Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Per_Aspera_Ad_Astra    29/04/2021    3 recensioni
Sono passati esattamente dieci anni dall'ultima battaglia nella città de Il Cairo. Niente sembra minare la tranquillità della famiglia Joestar. Niente fino ad ora.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dio Brando, Enrico Pucci, Giorno Giovanna, Josuke Higashikata, Jotaro Kujo
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Chapter five

Yakusoku

SPOILER!
QUESTO CAPITOLO CONTIENE SPOILER INERENTI ALLA PARTE TERZA.








Un quarto alle sei.
Il sole iniziava ad uscire timido da dietro i bassi colli che racchiudevano la cittadina di Morioh rendendola più isolata dagli altri quartieri, ma anche la più caratteristica date le insenature rocciose a strapiombo della costa, la bellezza di prati sconfinati e l’oceano immenso a bagnarne i confini.
Avrebbe tanto voluto vivere qui insieme a Jolyne. Farla studiare nella stessa scuola di Koichi, Josuke ed Okuyasu; lasciare che fosse lei a decidere cosa intraprendere come hobby; spiarla dietro le auto mentre al Café DeuxMagots, usciva per la prima volta con un ragazzo. Avrebbe voluto tanto lasciare che conoscesse Josuke, che sviluppasse con lui uno Stand e che serenamente vivessero una vita tranquilla lontana dai tormentati albori della famiglia Joestar. Avrebbe voluto tante cose per quella piccola anima che aveva messo piede sulla terra da pochi anni ma, in cuor suo, sapeva che la normalità sarebbe stata solo qualcosa a cui ambire.
Sperando di cacciare quei pensieri dalla testa, il dottor Kujo, aveva acceso la seconda sigaretta della giornata aspettando pazientemente il suo compagno di viaggio. Il suo arrivo in anticipo gli aveva permesso di sondare la zona: aveva controllato che tutto fosse nella norma, che nessun animale, cosa o persona nei dintorni fosse animata da Stand. Voleva ed esigeva un viaggio tranquillo anche se il solo pensiero di un ipotetico pericolo e quindi alla conseguente ispezione, era diventato una stancante routine non solo fisica ma anche mentale. Dal suo ritorno dalla città de Il Cairo, niente era stato più come prima. Tutto era diventato potenzialmente pericoloso insidiando nel corpo dell’uomo una costante sensazione di insicurezza che non gli permetteva di abbassare le difese.
L’ultima boccata e lasciò cadere a terra il mozzicone pestandolo con il piede per far terminare la combustione. Sei e trenta segnava l’orologio da polso. Ed alle sei e trenta, in orario, vide apparire in lontananza una figura assai familiare: i cargo che erano fermi nel porto creavano un via vai di gente diversa da quella che ordinatamente si stava imbarcando nel traghetto dietro le sue spalle e, tra coloro che si muovevano, Josuke avanzava con passo lento e decisamente assonnato. Lui e la madre Tomoko.
Lo sguardo di Jotaro divenne glaciale. Cosa avrebbe dovuto inventarsi se all’arrivo a New York fossero arrivati il figlio bastardo e la madre?
«Buongiorno signor Kujo, sono venuta qui solo per accompagnare Josuke.» Tomoko, con quella frase,  riuscì a far rilassare muscoli facciali dell’uomo che, se avesse potuto in quel momento, si sarebbe sciolto come neve al sole. Sembrava quasi avesse letto il terrore nei suoi occhi. «Credevo fosse una buona mossa venire qui. Non mi sarei mai permessa di scombinare i piani. Sono contenta che— mio figlio sia nelle sue mani.» le parole non furono capite subito tanto che, Tomoko, certa che il figlio non fosse nelle vicinanze, si leccò le labbra e continuò «Intendo… intendo dire che sono contenta che abbia qualcuno che lo protegga. Mi fido di lei Jotaro, non so dirle il motivo ma mi fido di lei. Per questo le chiedo di riportarmelo indietro
«Oe, Jotaro-san se non ci sbrighiamo dovremmo farcela a nuoto!» il grido del Higashikata destò entrambi gli interlocutori. La donna, facendo qualche passo indietro salutò entrambi con un gesto della mano, l’uomo, invece, rimase per qualche minuto pietrificato da quella richiesta. Josuke avrebbe fatto la sua stessa fine rinchiudendosi in sè stesso diventando una pedina del fato. Per giorni avrebbe cercato di distogliere il pensiero da ciò che aveva vissuto focalizzandosi sulla realtà delle piccole cose: il pianto a perdifiato di un bambino, le gocce di pioggia battenti che solcavano i vetri appannati, le conversazioni univoche della madre dietro la porta, quel fottutissimo ciliegio in fiore davanti casa.




