Ho perso una scommessa con Mela, e le devo una shot
di almeno mille parole. Ne fa duemila e rotte, ed è l’unico
parametro che ho rispettato: voleva una SasuNaru
ambientata durante la battaglia finale, e questa non è l’una
né l’altra cosa.
Ma parla di Naruto, di Sasuke, e in
qualche contorto modo della cosa che
li lega.
Spero che ti piaccia, Clà.
DOBE
L’ospedale è immerso nel
tran tran di sempre, come ogni giorno. C’è una luce tersa che
penetra dalle finestre, illuminandosi con delicatezza i camici candidi delle
infermiere, quelli spesso dimenticati dei medici. I membri del personale
s’incrociano nel corridoio centrale, chi affannandosi frettoloso, chi
discutendo con i colleghi, forse a proposito di un consulto, chi studiando
cartelle cliniche, chi spingendo carrelli di medicinali, chi scortando un
malato, un ferito, qualche parente un po’ pallido che sembra messo in
soggezione dall’ospedale.
Anche a Naruto succedeva,
all’inizio: oltrepassava la soglia e si sentiva invadere da quello strano
senso d’inquietudine e debolezza, avvolto dall’odore tipico della
clinica, il puzzo di malattia e medicinale, di morte incombente. Gli sembrava
di camminare su una superficie molto fragile, pronta ad incrinarsi al minimo
movimento più marcato, e respirava piano.
Ma poi, col passare dei mesi, venendo
lì giorno dopo giorno, ci ha fatto l’abitudine: e ormai quando
arriva non percepisce nemmeno la differenza tra il profumo che c’è
fuori, quello fresco e ventoso della boschiva Konoha, e quello stantio e
penetrante che c’è lì dentro; conosce tutti, dal più
tronfio dei ninja medici alla più timida delle donne delle pulizie, e
tutti lo salutano con un cenno, un sorriso o una parola incoraggiante, mai
sorpresi di vederlo. Ogni pomeriggio, un mese dopo l’altro, sempre con
l’aria svagata e un po’ disinteressata di chi è lì
solo temporaneamente e ben presto smetterà di farsi vedere da quelle
parti. Un visitatore occasionale che percorre il corridoio in cui sono
collocate le camere dei lungodegenti per un bizzarro caso che non si ripeterà
ancora a lungo.
E ci crede davvero, Naruto, anche se
ogni giorno continuare a convincersene gli costa uno sforzo più intenso.
Anche se il vago sorriso con cui fa la sua comparsa in ospedale fatica sempre
di più a non incrinarsi quando, chiedendo se ci sono stati cambiamenti,
gli viene puntualmente risposto che la situazione è stazionara.
Ha cessato di porre la domanda a
Sakura proprio perché dargli tutte le volte quella risposta le faceva
del male, e lui se ne accorgeva: vedeva lo smeraldo dei suoi occhi farsi
più brillante, lucido, e si sentiva colpevole. Dopo tutto la
responsabilità è davvero sua, anche se Shizune e Kakashi dicono
che Kyuubi, che Sasuke era debilitato già prima di quella notte, che il
Mangekyou è come una malattia, che corrode tutto. Così quando
incontra Sakura fa finta di niente, ridacchia, sbruffoneggia.
“Buon pomeriggio,
Sakura-chaaan!”
“Oh, Naruto, di nuovo qui a
disturbare!” gli risponde la dottoressa, quasi ogni volta. Recita anche
lei, Naruto lo sa. E del resto non resta altro da fare che recitare quella
commedia e comportarsi come se non fosse cambiato niente, così da
convincersi almeno per un attimo che sono ancora gli stessi tutti e tre.
“Hai un po’ di tempo
dopo, Sakura?”
“No, Naruto, ho già
fatto la pausa.”
“Ma solo un momento, Sakura! Ti
offro un ramen.”
“Che buffone, Naruto,”
sospira lei, con quel fare materno, quell’intimità altezzosa.
“E dai, esci con me!”
“Ho detto no, zuccone!”
Ceneranno insieme, forse, perché
sono amici, o andranno presto in missione insieme, ogni volta, e sanno
tutt’e due che la risposta all’invito galante sarà sempre
negativa e anche che Naruto continuerà a ribadirlo all’infinito.
Semplicemente perché è sempre stato così. Poi lui la
lascia lavorare, passa oltre, sale le scale verso la stanza in fondo al
corridoio del terzo piano, su quel tragitto che conosce così bene. Ha
mandato a mente ogni imperfezione del pavimento piastrellato, ogni crepa delle
pareti, ogni gioco di luce disegnato attraverso i vetri delle finestre.
E quando chiede al ninja medico di
guardia se ci sono cambiamenti, quello sembra ogni giorno più perplesso,
e lo è anche oggi: come se si chiedesse chi diamine glielo fa fare, di
continuare imperterrito a porre quel quesito di cui conosce perfettamente la
risposta. Non capisce che Naruto ha bisogno di credere, che l’unica cosa
che lo spinge avanti è quella speranza caparbia e infantile.
