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Autore: edoardo811    21/04/2021    5 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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36

Il mondo dell’oscurità

 

 

«Davvero credevi che sarebbe andato tutto bene?»

Scorci del suo passato, immagini sbiadite di ricordi dimenticati, appesi come fotografie sulle pareti di una stanza che vorticava attorno a lui. Era nell’occhio del ciclone. Suoni, voci, paesaggi, luoghi che aveva visto, persone che aveva conosciuto e che aveva sentito, ogni cosa era mischiata in composto caotico che schizzava di fronte ai suoi occhi. 

«Come speravi di farcela da solo?»

Un ufficio. Diverse persone. Un ragazzino con un occhio nero, nascosto dietro ad un uomo vestito elegante che sbraitava contro un altro uomo. Il padre di quel moccioso, infuriato con il preside per quello che era successo al suo adorato figlio. Gli sguardi carichi di rabbia che gli rivolsero, misti al sorrisetto divertito del ragazzino che lo osservava beffardo, conscio di aver vinto. 

«Avevano ragione ad essere infuriati con te. Sei sempre stato un problema.»

Agenti di polizia che lo interrogavano, luci puntate sulla sua faccia. Urla che si accallavano, mani che lo afferravano strattonandolo. 

«Avrebbero dovuto rinchiuderti quel giorno stesso e buttare via la chiave.»

La pioggia battente che gli tagliava il volto mentre avanzava da solo, ferito, in una gelida notte senza luna dopo essere stato attaccato per l’ennesima volta da mostri orribili ed essere sopravvissuto per miracolo. 

«Esattamente come gli scarafaggi. Nessuno ti voleva, eppure riuscivi sempre a salvarti.»

Sua madre che svaniva di fronte ai suoi occhi. Sua sorella che veniva trascinata nel terreno. 

«La loro unica colpa è stata quella di volerti bene.» 

Courtney che lo osservava terrorizzata, fuggendo da lui. Una povera mortale che non aveva fatto niente di male, eccetto essere cortese.

«Ovunque sei andato, non hai fatto altro che creare problemi.»

Thomas, Derek Natalie e i figli di Ermes, Jonathan, Rosa e i figli di Apollo, Konnor, Lisa, Chirone. 

«Non sei mai stato in grado di tenerti vicino nessuno.»

Stephanie che urlava verso di lui, mentre una selva di rami cercava di afferrarlo per squartarlo in due. La foresta intera che veniva distrutta da uno scontro furibondo tra due persone che credevano di essere amiche.

«La tua unica bravura era nel fare terra bruciata attorno a te.»

Orochi che sogghignava, puntandoli contro la falce. Sempre Orochi, ora a terra in una pozza di sangue. 

Una folata di vento, una luce accecante, un piedistallo con sopra una spada. Naito che lo osservava dall’alto con sguardo impietosito.

«Hai portato a termine il tuo lavoro. Hai salvato centinaia, migliaia di vite. Ma avresti potuto fare lo stesso se fossi morto prima di arrivare al Campo Mezzosangue. La spada sarebbe rimasta senza proprietario, non ci sarebbe stata nessuna guerra. Tutto questo si sarebbe potuto evitare.» 

«Basta…» 

«Eppure hai voluto insistere, hai voluto lottare, hai voluto a tutti i costi rimanere aggrappato alla vita, rovinando decine di altre esistenze nel processo. Quante persone sono state ferite da te? Quante sono state allontanate? E alla fine, cos’è cambiato? Sei morto comunque, da solo, esattamente come hai vissuto.»

«BASTA!»

Il mondo smise di vorticare attorno a lui. Le immagini svanirono, la stanza scomparve. Precipitò all’improvviso, scivolando in un baratro di oscurità. Urlò, ma non uscì nemmeno un suono dalla sua bocca. 

L’abisso lo inghiottì.

