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Autore: Adeia Di Elferas    02/03/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina arrivò nel salone proprio in un momento in cui, tra Alessandra Scali e Francesco Fortunati era sceso il silenzio. La padrona di casa era seduta su una poltroncina imbottita e guardava verso il camino spento, l'uomo, invece, era vicino alla finestra e scrutava l'esterno.

Entrambi, nel sentire i passi della Tigre, si voltarono di scatto verso la porta. La Tigre notò subito il cambiamento repentino delle loro espressioni, e trovò le loro diverse reazioni molto interessanti.

La Scali era visibilmente sollevata, nel vederla, ma aveva anche un che di tragico, nello sguardo, come se quell'increspatura netta tre le sopracciglia volesse far capire al mondo quanto le facesse piacere vedere la Leonessa di Romagna viva, ma, allo stesso tempo, quanto la facesse soffrire sapere che suo marito Michele aveva dovuto morire per contribuire a quel risultato.

Il piovano, invece, sembrava un bambino che, dopo aver aspettato per mesi l'arrivo di un evento molto atteso, finalmente si sentiva dire che il momento era giunto e che tutto, da lì in poi, sarebbe stato perfetto e meraviglioso. Il suo volto, in quel frangente, non sembrava più quello di un uomo di quarant'anni, ma quello di un ragazzo, pieno di vita e speranza.

“Siete stati preziosi, per me.” disse Caterina, prima che i due potessero dire anche sola mezza parola: “Perciò, voglio prima di tutto dirvi che d'ora in poi farò qualsiasi cosa sia in mio potere per ringraziarvi.”

“Non dovete dire così.” ribatté Alessandra, alzandosi e andandole incontro: “Io l'ho fatto con piacere, perché mio marito credeva in voi.”

La Tigre si specchiò per un lungo istante nelle iridi scuri dell'altra e, sussurrando, disse: “Mi è stato detto di vostro marito...” non sapeva come porgere le condoglianze a una donna che aveva perso lo sposo in nome di una causa che in molti avevano ritenuta persa in partenza, così preferì usare termini poco usuali per farlo: “Era un soldato impagabile e un uomo di estrema cultura.”

“Sto cercando di radunare tutti i suoi scritti.” rispose Alessandra, annuendo: “Voglio darli alle stampe il prima possibile... Non meritano di andare persi e dimenticati.”

“Avete ragione.” la incoraggiò Caterina, lanciando un'occhiata, finalmente, anche a Fortunati, che se ne stava in secondo piano, in attesa.

Mentre la padrona di casa diceva ancora qualche breve parola in memoria del marito e la Tigre le rispondeva spiegandole quanto Marulli fosse stato importante e valoroso durante la difesa di Forlì, il piovano fece mezzo passo avanti, come a volersi far notare.

La Sforza intercettò il suo tentativo di insinuarsi nel discorso e così gli chiese: “Puoi lasciarci un momento sole? Con te voglio parlare più tardi... Di varie cose.”

Francesco incassò con grazie quella che gli suonò come un'esclusione gratuita a un discorso a cui avrebbe potuto benissimo prendere parte anche lui. Tuttavia, fin da quando aveva visto la Leonessa uscire da Castel Sant'Angelo, aveva capito che, per quanto molto cambiata, quella donna restava la bestia selvatica che era sempre stata e sforzarsi di capire i suoi modi a tratti troppo bruschi o distaccati non aveva senso. Bisognava accettarla così com'era e basta. Amarla od odiarla, sembrava non potesse esserci altro modo per approcciarsi a lei.

“Va bene...” soffiò l'uomo, abbozzando un sorriso: “Allora a più tardi.” e senza attendere ulteriori dispense, chinò il capo e lasciò il salone.

La Sclai fissò per un breve istante Caterina e poi, senza riuscire a trattenersi, commentò: “Siete stata scortese, con lui. Vi aspettava da tanto tempo e...”

“Fortunati mi conosce.” tagliò corto la Sforza: “Sa quanto gli sono grata. Con voi, invece, non ho ancora avuto modo di mostrare la mia riconoscenza.”

Alessandra, stringendo le mani l'una nell'altra, invitò l'ospite a mettersi comoda sulla poltrona o sul divanetto, per riposarsi dal lungo viaggio e poi sottolineò come ogni sua azione fosse stata mossa da una profonda convinzione di star facendo del bene e non dalla speranza di ottenere una qualche ricompensa in denaro o gioielli.

