immediatamente verso Pisa, a piedi. Non c'erano alternative, aveva spiegato Troilo De Rossi, che sembrava tra quelli che prendevano le decisioni nel gruppo. Non dovevano lasciare tracce del loro passaggio, e comprare dei destrieri in numero sufficiente a portare tutti loro, sarebbe stato pericoloso.

Il sole di luglio era alto, l'aria verso il mezzogiorno era irrespirabile per l'afa, ma Caterina non voleva mostrarsi debole. Così metteva un piede avanti all'altro, respirando a fondo e fingendo di non sentire il proprio cuore martellare come un pazzo contro lo sterno.

“Abbiamo mandato già una staffetta per avvisare che siamo quasi a Pisa.” le spiegò l'emiliano, standole accanto: “Ci vorrebbero circa quattro ore, a piedi, da Livorno a Pisa. Io... Ho calcolato di metterci un po' di più, ma comunque ho fatto presente che arriveremo domani.”

“Non ci fermeremo, per la notte?” domandò la donna, con la voce che si faceva acuta, all'idea di non potersi fermare quando fosse venuto buio.

“Non lo riteniamo prudente.” ribatté laconico il De Rossi, puntando altrove gli occhi chiari e sporgendo un po' in fuori il mento coperto dalla barba rossa.

La Leonessa non ribatté, chiedendosi, solo tra sé e sé, se sarebbe riuscita a reggere un viaggio del genere. Si rendeva conto, man mano che proseguivano, di imporre un ritmo molto lento al resto del gruppo, e l'apparente noncuranza che tutti avevano verso quell'intralcio le dava ancor più fastidio di un aperto rimbrotto. Tutti sapevano che lei era in difficoltà, ed erano consci del fatto che lei non potesse far nulla, per porre rimedio a quel problema: per la Tigre era la conferma di non essere più un punto di forza, ma solo un peso.

A un certo punto, due degli uomini deciso di andare avanti, mentre Troilo e un francese preferirono la retroguardia. Non l'avevano detto apertamente, ma la Sforza, da brava stratega, aveva capito il motivo di quello sgranarsi lungo la via. Era palese, ormai. Ci stavano mettendo troppo tempo, e più ore passavano in strada, più aumentava il rischio di essere raggiunti da qualcuno.

Con la donna, oltre a frate Lauro, erano rimasti appena quattro soldati. Come lei, Bossi era stanco, ma il suo fisico rispondeva ancora abbastanza bene. Caterina, invece, sentiva di non farcela più. In un primo momento, chiese dell'acqua. Dopo aver bevuto, domandò qualcosa da mangiare. Alla fine, vedendo come nessuno dei due ristori le permettesse di riprendere in modo fluido il cammino, si arrese.

Con un filo di voce, provando un senso di umiliazione che sapeva essere inutile e dannoso, ma che non sapeva combattere, chiese: “Possiamo fermarci un istante?”

“Non preoccupatevi.” le fece uno dei soldati, con l'abbozzo di un sorriso, guardando verso il sole di luglio che ruggiva sulle loro teste: “Cerchiamo un posto ombreggiato. Ripartiremo tra un'oretta, se vi sentirete meglio.”

La Leonessa ringraziò, e fece come era stato detto. Un sentimento di inadeguatezza, però, si stava facendo strada in lei. Non poteva pretendere di essere come prima della prigionia e, anche volendo, era passato troppo poco tempo, da quando era uscita da Castel Sant'Angelo. Eppure, irrazionalmente, l'unica cosa che avrebbe voluto fare, sarebbe stato mettersi a piangere e compatirsi per la propria debolezza.

“Ripartiamo.” disse, dopo appena un quarto d'ora di sosta: “Sto meglio.”

“Ne siete sicura?” le domandò frate Lauro, che si stava sventagliando come meglio poteva con un consunto librettino di preghiere che si teneva nella veste.

“Andiamo.” si intestardì Caterina.

Nessuno degli uomini ebbe il coraggio di fermarla, e lei non ebbe il coraggio di ammettere quanto le stesse costando quello sforzo. Arrivarono comunque a Pisa in tempi ragionevoli, e di questo la Tigre si sentì orgogliosa come non mai.

Presero un cavallo a testo in un posto in cui li stavano aspettando i due uomini andati in avanscoperta, e dopo aver aspettato i due che erano rimasti in coda alla spedizione, uscirono dalla città.

Caterina benedì il baio su cui era stata issata. Era tranquillo, robusto, e sicuro di sé. Il suo lento dondolare era come il cullare di una madre. Vedendola un po' in difficoltà, il De Rossi ordinò che uno dei soldati cavalcasse con lei. All'inizio la Leonessa si oppose, ma poi fu costretta ad accettare, dato che lei per prima di rendeva conto di non essere in grado di governare la bestia.

