La piccola fuga
Debussy, Lent. (Melancolique et Doux)
Il mattino si era presentato al cospetto degli inglesi da
poche ore ed era prevedibile che quella sarebbe stata la classica giornata,
neanche a farlo apposta, inglese, uggiosa e grigia di inizio novembre, niente
per cui valesse la pena struggersi, insomma. Beh, quasi niente, a essere
precisi.
La biacca del cielo gettava una luce malaticcia sulla cameretta e sulle
lenzuola bianche della culla, che la sua piccola proprietaria aveva provveduto
a calciarsi di dosso non appena svegliatasi. Per questo aveva ruotato
energicamente il capo da una parte e dall’altra alla ricerca di qualcuno che
potesse aiutarla a liberarsi dalla propria prigione, ma gli adulti sembravano
affaccendati in chissà quali cose di vitale importanza che non comprendeva, e
questo la indisponeva non poco.
Guardò perciò in alto, verso la sommità delle sbarre di legno che la separavano
dal mondo, e in basso, per guardarsi le manine paffute, e pensò che qualunque
fosse l’evento al quale stessero partecipando i grandi voleva farne parte come
qualsiasi bambina ormai grande che si rispettasse.
Afferrò la cima con tutte e dieci le dita e si fece forza per mettersi in
posizione eretta sul materassino: decisamente il mondo era più bello senza
quelle odiose righe marroni, ma non era abbastanza. Facendo leva sulle braccia,
sollevò una gamba e la accavallò oltre la sponda del lettino cercando di
spingersi col proprio piccolo grande corpo verso l’esterno. Piegò anche l’altra
gamba, la fece passare oltre il legno come aveva fatto con la prima e… oplà!
Con un salto finito a terra e un minuscolo tonfo col sedere ce l’aveva fatta,
era libera di andare a esplorare il mondo degli adulti! Certo, il di dietro
faceva un po’ male, ma la libertà era troppo bella per mettersi a piangere,
quindi prese a gattonare sul pavimento freddo della stanza, sollevando gli
occhioni acquamarina verso il suo secondo ostacolo: la porta chiusa.
Proprio nel momento in cui gonfiava le guance per il disappunto questa si aprì
e un paio di scarpe lucide sormontate da galosce si frapposero tra lei e il
resto della casa. Due occhi castani si abbassarono su di lei e due mani leste
si prodigarono a sollevarla da terra.
«Elizabeth!» esclamò l’uomo rivolgendo un’occhiata preoccupata alla culla vuota
«Come hai fatto a scendere da lì?».
La bimba gli rivolse un sorriso sdentato e birichino, poi puntò l’indice verso
l’esterno protraendosi con tutto il busto per infondere maggiore enfasi sul proprio
desiderio di esplorazione.
«Va bene, va bene, ho capito, andiamo da mamma Erina, ti va? Niente capricci
però, altrimenti lo dico a Straitso» mormoro l’adulto con la piccola fuggitiva
in braccio, ingrossando la voce per mimare un tono scherzosamente minaccioso
«se fai la brava signorina ti faccio conoscere un altro bambino».
Elizabeth non aveva afferrato appieno il significato di quelle parole, ma aveva
intuito che fossero collegate al grande evento che aveva tenuto occupati gli
adulti della casa, per cui dimostrò il proprio entusiasmo aggrappandosi alla
giacca dell’uomo e lallando alcuni versi di contentezza mentre percorrevano il
corridoio in direzione della risoluzione del mistero.
«Vediamo un po’… è permesso?» tre colpi leggeri di nocca picchiettarono sul
legno, ai quali seguì una voce delicata di donna attutita dall’interno.
«Possiamo entrare!» fece rivolto alla bambina «Buongiorno signora Joestar, e
buongiorno anche a te piccolo George! Veniamo a rassicurarci della vostra
salute, se non vi reca disturbo».
Le finestre di quest’altra camera da letto filtravano la stessa luce
bianchiccia con la quale si era svegliata la piccina. La puerpera sedeva a
letto con la schiena adagiata su bei cuscini candidi come la sua vestaglia
ricamata e le mani sul grembo ancora gonfio, stanca per le fatiche del parto ma
lieta di ricevere quella visita. Accanto a lei vi era un’altra culla, più
piccola di quella riservata a Elizabeth, schermata da un baldacchino anch’esso
bianco.
«Buongiorno signor Speedwagon, tu non disturbi mai. Mettetevi comodi»
«Grazie, lei è un angelo» il visitatore fece riverenza con un breve inchino e
si avvicinò cauto alla culla «in attesa che papà Straitso venga a recuperare
questa piccola ribelle vorremmo tenervi un po’ di compagnia. Possiamo
presentarci al nuovo Joestar?»
«Permesso accordato, ma solo se dopo Elizabeth viene qui a farsi guardare…
Voglio vedere quanto è cresciuta» fu la risposta di Erina, abbozzando un altro
sorriso in direzione della bambina.
«Oh, certamente… Guarda, Elizabeth. Questo è George».
Scostando appena il velo con l’ausilio di un dito teso, l’uomo e la bambina si
sporsero per ammirare l’ennesimo ma sempre meraviglioso miracolo della natura:
un faccino tondo, bello e incorniciato da ricciolini scuri, riposava tranquillo
nel proprio nido di seta, coi pugnetti chiusi sul petto e i piccoli occhi in
procinto di chiudersi per il primo sonnellino mattutino.