La Tigre accettò di mettersi seduta, felice di poter riposare le gambe, e poi si mise a squadrare la sua interlocutrice con grande minuziosità. Era una donna molto bella, questo era indubbio. Non la sorprendeva pensare che un uomo non comune come Michele Marulli avesse potuto innamorarsi di lei. Malgrado le profonde occhiaie e l'abito a lutto, Alessandra aveva ancora un fascino dirompente.

“Sono felice che non vi aspettiate ricompense pecuniarie – commentò la Leonessa, non appena l'altra tacque – perché al momento non ho nemmeno i soldi per comprarmi il pane, figuriamoci dare ricompense...”

La colligiana non capiva, allora, dove la milanese volesse andare a parare. Sedendosi davanti a lei, si mise in attesa.

“Voglio solo farvi sapere questo, sempre che possa fungere in qualche modo da ricompensa...” il tono della Sforza si era fatto sottile, mentre cercava nel profondo le parole giuste per esprimere quello che aveva in testa: “Vostro marito aveva una stima immensa di voi e quindi anche io l'ho. E per questo sono sicura che quello che vi dirò vi ripagherà, almeno in parte, di tutti i fastidi che vi abbiamo procurato.”

Ancora una volta, Alessandra non disse nulla, né si mosse. Ebbe solo un breve tremito del labbro, nel sentir citare il marito, ma nulla di più.

“Quando era in cella – riprese Caterina, abbassando lo sguardo – ero sicura di non uscirne viva. Ho avuto febbri, malori, freddo, paura e fame, non immaginate quanta fame...”

L'aria tra le due era immobile. In lontananza si sentivano i rumori della casa, ma quel salone sembrava come stregato. I respiri delle due donne parevano le uniche cose reali, in quel clima sospeso.

“L'unico pensiero che mi teneva viva era sapere che i miei figli erano al sicuro.” la Tigre deglutì e poi, asciugandosi con il dorso della mano una piccola lacrima che stava scivolando verso la guancia, concluse: “E so, ve lo giuro, io so che se ho potuto sopravvivere con quella speranza è solo grazie a voi.”

“Anche messer Fortunati si è prodigato molto per...” cominciò a dire la Scali, più per non cedere alla commozione che non per fretta di tacitare l'ospite.

“Francesco ha fatto tanto, è vero, e non è stato l'unico.” annuì l'altra: “Ma se non aveste preso voi in custodia i miei figli, so che non l'avrebbe fatto nessuno. Non con la stessa abnegazione, soprattutto.”

A quel punto, la padrona di casa si sentì in dovere di dire: “Ho fatto solo quello che ritenevo giusto.”

Da quel momento in poi, per oltre mezz'ora, le due donne discussero come vecchie amiche, come se non ci fossero state né tragedie né gravi lutti a legarle, ma solo una reciproca simpatia. Se la Tigre era curiosa di sapere cosa stesse accadendo a Firenze, Alessandra domandava notizie sulla sua salute e sul viaggio appena intrapreso.

“Come si sono comportati i miei figli?” chiese, a un certo punto, Caterina.

“Meglio di come si sarebbero comportati tanti altri.” la rassicurò la Scali: “Certo, vostro figlio Ottaviano non è un uomo facile con cui avere a che fare...”

Il fatto che qualcuno si riferisse al suo primogenito chiamandolo disinvoltamente 'un uomo' diede una strana scossa alla Leonessa. Sapeva che Ottaviano, con i suoi ventidue anni, era un adulto a tutti gli effetti e che, per di più, aveva anche una figlia riconosciuta, e chissà quanti altri lasciati senza cognome in Romagna... Eppure le fece ugualmente uno stranissimo effetto.

“Cesare è stato qui poco, e ha sempre tenuto molto le distanze, con me, quindi non saprei dirvi che ne penso... Galeazzo, invece, è un giovane a modo e molto rispettoso. È molto più maturo della sua età.” elencò la colligiana: “Sforzino apprezza la cucina delle mie cuoche e anche i libri della mia biblioteca.”

“Spero non sia sembrato troppo invadente...” si preoccupò di difenderlo la madre: “Lui ama molto il cibo e studiare...”

“Per me è stato un piacere, offrirgli quello che avevo... Lui, poi, è un interlocutore molto stimolante, benché sia ancora un ragazzino.” le assicurò Alessandra: “Se solo anche Carlo amasse i libri quanto lui..! È un vero discolo, da non riuscire a tenerlo in casa più di mezza giornata di fila, ma ha un animo buono.”