Dopo che il francese si era sistemato in sella con lei, malgrado non si sentisse ancora tranquilla, in un contatto così ravvicinato con un uomo, la donna mollò ogni ormeggio. Non poté evitarlo: dopo pochi minuti, si assopì.

Troilo la guardò per un lungo istante, domandandosi cosa avesse passato quella donna, e come riuscisse, malgrado tutto, ad essere ancora così forte. Il suo viso, dai tratti più affilati di quanto non raccontassero quelli che l'avevano conosciuta prima della caduta di Ravaldino, raccontava una storia incredibile. E così il suo corpo, stentato e nascosto da abiti da uomo per lei un po' troppo grossi, doveva essere ben diverso da quello florido e prepotente di cui tanti parlavano ancora...

Tornando a guidare la sua comitiva, però, cercò di ricordare a se stesso che quello, per lui, era solo ed esclusivamente un lavoro come un altro. Aveva avuto una missione e il buon esito della stessa l'avrebbe messo in buona luce non solo con l'Alégre, ma anche con il re di Francia, e, forse, l'avrebbe avvicinato al tanto sospirato titolo di Marchese delle sue terre. Solo su questo doveva concentrarsi.

 

“Almeno adesso sai dov'è quel bambino, no?” disse Semiramide, con la voce carica di un'aggressività implacabile, ma subdola.

“E che me ne faccio?” sbottò il Medici, dando un colpo con il pugno chiuso alla cornice del camino.

La donna non disse nulla, restando vicino alla finestra e osservando il marito. Il Popolano era arrivato a casa come una furia, quella mattina, mettendosi a parlare a voce alta di un sacco di cose, tutte assieme. Prima di capirci qualcosa, l'Appiani aveva dovuto sorbirsi quasi mezz'ora di improperi e bestemmie, e aveva anche dovuto dare il tacito permesso al figlio Pierfrancesco di uscire dal palazzo, per non essere più tra i bersagli preferiti della filippica del padre.

Solo dopo aver cercato di interpretare gli sproloqui dell'uomo, Semiramide era riuscita a cogliere due informazioni chiave: prima di tutto, Lorenzo aveva scoperto dove si trovava il figlio di Giovanni, e, in secondo luogo, Caterina Sforza non solo era stata davvero liberata, ma stava arrivando a Firenze, sotto la protezione ufficiale del papa.

“Se solo avessi scoperto una settimana fa dove stava quel maledetto bast...” cominciò a dire il Medici, ma la moglie lo interruppe bruscamente.

“Quel bambino è anche mio nipote. Ti impedisco di parlarne in certi termini.” gli disse, con voce ferma e gelida.

L'uomo, ormai lo spettro di quello che era stato da giovane, puntò gli occhi tondi verso di lei e scosse piano il capo. Le sue guance, che da piene e rosse si erano fatte scavate e pallide, vennero attraversate da un tremolio, mentre si apriva in un sorriso di scherno.

“Credi ancora, davvero, che quello sia figlio di mio fratello? Possibile che non ti rendi conto che quella donna farebbe di tutto per avere dei soldi che non le spettano?” fece il Popolano.

L'Appiani non parlò. Incrociò le braccia sul petto, lasciando che il suo sguardo dicesse tutto quello che c'era da dire. Il disprezzo e la distanza che esprimevano le sue pupille erano per Lorenzo una pugnalata, ma non poteva far altro che perseguire il suo progetto.

“Adesso che quella strega sta arrivando qui, con tanto di una lettera del papa che la osanna come fosse una santa – spiegò, collerico, ma a voce bassa, alludendo alla missiva di Alessandro VI giunta giusto quella mattina alla Signoria – anche se ho scoperto dov'è il bambino, non posso più prenderlo con me, perché decade la condizione che mi era stata riconosciuta. La Sforza non è più una prigioniera di guerra dei francesi.”

“Non la è mai stata.” lo corresse la moglie, che aveva seguito la faccenda molto più attentamente di quanto Lorenzo non credesse: “Era in una cella del papa, ma i francesi non potevano tenerla come prigioniera di guerra per legge. Di fatto, la tua accusa nasceva dal nulla.”