 
 
 
«In tre ore saremo a Tokyo. Aspetteremo in aeroporto la coincidenza,» La porta della cabina si spalancò davanti a loro a causa della gravità instabile alla partenza del traghetto. Graziosamente arredata, la stanza non possedeva un letto o qualsiasi cosa gli assomigliasse data la breve durata del viaggio. Era munita, però, di molti altri comfort come un piccolo frigo bar, un televisore a tubo catodico, due enormi poltrone ed una meravigliosa vista sull’oceano. Il cielo ancora bruno non lasciava trasparire molta luce dalla grande vetrata e ciò consentiva ai viaggiatori di riposarsi «vado a prendere da mangiare. Vuoi che ti porti qualcosa?» per la prima volta Jotaro provò sulla propria pelle lo stesso trattamento che solitamente riserbava agli altri. Josuke, infatti, dopo una lunga occhiataccia si era seduto svogliatamente sulla poltrona in modo scomposto. Non gli aveva rivolto la parola da quando erano sull’imbarcazione. Anzi, se avesse potuto avrebbe utilizzato il suo Crazy Diamond per costruirsi una corazza.
L’uomo si strinse nel cappotto bianco richiudendo la porta alle spalle per incamminarsi verso l’atrio principale.
Ordinatamente disposti, i tavolini e i divanetti della sala, erano quasi completamente occupati da coloro che, frettolosamente, avevano messo piede in quella sala prima di ritrovarsi in piedi e gustarsi una scomoda colazione. Una lunga tavolata era stata adibita a buffet dove i passeggeri sarebbero stati serviti dai camerieri dietro di essi porgendo loro piatti di alta qualità. Mettendosi in fila per aspettare il proprio turno, Jotaro pensò all’ultima volta che si fosse trovato in quella situazione. E la mente ripiombò a quella fantomatica gita di cinquanta giorni: passati per la frazione di Benopol prima di raggiungere Calcutta, insieme a Polnareff avevano deciso di fermarsi in qualche negozio che potesse assomigliare ad un tabacchi per fare il consueto rifornimento di sigarette ma, quello che trovarono davanti fu un ginepraio di culture mischiate impacchettate e servite in piatti che di pulito non avevano nulla. E quello stupido di un francese ebbe persino il coraggio di chiedere il bis. In fila, proprio come in quel momento, un indiano paffuto e dall’aria gentile li aveva serviti consegnandogli un cono di cartone ricco di triangolini in pasta fillo ricolmi di qualcosa di indecifrabile al palato.. ma buono.
Stupido di un francese.
«Preferisce le uova strapazzate, signore?» la cameriera richiamò la sua attenzione la quale venne ammutolita con un gesto della mano, consentendole, di creare il piatto a suo piacimento.
Tornare a New York avrebbe significato rivedere tutta la famiglia Joestar al completo a partire dalla nonna tremendamente preoccupata per il marito e la mamma, fattasi coraggio e ritornata nella città natale il tempo necessario per risolvere la faccenda. Probabilmente anche Anne e Jolyne sarebbero state presenti, la moglie aveva rimarcato la necessità della piccola di vedere il padre ed aveva, quindi, preso la decisione più sbagliata. Ma Jotaro non aveva replicato, era rimasto in silenzio alla notizia prima di chiudere la telefonata. Sapeva bene come sarebbe andata a finire altrimenti.
Magari la piccola dagli occhi cangianti avrebbe portato una ventata di serenità, si sarebbe comodamente messa tra il padre e la madre e li avrebbe costretti a darsi un bacio. Avrebbe rasserenato Suzie Q cantandole, con voce stridula, la canzoncina del suo cartone preferito ed infine, si sarebbe lanciata verso il nuovo arrivato inondandolo di domande. Lo stesso che, in quel momento, si trovava rannicchiato sulla stessa poltrona su cui l’aveva lasciato.
La maglia gialla ed i pantaloni blu notte che indossava, erano arricciati creando pieghe scomposte che difficilmente si sarebbero lisciate con la mano. Un solo ginocchio flesso era stretto dalle braccia toniche e muscolose che nascondevano il viso lasciando fuoriuscire la capigliatura gonfia e perfettamente in ordine.
«Josuke» richiamò l’attenzione ma dall’altra parte ancora silenzio. Lo fece per altre due volte ancora, prima di udire uno stridio simile ad un miagolio seguito da un gemito sommesso. Se Star Platinum non fosse apparso per riprendere in mano i piatti e mantenerne l’equilibrio sulle dita, questi sarebbero caduti rovinosamente a terra sporcando il parquet lucido sotto i loro piedi.
«Josuke» disse ancora capacitandosi solo ora che il ragazzo davanti a lui fosse in preda ad una crisi di pianto. Il cuore perse un battito prima si pompare veloce colto dall’ansia della situazione: non sapeva come comportarsi, cosa fare, cosa dirgli. Perché stava piangendo? Perché non parlottare, come il suo solito?