“Carlo?” domandò la Sforza, un po' soprappensiero.

“Forse non siete abituata a sentirlo chiamare in questo modo – sorrise la Scali – in effetti ho sentito i suoi fratelli chiamarlo più che altro Bernardino, quindi immagino che in famiglia lo chiamiate tutti ancora così...”

“Sì, infatti...” disse piano Caterina, ripensando al momento in cui era riuscita, finalmente, a riabbracciare Bernardino e a vedere quanto fosse cresciuto.

In realtà, già quando ancora erano a Forlì il bambino aveva iniziato a farsi chiamare Carlo dagli amici e da chi era estraneo alla famiglia, solo che la Tigre aveva cancellato quel dettaglio dalla sua memoria. Benché fosse stato proprio il suo Giacomo a imporre quel nome al loro unico figlio, in onore di re Carlo VIII, la milanese non l'aveva mai davvero accettato.

“E Bianca?” chiese la Leonessa, senza indagare troppo su quanto, esattamente, Bernardino fosse stato difficile da gestire, per la Scali.

“Lei è qui davvero da pochi giorni...” rispose Alessandra, accigliandosi appena: “Direi che è una giovane donna molto gentile e dolce, specie con il piccolo Giovanni.”

Siccome nel tono della colligiana c'era un che di sospeso che la stava insospettendo, la Sforza le chiese apertamente: “Vi sembra che ci sia qualcosa che non va, in lei?”

La padrona di casa si morse il labbro, quasi ricordandosi solo in quel momento chi fosse la donna con cui stava parlando. Non aveva mai pensato davvero, prima di allora, che colei che si trovava dinnanzi era la stessa che era stata accusata per anni di non avere morale, di aver lasciato passare dal proprio letto un intero esercito. Cosa poteva dire, a una donna del genere, riguardo ciò che lei aveva notato circa Bianca?

“Niente, è solo una giovane donna che... Che forse dovrebbe trovare presto marito.” sintetizzò, sperando di essere stata chiara, pur non avendo parlando apertamente.

Lei stessa, in realtà, non aveva mai seguito appieno le leggi non scritte della società, trovandosi, anni prima, anche al centro di una contesa amorosa tutt'altro che convenzionale. Alla fine aveva scelto Michele ed era stata una moglie devota e fedele, ma non poteva definirsi una santa, dato che prima di prendere la sua decisione non aveva disdegnato né lo stesso Michele, né il suo altro innamorato, Agnolo Poliziano.

La Leonessa credeva di aver capito cosa intendesse la sua interlocutrice. Aveva sempre concesso molta libertà a Bianca, e sapeva, o, almeno, era abbastanza convinta, che la figlia ne avesse fatto buon uso, quando ancora viveva alla rocca con lei. L'aveva vista più volta in atteggiamenti abbastanza chiari con qualche giovane soldato, ma si era sempre fidata ciecamente sia del suo giudizio, sia della sua prudenza.

“Un marito l'avrebbe, purtroppo.” commentò, con la voce un po' arrochita: “Un ragazzino di nome Astorre Manfredi che, da quello che so, si trova ancora a Castel Sant'Angelo, in una cella non lontana da quella in cui avevano rinchiuso me.”

Per la seconda volta nel giro di pochissimo tempo, la Scali si trovò a rendersi di colpo conto di chi avesse davanti. Le sembrava quasi impossibile, guardandola, che la donna che le stava parlando fosse la stessa rimasta rinchiusa per oltre un anno nelle segrete dei Borja. Eppure era così.

La vedova di Marulli lasciò cadere il discorso e attese che fosse Caterina a riprendere: “Vi ringrazio una volta di più. Qualsiasi cosa io possa fare per voi...”

“Una cosa c'è.” si decise a dire la Scali: “E ne ho già parlato anche con messer Fortunati, ma ci tengo che non prendiate la cosa come un'offesa nei vostri confronti.”

La Tigre strinse un momento gli occhi mentre, imitando l'altra, si alzava e si incamminava verso la porta del salone.

“Sono a un punto della mia vita in cui desidero un po' di solitudine.” spiegò Alessandra: “Non voglio cacciarvi dall'oggi al domani, ma, ora che anche voi siete qui, preferirei che lasciaste tutti il mio palazzo, in modo che possa dedicarmi al lutto e alla preghiera.”