“Salve, come andiamo questo
pomeriggio?”
L’uomo fa spallucce, lo guarda
passare distrattamente.
“Come al solito. Stamattina era
molto agitato, così l’abbiamo sedato. Ora va meglio, ma è
di pessimo umore.”
Naruto ridacchia, beffardo.
“Allora è
migliorato,” commenta ironico, e imbocca finalmente la porta.
Sasuke è seduto davanti alla
finestra, immerso in uno dei pigiami azzurrini che Naruto ha fatto adattare
– c’è su stampato un ventaglio bianco e rosso, adesso.
Guarda fuori inespressivo, resta immobile, non fa caso al suo arrivo. Naruto ci
è così abituato che ormai non se ne accorge nemmeno più.
“Ciao, teme! Come va? Hai fatto
pranzo, era buono?” Inizia a parlare con naturalezza, sorride, si
avvicina a guardar fuori anche lui. “Non hai mangiato il dolce nemmeno
oggi, ci scommetto! Sei davvero un testardo. C’era il riso?”
Sasuke guarda fuori, gli occhi fissi.
“Ho visto Sakura, mi ha di
nuovo fatto correre. Ti è venuta a trovare stamattina, vero? Sakura,
dico.” Alza un po’ la voce, e Sasuke si volta lentamente, lo guarda
con quegli occhi stralunati che per tutti gli altri sono così strani,
così sinistri, e che per Naruto sono semplicemente gli occhi di Sasuke,
come lo erano prima quando freddamente osservavano il mondo con alterigia e
lontano sarcasmo.
“Correre,” ripete, atono.
“Sì, lo sai
com’è fatta. Preferisce te, anche se sei uno stronzo,”
risponde Naruto con una smorfia, prima di sbuffare. “Chi la capisce
è bravo, te lo dico io.”
“Dico. Dico, dico.”
Sasuke parla con gli occhi puntati
sulla parete, la voce grave assolutamente piana.
“Mi hanno detto che stamattina
non stavi bene,” azzarda Naruto, appoggiandosi al davanzale. “Come
mai? Hai fatto un sogno?”
Sasuke sposta di nuovo la testa, lo
osserva fisso, sgrana gli occhi in modo quasi spiritato.
“Sogno,” ripete, assorto.
“Nove. Nove, nove, nove, nove. Nove, nove,” inizia a cantilenare,
sempre più febbrilmente. È la parola che dice più spesso
di tutte e Naruto sa che a volte finisce per agitarsi.
“Sì,” afferma
bonario, appoggiando affettuosamente la mano sul suo braccio per calmarlo.
Sorride amaro, con uno sforzo su se stesso che sa di violenza.
“Sì, teme, le code sono nove.”
“Nove. Nove, nove.”
“Certo, nove code. Ma non ci
sono, adesso, vedi?” continua Naruto, e spalanca le braccia, si mostra,
sorride. Sasuke lo guarda senza farci caso, si smarrisce, fissa tutto e niente.
Chissà in quale strano posto si è persa la sua mente, e cosa sta
vedendo, chissà se è stato Kyuubi o il suo stesso potere a
mangiargli il cervello. È così che Naruto lo vede, come se il
bijuu avesse divorato a morsi il suo raziocinio. E vorrebbe farglielo sputare
fuori a suon di calci.
“Hai visto, che le code non ci
sono?” insiste piano, chinandosi un po’ verso il genio. Sasuke
sbatte le palpebre, sembra fare uno sforzo di concentrazione per dargli retta,
lo guarda. Ha le labbra serrate, le guance scavate e la pelle più bianca
di un tempo, malsana. Le palpebre sono perennemente troppo aperte, lo fanno
sembrare uno strano gufo, ma Naruto capisce – ed è l’unico a
farlo – come Sakura riesca ancora a trovarlo bello. È Sasuke,
sempre lui. Con quel naso all’aria, quel viso nobile e, nonostante la
follia, quel suo invariato, amato carattere di merda. Quando ha le crisi
diventa di una violenza bestiale. “Ti uccido,” ha annunciato una
volta all’infermiera che lo tratteneva. “Peggio per te, ti
uccido,” ha ribadito, e quando lei, facendogli l’iniezione, gli ha
domandato perché, lui non ha fatto una piega. “Perché
sì, perché sì, perché sì. Mi va.”
E oggi, per un capriccio...
“Nove,” dice per
un’ultima volta, placato. Naruto cerca di sorridere, ma fa pena pure a se
stesso. Sasuke lo guarda ancora, solleva la mano. “Gialli,” dice, e
questa volta a Naruto scappa un riso vero.
“Sì, ho i capelli
gialli,” ridacchia, intanto che le dita leggere del genio
s’infilano tra le sue chiome bionde ed arruffate. “Giallissimi,
eh?”
“Capelli… Tetto?”
Il sorriso di Naruto si amplia.
“Vuoi prendere il sole, mh, teme?” commenta sornione, prima di poggiare le
mani sulle impugnature dello schienale della sedia a rotelle.”Hai
ragione, è una bellissima giornata.”