Si mosse senza che il proprio cervello gli desse delle indicazioni precise, lasciò che Star Platinum poggiasse i due piatti di ceramica lontano da lui, tolse il cappello con visiera bianco attaccandolo al gancio vicino la porta, scoprì il petto coperto dal maglione dolce vita violaceo e coprì le spalle del ragazzo con il cappotto che fino a poco prima aveva tenuto lui al caldo; si piegò sulle ginocchia e accolse il peso del capo sulla propria spalla in un abbraccio consolatorio. Poteva sentire il respiro incerto annaspare tra un gemito ed un ansimo, le mani agganciarsi come uncini al proprio petto ed il viso nascondersi inumidendo la maglia all’altezza della propria spalla. Strinse maggiormente la presa ma non disse nulla. Lasciò che quel pianto fosse l’unico suono tra le mura unito dal movimento leggero della mano sulla spalla. Sentire in silenzio il proprio dolore pareva esorcizzarlo.
«Gomen--» furono le uniche parole pronunciate da Josuke che, a fatica, si tirò in piedi pulendosi il viso arrossato ed umido con i palmi. Continuò schivo a fuggire dallo sguardo indagatore rifugiandosi tra le stesse mani che lo avevano ripulito, ma il corpo scosso da continui singulti non gli diede la possibilità di rimanere in silenzio. «Mi sento completamente in trappola. Ho paura di vedere.. il vecchio in fin di vita, di trovarmi davanti una famiglia che non ho mai conosciuto e, di non sentire niente. Sto cercando di sforzarmi almeno a sentire compassione. Ma non ci riesco, » nonostante il tremolio tipico del pianto, le parole fuoriuscirono veloci dalle labbra leggermente arrossate cosi come le guance leggermente umide e gonfie per il continuo sfregamento dei palmi. Gli occhi turchesi erano rimasti bassi per tutto il tempo sperando che le insenature del legno si potessero fare della larghezza giusta per nascondercisi dentro. Jotaro, infatti, era rimasto ancora in ginocchio di fianco alla poltrona seguendolo con lo sguardo con un ciuffo mosso che gli ostacolava la vista. Non aveva detto una singola parola. 
«…non so che mi sta succedendo. Sento di aver perso l’empatia persino per me stesso. Sono stanco.» il peso del corpo venne nuovamente accolto dal divanetto e le ginocchia si portarono entrambe al petto; il viso schiacciato sulle ginocchia producevano una smorfia imbronciata. «Sono stanco di essere un Joestar.» sbuffò via l’ultimo singhiozzo che gli aveva fatto tremare la voce.
«Questo tuo pianto dimostra tutto il contrario di ciò che pensi. Ti passerà. Dovresti riposare.» il biologo si mise in piedi, si passò la destra tra i capelli mossi e recuperò il capello per tenerli fermi sotto di esso. Lasciò che il cappotto rimanesse indosso a Josuke che, strettamente ne stringeva i lembi. «Ti lascio i documenti di cui avevamo parlato. Non sentirti in dovere di visionarli, hai bisogno di prenderti un momento di pausa e fare colazione.»
«Vorrei tanto avere la  tua risolutezza,» esordì Josuke «il modo in cui riesci a oltrepassare il problema fregandotene delle conseguenze.»
Le parole fecero da orchestra ai movimenti del biologo il qualche estraeva con delicatezza i documenti dalla tracolla di cuoio e li posizionava sul tavolino accanto il televisore spento. Con gli occhi puntati sul foglio, seguiva il susseguirsi della parole con la solita biro di colore nero «Joseph mi parlò della vostra missione per salvare Holy. Di come siete stati travolti dagli eventi e di come tu, sia sempre riuscito a rimanere un freddo stratega. Non so come tu faccia a rimanere sereno dopo tutto quello che vi è successo»
Pop.
Fu il rumore che la biro tra le mani di Jotaro fece spezzandosi a metà. L’inchiostro macchiò le dita chiare scendendo tra le pieghe ed il palmo salvando miracolosamente il foglio ancora immacolato.
«J—Jotaro » ripeté Josuke guardando il nipote dallo sguardo completamente assente nonostante l’inchiostro gli avesse macchiato le dita «Jotaro» solamente al secondo richiamo capì cosa aveva fatto. Abbassò lo sguardo sulle mani ricoperte di inchiostro nero che prese a gocciolare anche sul foglio immacolato. Fulmineamente si mise a cercare qualsiasi cosa potesse consentirgli di pulirsi notando come, i palmi, rimanessero macchiati. Sfregava, sfregava ma rimaneva lì. Perché non riusciva a togliere quel maledetto sangue?
«Jotaro-san»
«E’ tutto apposto. E’ tutto apposto, Josuke.» si affrettò a dire notando che il ragazzo si fosse pericolosamente alzato nella propria direzione preoccupato di quel repentino cambiamento. «Trovo un posto dove lavarmi. Vengo io a bussare alla tua camera quando è il tempo di scendere»
Uno.
Due. Tre.
Dieci. Diciassette.
Ancora due. Poi quattro.

