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Autore: Adeia Di Elferas    21/06/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gian Giacomo da Trivulzio si strinse nel mantello più che poteva. Anche se l'estate era appena finito, lì, vicino a Rovereto, l'aria era gelida come in dicembre.

Quando aveva lasciato Milano assieme al Cardinale di Rouen, il condottiero non aveva creduto di incontrare un cambiamento di clima tanto repentino. Né di metterci così tanto a coprire una distanza che, in condizioni normali, avrebbe percorso nella metà dei giorni.

Erano fermi appena fuori da Rovereto ormai da un paio di giorni, e il Trivulzio cominciava a essere molto insofferente. Doveva raggiungere il prima possibile Trento, perché là si sarebbero tenute le trattative di pace tra imperiali e francesi e lui, come rappresentante di re Luigi XII, non poteva certo mancare.

Proprio quella mattina stava aspettando – con ansia crescente – l'arrivo del messaggero che avrebbe dovuto consegnargli il salvacondotto imperiale che gli consentisse di andare oltre Rovereto senza problemi.

“Finalmente...” soffiò, tra sé, Gian Giacomo quando, in lontananza vide lo stesso cavallo che aveva fatto partire giorni prima per ottenere quel prezioso documento.

Strofinandosi le mani, per permettere al sangue di tornare a circolarvi normalmente, l'uomo avanzò verso il messaggero che si avvicinava. Tutta la sua scorta era in attesa, perché nel momento stesso in cui il salvacondotto fosse arrivato, aveva detto il Trivulzio, sarebbero partiti per Trento.

“Mio signore...” disse trafelato il portavoce, scendendo di sella a cavallo ancora in corsa.

“Datemi il salvacondotto!” lo esortò il condottiero, che fremeva dalla voglia di mostrarlo a tutti e partire.

“Mio signore...” ripeté il ragazzo, abbassando il capo.

“Che c'è?” chiese a quel punto il milanese rinnegato, capendo che qualcosa non era andato come si erano attesi.

“Mio signore, l'Imperatore non ha voluto concedervi il salvacondotto e anzi vi intima di rientrare il prima possibile nelle terre di competenza francese, se non volete rischiare la vita.” disse, senza prendere mai fiato, il messaggero: “E dice anche che non dovete provare a fargli cambiare idea o a contattarlo per qualsiasi ragione.”

Per il Trivulzio, quella fu come una pioggia violenta, improvvisa e gelata, con i capelli fini e la barba incolta che si spostavano a ogni refolo di vento freddo, l'uomo dovette metabolizzare e comprendere quelle poche parole nell'arco di qualche secondo.

Sapeva, per esperienza, che Massimiliano d'Asburgo non era un uomo incline a ripetere due volte la stessa cosa. E si rendeva conto, quel giorno per la prima volta dall'inizio della guerra, di quanto fosse stato presuntuoso il re di Francia a pensare che Milano, patria degli Sforza e figlioccia dell'Impero, potesse essere presa senza scatenare davvero le ire a lungo termine dell'Imperatore.

Per quanto si odiassero, la moglie di Massimiliano era una Sforza e una milanese e lui non poteva sopportare davvero un simile affronto fatto alla sua persona, seppur indirettamente. Aveva atteso anche troppo a mostrare la sua reale irritazione per le scorribande dei francesi e del papa...

“Leviamo il campo!” gridò Gian Giacomo, a pieni polmoni: “Leviamo il campo!”

“Andiamo a Trento?” domandò il Cardinale di Rouen, confuso, appena risvegliatosi e uscito dal suo padiglione con addosso ancora il mantello da viaggio che usava la notte per proteggersi dal freddo.

“Torniamo a Milano.” ribatté il Trivulzio e poi, scorgendo lo sguardo sconcertato del Cardinale, lo incalzò: “E voi tornerete a Milano con noi, se avete cara la vita!”

“Ma che state dicendo...” fece Georges d'Amboise, sempre più perplesso.

Senza troppe cerimonie, mentre la scorta preparava il necessario per partire, Gian Giacomo gli riferì quanto accaduto, ma la reazione del pavido – almeno così l'aveva sempre creduto – Cardinale lo sorprese moltissimo.

“L'Imperatore ce l'ha con voi perché siete un traditore. Avete rinnegato la vostra patria nativa per combattere per soldi.” lo bacchettò, con aria di superiorità: “Ma io sono un Cardinale, sono francese e sono nel giusto. Andrò io a Trento a parlamentare. Voi avete solo perso un'occasione.”

Attonito, il Trivulzio guardò l'Amboise scegliere alcuni tra i soldati che sarebbero stati alle sue dipendenze e ordinare loro di prepararsi al viaggio per Trento.

“Le nostre strade si dividono qui.” disse il Cardinale, non appena capì che il Trivulzio era pronto a imboccare la strada di ritorno per Milano: “Non mi resta che dirvi: à Dieu.”