 

***

 

Edward aprì gli occhi. Si mise a sedere, massaggiandosi la testa. Sentiva dolore dappertutto. Le braccia e le gambe erano come spaghetti, la schiena invece era un tronco di legno in fiamme. Mugugnò rumorosamente, strofinandosi le dita sugli occhi. 

Drizzò la testa. Non appena notò le teche di vetro con dentro le armi, più il piedistallo di Ama no Murakumo, realizzò di essere ancora dentro il museo. Tuttavia sembrava che qualcuno avesse staccato la corrente, perché era buio pesto lì dentro. L’intera stanza era avvolta nella penombra. 

Sì massaggiò una tempia, sforzandosi di ricordare cosa fosse successo. Era come se ci fosse uno strato di nebbia attorno alla sua mente. Ricordava quella stanza, il museo, Ama no Murakumo, di essere andato a San Francisco per un motivo, ma non ricordava quale e soprattutto non ricordava perché si trovasse proprio lì. 

Un brivido gelato lo percorse, mentre nuvole di fiato condensato uscivano dalla sua bocca ad ogni suo respiro. Oltre alla luce doveva anche mancare il riscaldamento, perché stava gelando. Si mise in piedi per scrollarsi il freddo di dosso e decise di uscire, visto che restare lì non lo avrebbe di certo aiutato a capire che diamine stava succedendo.

Si avviò verso la porta, ma prima di varcarla si voltò, verso la spada sopra l’espositore. Assottigliò le labbra, poi tornò indietro e la prese. Non era in vena di andarsene in giro disarmato.

Barcollò attraverso le esposizioni del museo, stringendo i denti per il dolore alla schiena e per le fitte alla testa. L’intero edificio sembrava essere spento e soprattutto non c’era anima viva in giro. Era da solo, accompagnato solo dal suono dei suoi passi sopra il pavimento di marmo. Aumentò la presa sul manico della katana. 

Qualcosa non quadrava.

Una sensazione sgradevole cominciò ad insinuarsi dentro di lui. Un gigantesco, pesante macigno che scivolava lentamente, partendo dalla gola e arrivando dritto allo stomaco. 

Uscì dal museo. San Francisco si stagliò di fronte a lui. Ma non era la stessa città che aveva visto quando era arrivato lì. Il parco, la strada, i palazzi, ogni cosa era avvolta dalla stessa penombra che aveva trovato nel museo. Il cielo era grigio, coperto da fitte nubi. E le strade erano deserte. Nessun pedone, nessuna macchina, nessun rumoroso gruppo di turisti. 

Il macigno nel suo stomaco si fece dieci volte più pesante all’improvviso. Cominciò a provare puro e semplice sgomento. Era forse un’allucinazione? 

Si strofinò gli occhi, sbatté le palpebre, scrollò la testa e si diede dei colpetti sulle guance. Nulla cambiò. Il paesaggio continuò ad essere grigio e triste.

«Ok…» mormorò, sentendo la gola improvvisamente arida. Deglutì, poi scese i gradini e si avviò verso il parco.

I negozi erano vuoti, neanche una luce proveniva dai palazzi, i bar sul bordo della strada erano deserti. Sarebbe stato il momento perfetto per vedere una pagliuzza rotolare da qualche parte, ma non arrivò nemmeno quello. Tutto era spento, tutto era silenzioso. C’era solo lui.

San Francisco era una città fantasma.

«Non è possibile…» mormorò al vuoto. Il suo cervello rifiutava di credere a tutto quello. «C’è nessuno?» domandò, incerto, mentre si guardava attorno. «C’è nessuno? Ehi! Venite fuori! EHI!»

Cominciò a gridare. Qualcuno doveva esserci, era impossibile che tutti si fossero volatilizzati. Eppure, la sua voce riecheggiò nelle strade deserte, rimbalzando tra i palazzi, svanendo nell’etere senza ottenere nessuna risposta. 