Perse il conto di quanti passi aveva fatto ma sapeva di compierli velocemente come se stesse scappando da qualcosa, come quando da bambino spegni la luce della camera e corri a perdi fiato verso un luogo sicuro. Si sentiva cosi, costantemente braccato fino all’arrivo della cabina 21.
Apri la porta.
Chiudila senza far rumore dietro le spalle.
Aspetta.
Aspetta e respira.

Il freddo del legno levigato sembrava dare conforto al lancinante dolore che gli stava martellando le tempie. Strisciò le grandi mani sulla superficie sperando di mantenere l’equilibrio in quel mare in tempesta che il pavimento sembrava essere. Passarono minuti prima che gli occhi cristallini si aprissero percependo la realtà davanti a sé: la zigrinatura del muro color crema produceva microscopici puntini ruvidi al tatto. I polpastrelli passarono lenti su di essi strisciando su ogni punta e su ogni intervallo.
Zigrinature.
Il muro color crema.

Le palpebre si chiusero e si riaprirono più volte, prima lentamente e poi in modo più veloce costatando di avere la stessa visuale a pochi millimetri. Si voltò dando le spalle al muro: la città egiziana si estendeva sotto i suoi piedi.
«Merda» pronunciò a denti stretti facendo urtare i talloni contro il muro dietro di sé appurando che fosse in cima ad un altissimo palazzo di foggia antica. Le piccole case quadrate, le strade illuminate, i passanti e le auto facevano da cornice alla vista. Solo l’orologio a torre spiccava più in alto.
Di nuovo. Ci era cascato di nuovo.
«Mi chiamo, mi chiamo…» prese un profondo respiro chiudendo gli occhi. L’unico modo per allontanarsi da quella realtà fittizia, secondo il medico, era pronunciare come una cantilena la propria presentazione. In questo modo la parte razionale, critica e logica lo avrebbe portato nel mondo reale. «sono un biologo marino, ho un dottorato alla Kayodai. Ho una figlia di nome Jolyne, sono sposato con Anne da quattro anni ed il mio nome è--»
«JOTARO!» il grido disperato e di aiuto si propagò nell’aria squarciando il silenzio che solo il vento, fino a quel momento, aveva infranto.
Gli occhi cristallini si mossero velocemente verso il suono riconoscendo quella voce tra mille altre. Era lui. Era sicuramente lui.
Conscio di non poter richiamare Star Platinum fece leva sui muscoli delle braccia e delle gambe percorrendo a passi stretti l’intero cornicione dell’area, sperando in quel modo di arrivare in un punto in cui fosse più facile comunicare con la voce. Lo stridore del vento accarezzava la pelle contratta dallo sforzo ed i capelli scuri e ribelli che uscivano da sotto la visiera bianca; sebbene conoscesse alla perfezione il luogo in cui si trovava e ciò che avrebbe trovato, quella sensazione data dal vento placava l’animo tormentato e le viscere in subbuglio. Sentiva i polpastrelli stretti sulla ruvida superficie, avanzare passo dopo passo, sempre più caldi. Bollenti.
«J—Jotaro. Sei qui.» la voce rantolante echeggiò cosi forte da fermare persino il vento.