Il condottiero, già in sella e con addosso una mezza armatura – nel caso di imboscate, era meglio essere molto prudenti – benché non parlasse fluentemente la lingua dei suoi alleati, colse la sottile differenza tra un addio e una raccomandazione a Dio.

Così, con una sorta di rivincita personale, borbottò, con la sua, di lingua nativa, il milanese: “Al Diàul!”

Colse l'esitazione nel viso del Cardinale, che forse non aveva capito esattamente il senso di quell'augurio, e tanto gli bastò per sorridere e mettersi in strada più leggero di quanto non fosse stato poco prima.

 

Il cortile interno della villa di Castello era in ombra, in quel momento, e l'aria era piacevolmente fresca. Caterina e sua figlia avevano preso due sedie comode e si erano messe a guardare Galeazzo e Bernardino che si esercitavano con due rami che fungevano da spade.

La Riario ricamava, sollevando, in realtà, solo di quando in quando gli occhi sui due fratelli, mentre la Leonessa controllava ogni loro mossa e ne approfittava per mettere a parte la giovane del suo progetto, che avrebbe preso forma già il giorno seguente.

“Ed è una buona idea?” chiese Bianca, smettendo per un istante di cucire e mordendosi poi l'unghia del pollice, per cercare di placare, almeno in parte, la tensione che l'annuncio della madre le aveva messo in corpo.

Erano passate ormai quasi tre settimane, da che Giovannino era stato portato nel convento di Annalena, e la Tigre non riusciva più a resistere. Fortunati aveva fatto il suo dovere, creandole un corridoio non direttissimo, ma comunque abbastanza sicuro, per poter vedere il figlio.

“Tuo fratello ormai ha quasi tre anni e mezzo... Quando sarà più grande, ricorderà se io sono andata o meno da lui, se ho mantenuto o meno la mia promessa...” l'occhio della donna cadde su Bernardino, che, a breve di stanza da lei, stava cercando di tenere a bada l'attacco ordinato e preciso di Galeazzo: “Ho già fatto troppi danni in passato... Almeno con Giovannino voglio avere un rapporto sereno, per quanto possibile.”

La Riario colse l'allusione al Feo, e a come, allontanandolo dalla rocca quando era piccolo, senza andare quasi mai a trovarlo presso la famiglia che l'aveva in affido, la Tigre avesse realmente in parte pregiudicato la loro relazione madre figlio.

Confusamente, senza volersi davvero dare delle risposte, la ragazza si domandò cosa avrebbe fatto lei, in una situazione analoga, e si rese conto che era molto facile dare giudizi, se non ci si ritrovava coinvolti in prima persona...

“Porterai a lui anche i miei saluti?” chiese Bianca, capendo che non era il caso di opporsi alla decisione materna.

“Certo...” fece subito la Sforza, accigliandosi mentre Bernardino riusciva, con un'astuzia probabilmente imparate durante le piccole risse a cui aveva partecipato spesso a Forlì da bambino, a far inciampare Galeazzo e a batterlo: “Anzi, se in futuro vorrai, potrai andare a trovarlo con lo stesso metodo che userò io... Sempre che funzioni.”

“Sono stata in convento anche troppo.” ribatté la Riario, senza pensarci.

Caterina rimase sorpresa nel sentire il tono tanto piccato della figlia, che, di solito, sapeva sempre moderare la propria voce, ma non la biasimava.

“Intendevo...” fece, subito dopo, la giovane, rendendosi conto di aver messo un po' troppo astio nelle sue parole: “Credo sia più importante, per Giovannino, avere vicino una madre che non una sorella.”

“Tranquilla.” soffiò la Leonessa, con un breve sorriso, sistemandosi meglio e tornando a concentrarsi su Galeazzo e Bernardino, che stavano ripassando le posizioni d'attacco: “So di averti chiesto già troppo.”

“Alle Murate conoscerete Cornelia...” soppesò Bianca: “Mi prendevo cura anche di lei, mentre ero in convento... Anche se non sono mai riuscita a... Non so come dire... L'ho sempre sentita un po' un'estranea.”

Quella confessione, era evidente, per la Riario era abbastanza dolorosa. Si vedeva, dal modo in cui aveva ripreso a ricamare nervosamente, che per lei era una sorta di disonore non essere riuscita ad amare a prima vista la nipote.

“Se è per questo – sospirò Caterina, smossa a fare a sua volta una confessione scomoda – io continuo a dimenticarmi che Ottaviano ha avuto una figlia. Almeno... Una figlia riconosciuta.”

“È una bella bambina...” ammise Bianca, senza dire quanto, secondo lei, somigliasse al padre: “È anche brava, ma...”

“Ma è figlia di Ottaviano.” concluse la Sforza, massaggiandosi la fronte con la punta delle dita e sospirando: “Diamoci tempo. Vedrai che quando saremo più tranquilli, accettarla sarà più facile per tutti.”