“Frega,” commenta Sasuke noncurante, mentre lui lo spinge
fuori dalla stanza di lena. Effettivamente, al genio del bel tempo non ha mai
importato granché.
Il ninja medico non bada nemmeno al
loro passaggio, perché seguono quello stesso iter tutti i giorni. A
Naruto piace portare Sasuke sopra il tetto, fare lo slalom tra le lenzuola
stese e fermarsi ansimante accanto alla due cisterne dell’acqua. Una
volta, un paio di settimane fa, è riuscito a far produrre al suo
migliore amico un piccolissimo Katon. Hanno
incendiato delle federe, e Sasuke ha riso.
“Pronto?” esclama ilare,
giungendo in cima alla rampa, sulla soglia. “Via! Vroaaam,
vroam!” esclama, lanciando la sedia di corsa
tra i tessuti. Sembra di oltrepassare decine di tende tese verso il cielo.
Sasuke non parla, ma ha lo sguardo di
un bambino che si diverte. Quando si fermano, gira la testa a guardare le
lenzuola ancora ciondolanti con quella che al jinchuuriki pare soddisfazione.
Ed è in questo momento, mentre ride scioccamente tanto per farlo, che
Naruto indietreggia per darsi equilibrio, il suo piede si scontra con
l’inghippo di un dislivello nel pavimento sconnesso del tetto, il suo
corpo si sbilancia in avanti e mentre Naruto cade per terra spinge via la sedia
a rotelle. Sasuke emette un’esclamazione soffocata –
realisticamente un insulto emerso dalla nebbia della sua mente menomata –
e caracolla con la sedia, sbatte contro un palo da stendere e la ruota fa
perno, facendolo girare velocemente.
“Scusa, teme!” esclama
Naruto, tirandosi in piedi e facendo per avvicinarsi. Il genio borbotta
qualcosa, mentre la sedia rallenta il suo moto, quindi prende fiato. Naruto si
ferma davanti a lui, ridacchia a mo’ di scusa, si gratta la testa.
“Dobe!
Dobe, dobe!”
E Naruto sgrana gli occhi azzurri,
con un sussulto brutale che scaturisce dal suo profondo io. Non sentiva quella
parola da tanto, troppo tempo, dai mesi intercorsi da quella sera maledetta in
cui l’ultima battaglia ha avuto luogo. Cerca di prendere fiato ma
l’aria resta incastrata nella sua gola e gli occhi gli pizzicano.
“Dobe,”
borbotta ancora Sasuke, oltraggiato. Ha le guance che hanno preso colore per
l’affanno, gli occhi che scintillano d’indignazione. È
Sasuke, ed è straordinario.
“Sì, sono un dobe,” mormora lui a denti stretti. “Te ne
ricordi, eh? Bene,” mormora poi, con le orecchie che ronzano piano.
Si sente molto stanco e molto agitato
d’improvviso, una specie di ansiosa, confusa catalessi. Di botto ha
bisogno di congedarsi da Sasuke, di allontanare la sua presenza da sé,
digerire la novità. Lo riporta in camera, gli porge il braccio quando il
genio debolmente si alza e cammina fino al letto, gli sistema addosso le lenzuola.
È sottile, Sasuke, più che da bambino. Gli sorride
un’ultima volta.
“A domani, teme.”
“Domani.”
Naruto inspira finalmente a fondo,
marcia di fretta e senza nemmeno pensare a dove va, semplicemente per
allontanarsi. Ha il cuore che martella in petto sempre più forte fino a
diventare una grancassa impazzita che scorta il suo camminare, così
rapido da sembrare una corsa. Si ferma di scatto, piega il busto in avanti
puntando le mani sulle proprie ginocchia. Tenta di prendere fiato, strizza gli
occhi, le labbra gli tremano. Si trascina fino alla prima delle sedie che, in
fila, adornano il lato del corridoio, e ha la guancia bagnata di qualcosa come
una lacrima nel momento in cui si abbandona a sedere, la vista offuscata.
“Naruto?”
Vorrebbe gridare, staffilato dal
fatto che Sakura lo veda proprio ora. Invece stringe i denti e ricompone il
viso in qualcosa che non sembri una smorfia, però non sa dominarsi
abbastanza da tacere.
“Mi ha chiamato dobe, come una volta. Mi ha chiamato dobe,”
esclama di slancio, con affanno, e lo ripete anche per sentirne meglio il
suono, intanto che chiude gli occhi per non far uscire altre lacrime.
Avverte il fruscio del corpo di
Sakura che si lascia andare accanto a lui e, dopo pochi secondi, sente anche il
suono soffocato dei suoi singhiozzi sovrapposto a quello del proprio respiro
spezzato. Ma se il loro pianto sia dovuto al sollievo per quel debole
miglioramento o all’amarezza per quel nuovo, piccolo passo che alimenta
la loro masochistica speranza, questo Naruto non lo sa.
Però, lo stesso, spera.