Noriaki Kakyoin, diciassette anni, frequentava la stessa scuola superiore di Jotaro anche se non l’aveva mai notato nei corridoi o negli spazi comuni fuori dall’edificio. Con quel suo fare raffinato era riuscito a convincere tutti gli altri della sua redenzione e partecipare a quel viaggio senza ritorno. Schivo e dalle poche parole si era ritrovato spesso ad essere la nota fuori corda, per questo aveva legato cosi tanto con Jotaro: che fosse la stessa età, la stessa scuola, lo stesso rapporto con i genitori… i due avevano capito fin da subito che ci fosse qualcosa di più grande che li accomunasse. Ma non avevano mai indagato. Avevano accolto tacitamente quel rapporto di complicità, diventando ogni giorno qualcosa di sempre più importante.
«Ho scoperto il potere di Dio. Lui ferma— lui riesce a fermare il tempo.» accasciato su se stesso con le mani strette al ventre cercava di coprire la voragine ricolma di liquido scarlatto, quasi se ne vergognasse. Il rantolio del suo respiro si alternava ad uno strano rumore cupo e metallico quasi come se, la forza che lo avesse colpito fosse ancora presente nel suo corpo.
La mandibola scattò in un’espressione di sorpresa. Non ricordava nemmeno di averlo mai visto cosi. Allungando il busto e tenendo i piedi saldi sulla sporgenza allungò la mano destra cercando di tirare la pelle e sentire, ancora una volta, il velluto morbido della verde divisa.  «Afferra la mia mano, Kakyoin. Sono in grado di mettere fine a questa battaglia. So come--»
«Il mio Hierophant ha creato una rete consentendomi di conoscerne la posizione,» lo interruppe continuando il suo discorso in una sorta di trance «ma il suo Emerald Splash non ha potuto niente contro di lui» sorrise amaramente portando il capo contro il muro. La potenza del proprio Stand aveva rovinosamente fallito contro colui che lo aveva reso una pedina. La sua voglia di rivalsa era niente in confronto alla malvagità e carisma che gli si era parata davanti.
«Non devi preoccuparti. Fidati di me.» ripeté ancora Jotaro compiendo un passo azzardato ma che gli consentisse di allungare di qualche centimetro la mano. «Aggrappati a me, per favore.»
La richiesta svegliò il ragazzo dai capelli folti e rossissimi. Il dolore nei suoi occhi non traspariva in nessun gemito. Il corpo si mosse incerto verso la mano ma prima di toccarla si ritirò su di sé provocando nell’altro uno sguardo atterrito. «Avevo diciassette anni quando ho deciso di sacrificare la mia vita per salvare tua madre, tuo nonno, te e la tua famiglia. Pensavo di redimermi dalla pessima scelta che avevo compiuto diverso tempo prima… ma rimarrò per l’eternità un diciassettenne»
«Ma che stai facendo?! Prendi la mia mano, cazzo!» gli urlò spaventato più che arrabbiato «Devi fidarti di me. Star Platinum è in grado di sconfiggerlo. Non ti lascerò qui da solo.» volle ancora allungarsi verso di lui ma il vuoto sotto di loro parve allargarsi.
I solchi scuri sul viso di Kakyoin si riempirono di lacrime bagnandone il volto squadrato mischiandosi alla coltra di sangue tra il petto ed il pavimento. Singulti continui sconquassavano il corpo giovane anche se il torace fermo non veniva mosso da nessun respiro. «Chissà se i miei genitori si sono accorti della mia mancanza. Se a scuola qualcuno ha parlato di me. Ho dato la mia vita e la mia giovinezza a te. Passerò l’eternità a rivivere i secondi prima che un fascio di luce lacerasse la mia carne.»