Edward sentì la propria fronte imperlarsi di sudore. Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Tentò di nuovo di darsi un pizzicotto per svegliarsi, questa volta così forte da lasciarsi il segno. Non cambiò nulla, in compenso però si fece un male cane.

Si massaggiò il polso, infastidito. Osservò la strada vuota e grugnì. Non si sarebbe arreso così facilmente. Iniziò a correre, urlando a squarciagola, schiamazzando come un banditore. 

Non seppe per quanto tempo andò avanti in quel modo, procedendo nel cuore della città. Si sentì soffocato da tutti quei palazzi imponenti che svettavano su di lui, al cospetto di quel cielo innaturale. In qualunque direzione guardasse, non vedeva altro che corridoi di palazzi tetri che si smarrivano nei meandri di San Francisco. 

Continuò a correre, finendo con l’arrivare al lungo mare. Nessuno nemmeno lì.

Camminò verso la passerella di legno e diede un’occhiata al mare. L’acqua era calma, con pochissime onde, e il suo colore rispecchiava quello cupo del cielo. Perfino il mare non sembrava lo stesso. Non c’era nessuna barca, non c’era nemmeno rumore dei gabbiani. 

Che tutti avessero lasciato la città? Questo avrebbe spiegato anche l’assenza delle macchine. Forse c’era stata una fuga di gas, o cose del genere. A quel punto era disposto ad accettare qualsiasi spiegazione che la sua mente era in grado di fornirgli. 

Magari lasciando San Francisco avrebbe trovato qualcuno. Chiunque, amico o nemico, non gli importava. Strinse la presa sul cornicione della passerella. Doveva esserci qualcuno.

Tutto quel silenzio, tutta quella desolazione, lo stavano facendo ammattire. Sollevò lo sguardo al cielo. Al Campo Mezzosangue gli avevano ripetuto in tutte le lingue di non chiamare gli dei per nome, o quantomeno di farlo con rispetto, perché loro li avrebbero sentiti in qualsiasi momento. 

«Zeus? Poseidone? Artemide? Qualcuno?» Sperò che la terra tremasse o cose del genere, questo almeno avrebbe significato che lo stavano ascoltando. Invece niente. 

«Siete tutti degli idioti!» gridò, ritrovandosi a sperare che un fulmine lo colpisse. Ancora niente. E se gli dei non sentivano nemmeno i suoi insulti, allora stava succedendo qualcosa di veramente terribile. 

«A… Apollo?» domandò, con più incertezza. «Papà? Almeno tu… ci sei?»

Silenzio. Edward si sentì un emerito idiota. 

«Nanishiteruno?»

Per poco non cadde in mare dallo spavento. Si era troppo abituato al silenzio di quell’intera città. Si voltò di scatto e per una seconda volta rischiò di cadere di sotto.

Una donna era comparsa all’improvviso alle sue spalle. Non aveva fatto nessun rumore, nemmeno un sibilo. Era sbucata fuori dal nulla e lo osservava fittamente con i suoi occhi parzialmente nascosti da una cascata di lunghi capelli neri, che scendevano ai lati del suo viso ovale. Era poco più alta di lui, pallida come un lenzuolo, con indosso una veste bianca e rossa strappata al di sotto delle ginocchia, lasciando scoperti i piedi scalzi. Per tenere raccolti i capelli utilizzava una specie di tiara su cui spiccava un grosso stemma a forma di ventaglio.

A giudicare dal vestito e dalla lingua, doveva sicuramente essere giapponese. Edward la esaminò in silenzio, non sapendo come comportarsi. Malgrado l’aspetto palesemente trascurato, era bella. E ormai aveva imparato a diffidare della bellezza. 

«Che… che sta succedendo qui?» domandò, incerto. «Dove sono tutti? Chi sei tu?»