«Gli somiglia così tanto… Così piccolo e già senza un padre» furono le prime
parole che gli uscirono di bocca, mentre tentava maldestramente di trattenere
l’accoramento che si portava dentro dalla notte precedente.
Erina, che sapeva sempre quando l’amico era preda di attacchi improvvisi di emotività,
indicò la poltrona ai piedi del letto.
«Robert, perché non mi dai Elizabeth e ti siedi? Immagino che neanche tu abbia
dormito stanotte».
Speedwagon esaudì silenziosamente la richiesta e, una volta sprofondato nel
velluto, si tolse il cappello scoprendo la zazzera bionda, si coprì il volto
con le mani e iniziò a singhiozzare.
«Mi dispiace, mi dispiace veramente tanto» riuscì a dire tra un singulto e
l’altro «sono così felice di sapere che il figlio di Jonathan sta bene, ma allo
stesso tempo non riesco a non essere triste per il fatto che non ci sia più!
Lui meritava… voi meritavate la felicità, tu meriti la felicità, Erina! Quanto
può essere crudele il destino se un bambino che non ha ancora visto il suo
primo tramonto è condannato a non conoscere mai il papà… L’uomo più buono di
questo mondo?»
«Mio caro Speedwagon, se tutti gli esseri umani avessero un amico come te la
cattiveria non esisterebbe più» disse Erina, che nel frattempo aveva stretto
Elizabeth al seno e le aveva posato delicatamente le labbra sulla fronte «non
possiamo contravvenire alle leggi del destino dal momento in cui siamo soltanto
esseri umani, però c’è una cosa sulla quale mi preme contraddirti: George sarà
pure nato senza Jonathan, ma non è nato senza un padre pronto a volergli bene».
Speedwagon sollevò il capo e si asciugò il viso alla bell’e meglio con la
manica della giacca, sussultando ancora per i singhiozzi. Per un attimo
incrociò lo sguardo con quello della donna, ma lo distolse subito verso un
punto imprecisato alla sua destra.
«Io non… non credo di meritare le lodi che mi tesse. Però se mi concede l’onore
di aiutarla a crescere vostro figlio sarà mio impegno affinché cresca nel
miglior modo possibile, gli racconterò di suo padre e di quello che ha fatto
per me, perché voglio che il suo ricordo non si spenga»
«Così come per me è un onore averti conosciuto».
Tale affermazione venne accolta con religiosa quiete da parte del fu criminale,
che fece una fatica enorme per ritrovare una parvenza di compostezza. Rimasero quindi
in silenzio per un minuto, o forse qualcosa in più, chi lo sapeva, a godersi la
pace ovattata di quella giornata fredda fuori ma tiepida e ristoratrice nei
loro animi, interrotto solo dal giochicchiare di Elizabeth coi lacci della
vestaglia di Erina. E infatti fu proprio lei a riprendere la parola.
«Sai che sei veramente bella?» le sussurrò, mentre le ripercorreva il profilo
del bel nasino con la punta dell’indice, facendo scaturire una risata argentina
nella bambina «Bella e irrequieta, da grande avrai il tuo bel carattere»
«Non so come abbia fatto, ma prima l’ho trovata fuori dalla sua culla, deve
averla scavalcata tutta da sola!» rivelò Speedwagon con una nota di apprensione
in quella esclamazione «Avrebbe potuto farsi male».
«Sì, avrebbe…» ripeté distrattamente Erina perdendosi per un attimo
nell’azzurro mare di quegli occhi così limpidi, come solo quelli di un neonato
che si affaccia alla vita potevano essere. Elizabeth non poteva rendersi conto
dell’immensa fortuna che aveva a possedere ancora la genuinità selvatica dei
bambini piccoli che tutto vogliono scoprire e per i quali è tutto divertimento,
e non lo avrebbe mai fatto, da brava e riottosa piccina. Come l’acqua che
restava attaccata al bicchiere capovolto durante i momenti di gioco con il suo
papà adottivo.
Non li avrebbe ricordati, ma glieli avrebbero raccontati.
Come al piccolo George avrebbero raccontato di suo padre.
***
Musica in Jojo: Il Lent, doux et mélancolique di Debussy è la prima delle tre Images
composte nel 1894 e appartenente alla produzione giovanile del
compositore. La trilogia che include il brano è una dedica a
Yvonne, figlia del pittore Henry Lerolle, che era amico dello stesso
Debussy.
Il brano è il più malinconico e meditativo dei tre, e
sebbene vi sia un certo scarto temporale fra il periodo in cui è
ambientato il racconto e quello della composizione della suite ho
voluto comunque immaginare questa headcanon secondo cui la best waifu
della saga apprezzerebbe Debussy.
Retroscena: Che
dire... se siete giunti/e fino a qui, grazie mille. Quello che avete
appena letto è il primo di dodici racconti, che in realtà
rappresentano una specie di via di mezzo tra una raccolta e una long,
che verranno pubblicati, se tutto andrà bene, a cadenza
settimale, e che verranno accompagnati da mini playlist di tre canzoni
ciascuna.
Non potevo non iniziare con zio Robert che si strugge per la morte del
bro della vita, in qualche modo sono riuscita ad affezionarmici grazie
al meme material che gira su internet, ma è stata la lettura del
manga ad avermelo consacrato nel mio personale olimpo dei personaggi
preferiti, quindi ho ritenuto opportuno aprire le danze con lui.
Esaurito il momento spiegone, rinnovo i miei ringraziamenti per aver letto fino in fondo, nella speranza di non avervi annoiato.
Baci.