«Smettila! Smettila di dire queste stronzate!» impegnato a sostenere il corpo in una stretta pericolosa per allungarsi verso l’amico, non si accorse che la propria voce aveva preso a tremare, gli occhi tremendamente pizzicare e la gola chiudersi. «Ti porterò da qualcuno che ti possa curare: Joseph ha un figlio di nome Josuke. Il suo Stand, Crazy Diamond, sarà in grado di rimetterti in sesto. Ti farò vedere una bellissima città piena di ciliegi in fiore, proprio come piacevano a te. Sono sicuro che tua madre ti sta ancora aspettando. Ti prego, afferra la mia mano. Fidati di me.» le parole si erano tramutate in una cantilenata preghiera. Sebbene le stesse ripetendo per convincere l’amico, queste sembravano dette per convincere lui stesso.
Non era stata  colpa sua se Kakyoin era stato sventrato dalla forza dirompente di The World.
Non era stata colpa sua se Abdul e Iggy erano stati risucchiati dal vortice di Vanilla Ice. Non era colpa sua. Non era colpa sua.
Allora perché ogni volta che lo ripeteva sentiva lo stomaco stringersi?
Le labbra carnose avevano continuato a sibilare delle preghiere verso la figura davanti a sé accasciata sulla torre. Gli occhi guardavano ogni dettaglio farsi sempre più sbiadito, mischiarsi allo sfondo tetro ed immobile intorno a loro.
Perché era sul quel palazzo? Perché non riusciva a ricordarne più il viso?
«NO. NO, ASPETTA» l’urlo si propagò nel momento in cui le pupille non riuscirono più a distinguere nessuna figura umana davanti a lui «Io devo salvarti! Aspetta... Aspetta Ka..» si interruppe sgranando gli occhi.
Come si chiamava?
«E’ inutile. E’ inutile ricordare.»
La stessa voce che anni prima lo aveva fatto ripiombare in un incubo nella città di Morioh, era ancora presente nella propria testa. Fece forza voltandosi ma niente era presente intorno a lui.
«Devo— devo salvarlo. Glielo devo.» lasciando le mani dal muro che lo aveva sorretto fino a quel momento  le posizionò sul capo: avrebbe voluto aprirsi la testa, infilare la mano nella materia grigia e cercare il ricordo di quel ragazzo. Chi era, come si chiamava, perché era scomparso.
«Lascia che i morti rimangano tali. E’ inutile riportarli in vita con il ricordo. Inutile
No. No, non era possibile.
Lui era qui per salvarlo. Ka— No—
Come si chiamava?













ANGOLO CHIACCHIERE:
Hello! Eccomi qui tornata con un altro capitolo della serie. Mi dispiace molto non aver rispettato il giorno, ma tra lavoro e corsi è stato molto difficile portarla avanti. Con questo, voglio dirvi, che anche - molto probabilmente - la prossima settimana risulterà Difficile pubblicare il mercoledì (slittando alla settimana successiva o alla domenica).
Iniziamo con le prime dinamiche della storia. Tengo molto a questo capitolo cosi come ai prossimi che verranno dopo di questo, uno in particolare che mi sta facendo penare. 
Ringrazio anticipatamente, come sempre, tutti coloro che "sprecheranno" un po' del loro tempo per poter leggere e rimanere a commentare. Spero di non annoiarvi!
Un abbraccio <3

SpeedMary

 
  
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