Quella piegò la testa, squadrandolo. Edward sentì una scarica di brividi percorrergli il corpo. Strinse con forza la presa attorno alla katana. Cominciò a rimpiangere il desiderio di incontrare qualcuno. La donna fece un passo in avanti, parlando ancora in giapponese. Aveva un tono di voce basso e malinconico. Purtroppo, il figlio di Apollo non capì cosa disse. 

«Non… non ti capisco.»

«Mh… sì, certo che non puoi capire…» disse lei all’improvviso con un forte accento. Sentirla parlare la sua lingua gli fece uno stranissimo effetto. 

«Oh… parli la mia lingua» mormorò, allontanandosi dal cornicione e camminando lentamente in semicerchio, in modo da non trovarsi più tra di lei e il mare. «Allora… puoi dirmi che cosa sta succedendo? Dove sono finiti tutti?»

«Edward… Model…» disse lei. 

Non appena pronunciò il suo nome, Edward sentì un altro brivido percorrerlo. Non era nuovo a sconosciuti che lo conoscevano. Tuttavia… sentire il proprio nome da lei fece tutto un altro effetto. Sentiva che quella non era una sconosciuta qualsiasi. «Come… come sai il mio nome?»

La donna proseguì verso il cornicione, distogliendo lo sguardo da lui. Poggiò le mani sulla ringhiera e osservò assorta il mare, dandogli le spalle. «Ti aspettavo.»

Edward si passò una mano sulla fronte. Tutto quello non era affatto di aiuto. «Ehm… che intendi dire?»

«Sei fuggito da questo luogo. Ma non succederà di nuovo.»

Il semidio assottigliò le labbra. 

«Ok, ascolta…» Si avvicinò a lei, pronto a usare la katana se necessario. «… io non ho tempo da perdere. Se sei in grado di aiutarmi, bene, sono tutto orecchi, ma se sei qui solo per borbottare frasi senza senso allora…»

La sconosciuta si voltò di colpo verso di lui e questa volta Edward gridò terrorizzato, inciampandosi e cadendo all’indietro. Il suo volto era mutato drasticamente. Dapprima liscio e perfetto, ora era dilaniato a metà. Aveva squarci così profondi da mostrare il cranio, la pelle putrefatta e ricoperta di scarafaggi che fuoriuscivano dalle ferite senza che lei nemmeno battesse ciglio. Edward pensò che avrebbe potuto vomitare, ma non nel senso metaforico.

«Pensavi di poter fuggire dal tuo destino, ma non puoi rimandare l’inevitabile» disse lei, con quel tono di voce triste. «Questo è il mondo a cui hai sempre dovuto appartenere.»

Sollevò una mano verso di lui. Edward gridò e si coprì d’istinto, ma non successe nulla. Quando abbassò il braccio, notò con sgomento che il lungomare era svanito. Era inspiegabilmente di nuovo in piedi e di fronte a lui non si stagliava altro che oscurità. 

La donna gli apparve di fianco all’improvviso. «È stata colpa sua…»

Edward sobbalzò, indietreggiando di scatto. Fece per sollevare la sua spada, ma era svanita anche quella. Spalancò gli occhi, osservandosi le mani vuote. Poi si accorse che la donna non lo stava neanche guardando. Era concentrata su un punto indefinito di fronte a lei. Non era ostile. Perlomeno, non lo sembrava. Il semidio deglutì, poi spostò lo sguardo nella stessa direzione.

Un’altra donna era apparsa all’improvviso di fronte a loro, emanando un bagliore dal proprio corpo che faceva breccia in mezzo all’oscurità. Non appena la vide, Edward rimase senza fiato.

«Mamma!»

Fece per correre verso di lei, ma la sconosciuta gli mise un braccio di fronte. «Non è davvero qui.»

Edward si voltò, accorgendosi che il suo viso era tornato normale. La donna lo osservò di nuovo. Anche il suo sguardo sembrava triste. Era come… spenta.

«Lei ha cominciato tutto» disse, osservando Kate. Edward la imitò. Sua madre stava afferrando in mezzo all’oscurità degli oggetti e li stava osservando attentamente. Vasi, gioielli, dipinti, armi. 