Il Medici, che sapeva bene quanto la moglie avesse ragione, agitò la mano in aria, come a voler zittire una mosca troppo fastidiosa e poi, ostinato e cupo, borbottò tra sé: “Finché era prigioniera, io avrei potuto ottenere la custodia del bambino... E invece adesso è libera e, come se non bastasse, sta venendo qui... E alla Signoria..!” fece uno sbuffo indignato: “Tutti felici e contenti, nemmeno stesse arrivando qui il papa in persona... Possibile che non si ricordino di quando lei, proprio lei, è arrivata qui a battere il pugno sul desco del Gonfaloniere?!”

Semiramide abbassò lo sguardo. Quell'episodio, di tanto tempo prima, lei aveva potuto solo immaginarselo dal resoconto scarno fattole dal Popolano, e dalle chiacchiere sentite da altre donne di Firenze, che avevano appreso più dettagli dai rispettivi mariti. Non poteva negare di ammirare una persona come la Tigre di Forlì, che, per difendere se stessa e i propri figli, nonché la propria terra, aveva fatto un viaggio così rischioso – per di più, dicevano, in completa solitudine – e aveva osato provocare tanto apertamente la Repubblica.

Era rimasta affascinata anche dalle parole che dicevano la Leonessa avesse proferito. Aveva ragionato spesso su come quella donna avesse ammonito la Signoria, avvisandoli che la sua vigilia, per usare parole sue, sarebbe stata la loro festa. Per ora non aveva avuto ragione, anche se Firenze non poteva certo dirsi libera dal giogo della Francia e del Vaticano, checché ne dicessero i suoi principi.

“Non capiscono che si stanno tirando in casa una belva?” fece Lorenzo, continuando per la sua strada.

“Che intendi fare?” gli chiese la moglie, spiazzandolo.

Il tono che l'Appiani aveva usato non era né aggressivo, né ironico. Era solo una richiesta di tipo pratico, come se volesse prepararsi alle tribolazioni che sarebbero arrivate da lì in poi.

Il Medici non rispose subito. Sporse in fuori il labbro inferiore e si grattò un paio di volte la fronte, perplesso. Non sapeva nemmeno dire perché stesse continuando a parlarne con sua moglie. Da tempo, ormai, cercava di non coinvolgerla più nei suoi affari, eppure quella volta era come se gli fosse impossibile allontanarsi da lei prima di averle esposto esattamente il suo pensiero.

Peccato che, a quella precisa domanda, non sapesse proprio cosa rispondere.

“Dimmi una cosa, Lorenzo...” il tono di Semiramide di era fatto sottile, e al marito ricordava un po' i primi tempi in cui si erano trovati a essere marito e moglie, quando ogni mossa era più delicata di un arrocco agli scacchi: “È ancora Firenze la cosa che conta di più per te?”

L'uomo non riuscì a dar voce ai suoi pensieri, ma abbozzò un breve cenno d'assenso, quasi vergognandosene, dato che proprio quella sua ossessione, secondo la moglie, stava alla base della loro infelicità.

“E allora fai buon viso a cattivo gioco.” suggerì lei: “Fai credere a tutti di essere felice, anzi, sollevato, di saperla salva. Offrile protezione e dimostrati un cognato accorto.”

Già mentre l'Appiani parlava, il Medici si mise a pensare e alla fine decretò: “Le offrirò di stare in casa mia, come ospite. Non potrà rifiutare la mia offerta, se non vorrà perdere la faccia davanti a tutti. Vuole sbandierare il suo matrimonio con mio fratello? Dunque non potrà esimersi dall'accettare la mano tesa di un cognato. E quando lei sarà qui, la convincerò a far venire qui anche il bambino. E poi...”

Il modo in cui l'uomo fece scivolare la voce diede i brividi all'Appiani che, accigliandosi, chiese, fredda: “E poi intendi ucciderla e prenderti il bambino e l'eredità di Giovanni?”

Lorenzo non rispose, mettendosi a guardare verso il camino, come se la moglie non avesse nemmeno parlato.

Semiramide comprese che non avrebbe più ottenuto nulla, per quella volta, così, dopo aver stretto le labbra per qualche istante, inspirò a fondo e concluse, andando alla porta: “E io che avevo sperato che in mezzo a tutto quel letame ci fosse ancora un briciolo del Lorenzo che ho amato così tanto...”

Il Popolano ci mise qualche un paio di secondi di troppo a reagire. Quando si voltò, con gli occhi castani illuminati da un velo di speranza per quelle parole che in un certo senso gli confermavano che la sua sposa l'aveva davvero amato e che, forse, stava facendo del suo meglio per tornare a provare per lui gli stessi sentimenti di un tempo, purtroppo la donna non c'era già più.