La Leonessa non si era aspettata un simile discorso, non nell'immediato, almeno, ma apprezzò molto la franchezza con cui quella donna le si stava rivolgendo: “Vi capisco e condivido il vostro pensiero.” le assicurò: “Se mi darete qualche giorno appena, vedrò di trovare per tutti noi una sistemazione alternativa.”

In realtà, la milanese non aveva la più pallida idea di come fare, ma confidava nel soccorso del piovano, che aveva più di un aggancio in città. Non aveva soldi, ma, forse, avrebbe potuto sfruttare la sua posizione di protetta del re di Francia o vendere qualche gioiello, sempre che i suoi figli li avessero ancora con sé.

“Prendetevi anche qualche settimana – concesse Alessandra, abbassando lo sguardo – non è mia intenzione mettervi fretta, vorrei solo...”

“Ho capito.” ribadì la Leonessa, con un tono molto più conciliante di quello che sarebbe riuscita a usare fino a un paio di anni prima: “Rispetto il vostro dolore e il vostro bisogno di silenzio e solitudine. Anche io pretenderei un po' di pace, al vostro posto.”

Dato che entrambe sembravano essere d'accordo sul fatto che sull'argomento non ci fosse altro da aggiungere, ricominciarono a camminare verso la porta.

Solo una volta passata la soglia, la Tigre ebbe lo spirito di dire: “Vi ringrazio anche per il vestito. Io non ne avevo con me. Mi avete permesso di entrare in Firenze più inosservata di quanto non mi sarebbe accaduto vestita da uomo.”

Alessandra scosse il capo: “Non preoccupatevi. Ve ne ho fatti mettere da parte altri due. Sempre che vi stiano bene...” poi, con un mezzo sorriso, concluse: “Ho fatto predisporre per voi un bagno caldo, su consiglio di vostra figlia. Se volete, mando i servi con l'acqua calda nella stanza che vi avrei dedicato... Intanto vi faccio accompagnare...”

“Siete troppo gentile.” ringraziò Caterina: “Ah... Potreste mandarmi in camera anche messer Fortunati? Devo parlare anche con lui...”

La Scali ebbe un attimo solo di esitazione. La sua ospite le stava, di fatto, domandando di inviare un uomo, seppur un religioso, nella sua stanza mentre sarebbe stata intenta a farsi un bagno. Non c'erano voci su una possibile relazione tra Fortunati e la Sforza, soprattutto grazie alla ferrea reputazione di Francesco, ritenuto da tutti un uomo di Chiesa dai principi così saldi da sfiorare quasi la santità in terra. Non c'era stata malizia, nel modo in cui la Leonessa aveva chiesto di lui, eppure...

“Certo, glielo dico immediatamente.” disse alla fine Alessandra, convincendosi che non fossero affari suoi: “Carlo!” chiamò poi, intravedendo il profilo del piccolo Feo spuntare da una delle porte alla loro destra.

Il ragazzino, un po' guardingo, si avvicinò alle due donne, fissando quasi esclusivamente la madre.

Più lo guardava, più Caterina vedeva in Bernardino, che in novembre avrebbe compiuto già undici anni, Giacomo. Anche se la tonalità delle iridi assomigliava più alla sua che non a quella del suo secondo marito, e anche se il castano dei suoi capelli era più chiaro, forse temperato dall'influenza del suo colore biondo, e anche se il ragazzino aveva dei modi scostanti più simili ai suoi che non a quelli del padre... Anche se in tantissimi dettagli Bernardino sembrava voler gridare al mondo di essere figlio della Tigre di Forlì, la Sforza rivedeva in lui sempre e solo il suo Giacomo.

“Bisognerebbe mostrare a tua madre la sua stanza.” disse la Scali, usando volutamente una forma indiretta, per non rischiare di incappare nell'ostinatezza del Feo, che, spesso, a un ordine diretto reagiva con un direttissimo diniego.

Forse il coinvolgimento della Leonessa o forse la particolarità della situazione, portarono Bernardino ad annuire all'istante: “La porto io.” si offrì, guardando la madre speranzoso, forse, di ricevere subito da lei un gesto d'affetto che, per oltre un anno, era mancato.

Una volta tanto, anche la Tigre non si fece pregare e, allungando una mano verso il figlio, gli accarezzò la guancia liscia e regolare, che stava prendendo colore a vista d'occhio: “Andiamo.” lo incoraggiò.