«La nostra storia… la nostra vita… completamente degradate.» La sconosciuta cantilenò in sottofondo, mentre Edward si smarriva nei ricordi osservando quella donna che lo aveva cresciuto e che lo aveva amato. 

«Le avevano detto di non farlo. Le avevano detto che era sbagliato depredarci in questo modo. Ma lei ha continuato. Finché non ha oltrepassato il limite.»

La scena cambiò. Kate svanì, inghiottita dalle tenebre. Al suo posto, apparve all’improvviso una stanza, come se si trovassero ad un teatro e le luci si fossero appena accese sopra lo stage. In mezzo ad essa si trovava un piedistallo con sopra una spada dalla lama bianca. Edward la riconobbe immediatamente: era Ama no Murakumo. 

Kate spuntò fuori dall’oscurità all’improvviso e si avvicinò alla spada, afferrandola ed esaminandola minuziosamente. Edward cominciò a capire cosa stava succedendo. In qualche modo, quella donna gli stava mostrando il passato. Gli stava mostrando sua madre, il giorno in cui aveva trovato Ama no Murakumo.

L’oscurità ricoprì di nuovo ogni cosa. Quando Kate riapparve non era più da sola; assieme a lei c’era un uomo. Era alto, con la pelle abbronzata, i capelli lunghi biondi e una barba corta. Lui la strinse attorno alla vita e lei gli accarezzò una guancia. Sembravano entrambi sereni. Felici, perfino.

«Lui sapeva che cosa lei aveva fatto. Avrebbe dovuto solamente metterla in guardia. Invece se ne innamorò.» 

Edward osservò incredulo quell’uomo e Kate mentre si baciavano. Quello… quello era Apollo.

«L’amore tra un dio e un mortale non può durare in eterno. Lei lo sapeva, e l’aveva accettato. Prima che lui se ne andasse, però, gli aveva chiesto un ultimo dono, affinché una parte di lui potesse rimanere per sempre con lei.»

I due si separarono, poi lui appoggiò la mano sul ventre di lei. Mosse le labbra e disse qualcosa che Edward non riuscì ad udire. Kate rise, poi lo baciò di nuovo. 

Un ultimo dono. Edward sentì le proprie orecchie fischiare.

«Non potevamo permettere tutto ciò. Non dopo tutto quello che lei ci aveva fatto. Avrebbe dovuto pagare per i suoi crimini. E lo avrebbe fatto al prezzo più caro di tutti.»

La scena cambiò ancora una volta. Ora Kate si trovava in un letto, il pancione che spiccava da sotto le coperte. Aveva un’aria tremendamente sofferente. Era madida di sudore, con il volto paonazzo. 

«Lei aveva portato via la nostra cultura. Noi avremmo portato via il nascituro.»

Tutta la tensione accumulata fino a quel momento esplose all’unisono. Edward sentì la propria testa girare. Il nascituro. Lui. 

Kate spalancò la bocca in un urlo muto. La sua espressione era straziante. 

«La vita lasciò il corpo dell’infante. Il suo spirito arrivò fino a qui, dove sarebbe dovuto rimanere per sempre. Ma lui si intromise di nuovo.»

Improvvisamente, Apollo apparve al fianco di Kate. Il dio le posò una mano sulla fronte e recitò alcune parole. Kate smise di urlare, perdendo i sensi. 

«Non sarebbe dovuto succedere. Non avrebbe dovuto farlo.»

Apollo prese il neonato tra le braccia e sorrise, porgendolo a Kate, che lo strinse in un forte abbraccio mentre lacrime di felicità le scivolavano lungo le guance. 

«Non avremmo mai potuto accettare un simile affronto.»

Edward sentiva il cuore battergli con forza nel petto. Indietreggiò, scuotendo la testa. Non era possibile. Non aveva nessun senso. Kate e Apollo svanirono di nuovo nell’oscurità, lasciandolo da solo con la sconosciuta.