La speranza si trasformò in rabbia e frustrazione e il Medici non poté far altro che rintanarsi ancor più in se stesso. Ogni cosa era cenere e disperazione per lui, in quel momento. L'unica cosa che poteva fare era riprendersi legalmente e definitivamente i soldi e le proprietà che erano state di suo fratello e rendergli giustizia. Tutto il resto passava in secondo piano.

 

Il paesaggio stava cambiando. La costa aveva lasciato il passo ai boschi, ai declivi sempre più sinuosi e pieni, all'odore cupo dei pini e al profilo altero dei cipressi. Le piccole città e i borghi che si scorgevano in lontananza erano incoronati da mura massicce e le rocche e i castelletti aggrappati alle colline, le pievi solitarie e i ruscelli e i torrenti sembravano accompagnare la Tigre e la sua scorta verso la loro destinazione.

Quella visione, così verde e così piena di vita, aveva risvegliato l'animo di Caterina e le stava dando un nuovo slancio. Presto, si diceva, sarebbero arrivati a Firenze e avrebbe rivisto i suoi affetti più stretti, gli stessi che per mesi aveva creduto di non poter riabbracciare mai più.

“Tutto questo è ben diverso dalla desolazione che circonda Roma, vero?” le disse a un certo punto Troilo, scrutandola in viso, tentando di interpretare la sua espressione un po' assente.

“Avete ragione.” disse piano la donna, lasciandosi andare solo a un mezzo sorriso.

Era stata a Firenze poco prima che iniziasse l'assedio finale del Valentino a Forlì, eppure il paesaggio che la circondava le appariva nuovo e sconosciuto. È vero che era passata praticamente dal versante opposto, quando aveva voluto presentarsi alla Signoria per scuotere le coscienze della Repubblica, ma la natura della Toscana, da quello che sapeva, era simile un po' ovunque, nel fiorentino.

Era una sensazione stranissima: era come tornare a casa, finalmente, ma trovare una dimora così diversa da quella che si ricordava, da vederla del tutto estranea. Eppure, malgrado ciò, alla Leonessa sembrava la terra più bella del mondo.

“A breve arriveremo in vista delle torri di Firenze – spiegò il De Rossi, tenendo con forza le redini del proprio cavallo – credo che i vostri figli saranno già là ad attendervi. In tal caso, vi lasceremo andare avanti con loro e noi vi seguiremo dopo poco.”

La milanese annuì. Capiva le motivazioni di una simile scelta. I francesi si facevano un punto d'onore di salvarla, ma non era il caso di sottolineare ulteriormente il loro coinvolgimento in quella fuga entrando in città tutti assieme come un corteo trionfale.

Mentre tutti loro continuavano la loro marcia, accompagnati solo dal suono cadenzato a tranquillo degli zoccoli dei cavalli, Caterina finalmente capì che cosa le stesse facendo provare quel senso di casa che avvertiva nel petto. A scaldarla a quel modo, era la consapevolezza che quella era la terra di Giovanni.

Con le labbra che si increspavano di nuovo in sorriso, questa volta netto e ben visibile, la Tigre lanciò uno sguardo al cielo azzurro di metà luglio, che si apriva sopra di lei e pensò: 'Hai trovato il modo di salvarmi ancora una volta, anche se non sei più qui con me...'.

 

“Mi raccomando – sussurrò Bianca, guardando Galeazzo negli occhi – state attenti.”

Il ragazzo, pur avendo solo quindi anni, gonfiò il petto e assunse un atteggiamento degno di un uomo adulto, mentre rispondeva: “Non preoccuparti. Porteremo qui nostra madre sana e salva.”

Si era discusso a lungo su chi, di preciso, avrebbe dovuto andare incontro a Caterina lungo la via, e, anche se Fortunati avrebbe ritenuto prudente mandare solo i due maggiori, cioè Ottaviano e Cesare, rientrati appena in tempo da Milano, alla fine, su insistenza dei figli della Sforza, il drappello d'onore si era più che duplicato.

Oltre ai due figli più grandi, infatti, anche Galeazzo aveva ottenuto il permesso di andare ad attendere la madre, e così Sforzino, che avrebbe compiuto quattordici anni di lì a un mese circa. In più si era unito anche Bernardino, che, forte dei suoi dieci anni e mezzo si sentiva più che pronto a prendere parte a quella spedizione.

A quel punto, lo stesso piovano aveva domandato a Bianca se volesse esserci anche lei, pensando che la giovane avesse dimostrato più e più volte di essere in grado di sopportare situazioni anche rischiose, e che, forse, a Caterina avrebbe fatto piacere vederla subito, e poterle stare accanto lungo la via che portava a Firenze.