Alessandra rimase immobile a guardare madre e figlio che, stando uno accanto all'altra si allontanavano. Sentì una morsa all'altezza dello stomaco al pensiero che lei e Michele non aveva avuto figli e che lei, ora, da sola, non aveva nemmeno il conforto di un bambino a ricordarle i tratti del marito. Anche se la Sforza aveva sofferto immensamente per l'assassinio del Barone Feo, pensava la colligiana, almeno aveva ancora il suo giovane virgulto...

 

“È davvero lei?” chiese Lorenzo, puntando gli occhi bovini in quelli sfuggenti della sua spia.

“Da come i Riario l'hanno accolta, direi di sì.” rispose l'uomo, non badando troppo al modo in cui il suo padrone lo tratteneva stringendogli il lembo del camicione.

Erano nel cortile del palazzo dei Medici, in via Larga, e il sole batteva impietoso sulle loro teste, mentre dal suolo saliva un calore quasi eccessivo, benché si fosse ormai alla metà luglio.

“Come fate a essere certo che quelli che avete visto fossero proprio i Riario?” indagò il Popolano, che voleva essere certo di non aver preso un abbaglio.

“Quello che fa il prete a Pisa...” ribatté l'altro, spiegandosi male, ma in modo efficace: “Ha un naso da corvo difficile da confondere.”

A quel punto, Lorenzo mollò la presa e si rabbuiò. Mordendosi il labbro, cominciò a respirare più in fretta. Sapeva che la Sforza sarebbe arrivata in Firenze a breve, ma non si era atteso che ci mettesse così pochi giorni.

Cominciava a credere sempre di più a quelli che sostenevano che la Tigre di Forlì non avesse lasciato Roma davvero per concessione papale, ma che ne fosse scappata di nascosto e che Alessandro VI, da buon politico, avesse a posteriori cercato di riparare a quell'incidente per non scontrarsi con la Francia. Dopotutto, se non fosse stato così, la breve del papa che aveva di fatto protetto l'arrivo della Leonessa a Firenze sarebbe dovuta arrivare molto prima.

“Potete andare.” soffiò Lorenzo, scacciando la sua spia con un cenno della mano.

Aveva visto sua moglie al portone d'ingresso, seguita da due serve di casa. Portava un velo scuro in testa e aveva gli occhi un po' gonfi. Non era impossibile pensare che fosse stata in San Lorenzo a pregare per il loro povero Averardo. O, magari, per Giovanni.

“Andate avanti, devo un attimo...” sussurrò la donna, lasciando cadere la frase a metà e mettendosi a camminare verso il marito: “Che cosa ti stava dicendo?” chiese, indicando con lo sguardo la spia che se ne stava andando.

Il Medici fu tentato di non dirle nulla, dato che era sicuro che la moglie avrebbe colto l'occasione per portarlo a un litigio, o, almeno, a un battibecco. Però non sapeva che cosa fare e quindi, come aveva fatto tante volte negli anni, provò a esporle i fatti per sentire il suo parere.

“La Sforza è arrivata oggi a Firenze. Sta al palazzo degli Scali.” disse lui a voce bassa.

Semiramide fece un respiro profondo. Trattenne, con grande difficoltà, il suo primo istinto, ovvero riprendere con toni sostenuti, il marito. Avrebbe voluto fargli capire che era la sua occasione per dimostrarsi un uomo migliore di quello che era diventato. Sarebbe stata perfino pronta a ricominciare daccapo con lui, se solo si fosse dimostrato disposto a cambiare.

Tuttavia, quando l'uomo, preda della fretta, le chiese: “Allora?” l'Appiani scosse il capo.

“E allora non sono affari miei.” decretò e, con un sospiro pesante, guardò altrove e passò accanto al Popolano, senza più voltarsi.

Rimasto solo, Lorenzo avvertì le proprie viscere rivoltarsi dalla rabbia. Semiramide lo aveva tormentato per mesi, anzi, ormai per anni, dicendogli cosa avrebbe dovuto dire e fare e adesso, proprio quando lui avrebbe voluto da lei un'indicazione, se ne lavava le mani.

Quasi correndo, andò nella sua stanza e chiamò uno dei servi: “Preparami uno dei vestiti buoni. Io devo... Io devo andare subito al palazzo degli Scali.”

   
 
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