«Saresti dovuto morire quel giorno, Edward Model. Il tuo spirito sarebbe dovuto rimanere qui.»

La donna camminò lentamente, osservandolo con quello sguardo vacuo, triste. «Il figlio di un dio e di una mortale che era entrata in possesso di Ama no Murakumo. Il frutto di due eretici. Un terribile errore, uno sbaglio che non avrebbe mai dovuto verificarsi.»

Il semidio non riusciva a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Non riusciva a credere a niente di niente. Avrebbe voluto parlare, ma non aveva parole. Avrebbe voluto gridare, ma non aveva voce. Avrebbe voluto fuggire, ma non c’era nessuna parte in cui andare. Era da solo, completamente da solo, schiacciato dal peso della verità agghiacciante che si celava sul suo passato.

«Adesso, però, l’errore è stato corretto. Sei finalmente qui, dove la tua vita era finita prima ancora di cominciare.»

Una fitta di dolore colpì Edward alla tempia, facendolo cadere in ginocchio. 

Ladro, dove la tua storia è iniziata dovrai ritornare

Che cos’era quella frase? Perché se la stava ricordando tutto ad un tratto? La mente di Edward venne travolta da un fiume di ricordi. Il Campo Mezzosangue, i suoi amici, Ama no Murakumo, Dioniso, Chirone, la profezia.

Artemide, San Francisco, il museo, Orochi, Naito.

Doveva restituire Ama no Murakumo per impedire una guerra tra gli dei orientali e occidentali. Aveva abbandonato i suoi amici, andando avanti da solo. Aveva affrontato Orochi, aveva salvato Rosa, aveva restituito la spada. Aveva portato a termine il suo dovere e poi… poi…

Edward spalancò gli occhi e si ritrovò di nuovo sul lungomare. L’oscurità era svanita, lasciando di nuovo posto alla città. 

«Mi hai chiesto che posto è questo e chi sono io. Scoprirai che ad alcune domande è meglio non ricevere mai una risposta.»

La sconosciuta avanzò verso di lui. Il suo volto mutò nuovamente, tornando ad essere cadaverico. Edward si rese conto che le striature rosse del suo vestito non erano un semplice colore: era sangue. 

«Io sono Izanami, la dea della morte. E questo è lo Yomi.»

 

 

 

 

 

Ehi, salve. Il capitolo è piuttosto breve, per i miei standard, ma devo ammettere che è una delle rare volte in cui mi sento realmente soddisfatto di un capitolo. E comunque, capitolo più breve, aggiornamento più rapido, vincono tutti! 

In ogni caso, era da tanto che volevo mostrare questa parte di storia, forse è anche per questo che sono stato più rapido del solito. Nel prossimo capitolo naturalmente approfondiremo di più lo Yomi e Izanami, sperando di chiarire alcune cose. Comunque lo Yomi viene descritto come il nostro mondo ma più oscuro, un po' come il Sottosopra di Stranger Things (prima stagione bellissima, la seconda meh, la terza ew), perciò mi sono immaginato semplicemente che tutto fosse rimasto uguale, tranne che... beh, è tutto più scuro. 

Izanami invece sarebbe la dea della creazione, assieme al marito Izanagi, deceduta dopo aver dato alla luce il loro ultimo figlio. Furibonda con Izanagi per averla abbandonata nello Yomi, decide di portare la morte nel mondo, motivo per cui ritengo giusto che si sia autoproclamata la dea della morte nella mia storia. Un altro suo soprannome, poi, è "colei che invita". 

E... niente. Finalmente è tornato il pov di Edward e abbiamo potuto vedere come se la sta passando. Diciamo che ha visto giorni migliori. Spoiler, le cose andranno peggio. 

Ok, grazie per aver letto, ci vediamo al prossimo aggiornamento!

 

   
 
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