La Riario era stata tentata di accettare, ma poi aveva pensato che fosse meglio attendere al palazzo di Alessandra Scali assieme a Giovannino. Non le andava di lasciare il piccolo, che aveva appena tre anni, da solo con persone a lui sconosciute.

“Salutami nostra madre – disse così Bianca, quando lasciò andare Galeazzo, l'ultimo che ancora dovesse uscire da palazzo per raggiungere i cavalli – e dille subito che nostro fratello Giovanni non vede l'ora di riabbracciarla.”

Il Riario annuì, scambiò un ultimo sguardo con la sorella e poi, raccomandando la ragazza e il fratellino alla Scali, che era anch'ella sulla porta per salutare, raggiunse i fratelli.

“Siete stata gentile – sussurrò la Riario, guardando la padrona di casa – a offrire due guardie private ai miei fratelli.”

Alessandra fece un sospiro e poi, inarcando appena un sopracciglio, commentò: “Mi disturberebbe molto se qualcosa andasse storto proprio ora che stiamo per farcela...” e detto ciò, alzò una mano in segno di saluto per i ragazzi che stavano partendo, e tornò in casa.

Bianca attese qualche istante in più, ma poi anche lei, smettendo di strizzare gli occhi al sole caldo e invadente di luglio, si ritirò. Tornò subito da Giovannino. L'aveva lasciato per pochissimo tempo con una serva nella sala delle letture, eppure, quando la vide, il bambino le corse incontro come un pazzo, stringendosi alle sue gambe e aggrappandosi alle sue vesti come se non la vedesse da anni.

Quel tratto del fratello alla Riario a tratti sembrava ossessivo. Le faceva piacere, pensare di essere così importante per lui, ma si rendeva anche conto che quell'attaccamento così feroce a lei denunciava quanto il piccolo avesse bisogno d'amore e quanto ne avvertisse la carenza.

Dopo aver ringraziato la serva, Bianca prese con sé Giovannino, tenendolo in braccio. Ormai cominciava a pesare, ma a lei non importava. In fondo, pure lei aveva bisogno di affetto e il bambino era in grado di fornirgliene quanto ne voleva.

“I nostri fratelli – gli sussurrò, mentre lo portava con sé verso il salone – stanno andando a prendere nostra madre.”

Gli occhi color pece del bambino la fissarono in silenzio. La Riario gli aveva già anticipato qualcosa, in realtà, ma forse era troppo piccolo per capire appieno la notizia. In più, non era da dimenticare, probabilmente Giovanni non ricordava più nemmeno il volto della loro madre...

“Dovrai fare il bravo, quando sarà di nuovo con noi.” gli disse, sistemandolo accanto a sé su uno dei divani imbottiti: “Nostra madre ha passato dei mesi difficili. È stanca. Ha bisogno di tranquillità.”

Il Medici si accigliò, poi, facendo dondolare le gambette robuste che penzolavano oltre al bordo del divano, chiese: “Quando torna, posso dormire vicino a lei?”

Bianca, che in quei mesi l'aveva tenuto quasi sempre al suo fianco di notte, salvo le volte in cui, in convento, aveva cercato di prendersi una pausa dal mondo trascorrendo qualche ora con un uomo, si sentì quasi triste all'idea che, quasi per certo, la madre avrebbe preso il suo posto nella vita di Giovannino.

Da un lato sapeva che era giusto così, ma dall'altro uno strano morso le stringeva l'anima, facendola sentire un po' più sola. Con un velo di ansia che faticò a reprimere, si domandò se e quando avrebbe potuto avere la propria famiglia, i propri figli e un marito da amare. Più ragionava sulla sua condizione, esule, figlia di una donna la cui fama aveva valicato perfino le Alpi, senza titoli né denari, più si convinceva che non avrebbe avuto nulla di quello che desiderava da sempre. Il nido che sperava di potersi costruire, nella sua immaginazione, assomigliava sempre più a un groviglio di sterpaglie, freddo e vuoto...

“Se farai il bravo, di sicuro potrai dormire vicino a lei.” disse la ragazza, accarezzando i ricciolini castani del fratello: “Farai il bravo?”

Il piccolo annuì subito, senza la minima esitazione e poi, arrossendo un po', si morse le labbra e confessò: “Non me la ricordo...”

“Non importa.” lo rassicurò Bianca, allargando le braccia, per invitarlo ad avvicinarsi: “Nostra madre ti ama, ti ha sempre amato moltissimo. Tutto il resto non importa.”

Giovannino non fece più domande, e si godette l'abbraccio della sorella, chiedendosi se quello della madre sarebbe stato altrettanto caldo e accogliente.

   
 
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