Entrambe sapevano che era sbagliato condannare qualcuno per via del padre che la sorte gli aveva dato, però né la madre né la figlia riuscivano a dissociare del tutto le violenze messe in atto da Ottaviano e il loro frutto più evidente. Probabilmente, pensò la Riario, aveva ragione la Tigre: il tempo avrebbe accomodato tutto.

“Tu e Fortunati avete detto qualcosa, ai francesi?” chiese, dopo un po', la ragazza.

Bernardino aveva appena avuto la peggio in un concitato scontro con Galeazzo, e Caterina ci mise qualche istante, prima di staccare gli occhi dai due figli e rispondere: “Abbiamo chiesto loro il permesso per me per andare alle Murate e abbiamo... Abbiamo dovuto rendere conto dell'assenza di Giovannino. Dicono che manderanno qui qualcuno, non appena l'andamento della loro campagna militare lo permetterà.”

“E loro credono ai nostri sospetti su Lorenzo?” la Riario, le cui mani erano state attraversate da un breve tremito nel sentire che, forse, chissà quando, qualcuno degli uomini agli ordini di re Luigi sarebbe arrivato alla villa, mise da parte una volta per tutte il ricamo.

“Non lo so... Immagino che manderanno qualcuno che conosce bene la situazione per...” borbottò le Leonessa, gesticolando per spiegare quello che a parole non le era riuscito di dire.

Bianca, a quella constatazione, pensando subito che non fosse così assurdo pensare che Troilo sarebbe tornato, sentì il proprio ventre contrarsi e la bocca asciugarsi al punto da renderle quasi difficile parlare: “E quando manderanno qualcuno, più o meno? Tra una settimana, un mese o..?”

Caterina, sorpresa dall'urgenza di quella domanda, corrugò la fronte e scrutò con attenzione la figlia, prima di dire: “Come ti ho detto, non lo so... Dipenderà dalla prega che prenderà la guerra.”

“Certo...” convenne subito la ragazza, cercando di riassumere un'espressione neutra, ma non provando nemmeno a tornare al lavoro di ricamo, ben sapendo che non sarebbe riuscita a concentrarsi nemmeno su un punto.

Madre e figlia non parlarono più per un bel po', e solo quando Galeazzo e Bernardino ebbero finito la loro sessione di allenamento, la Riario augurò alla madre buona fortuna per ciò che l'attendeva il giorno seguente.

“Starai via molto?” le chiese, dato che la Sforza aveva spiegato come il suo soggiorno alle Murate dovesse durare qualche giorno, per darle il tempo di andare, al momento giusto, al convento d'Annalena per vedere il figlio.

“Per il momento ho avuto il permesso di stare là solo qualche giorno, non più di una settimana.” si limitò a dire la donna.

Bianca non chiese altro e così, di comune tacito accordo, l'argomento si ritenne chiuso.

Quella sera, dopo cena, quando si trovò a da sola in stanza, la Riario rimuginò parecchio su quello che sua madre le aveva detto.

Come prevedibile, lei non aveva più avuto notizie del De Rossi, da che aveva lasciato la villa, eppure era sicura che quell'uomo non avesse smesso di pensarle, così come lei non aveva smesso di pensare a lui. Non poteva sapere con che intensità la ricordasse, né in che modo e quanto la desiderasse ancora, ma di una cosa era più certa: lei lo desiderava ancora moltissimo e, se mai fosse riuscita a incontrarlo di nuovo, avrebbe fatto di tutto per farlo suo ancora una volta almeno.

In quell'ottica, valutando l'incertezza a cui sottostava la data di un loro possibile incontro, la giovane pensò che fosse più prudente essere previdenti. Recuperò la pozione che sua madre aveva creato apposta per evitare gravidanze indesiderate e ne assunse una dose. Non gliene restava molta, e doveva pensare a un modo per prepararne un po' senza che la Tigre si impensierisse, ma per il momento le bastava.

Quando Troilo fosse tornato da lei, l'avrebbe trovata pronta ad amarlo senza limiti né divieti. Era stata interamente sua fin dal principio e tale voleva restare per il resto della sua vita. E se quello era solo il pensiero incantato e idilliaco di una donna che avrebbe compiuto vent'anni nell'arco di un mese, poco le importava.

 

Cesare Borja era appena arrivato a Cesena, eppure si sentiva già stanco di quel posto. Fosse stato per lui, sarebbe corso subito a Imola, ma gli era stato consigliato di attendere, dato che gli imolesi ancora non avevano finito i preparativi che era stato ordinato loro di mettere a punto, e così aveva fatto.

Il suo seguito era molto nutrito, e il papa stesso se n'era lamentato. Anche per quello, forse, il Valentino non aveva voluto separarsi da nessuno dei quasi cento giovani e baldanzosi uomini che aveva deciso di portare con sé in quello che voleva trasformare in un inverno di gozzovigli e feste.

La guerra l'aveva provato anche troppo, seppure in tanti sostenevano che lui avesse fatto molto poco, per non dire niente, e sentiva il bisogno di tornare alle vecchie abitudini.

Ottobre era appena iniziato, quel primo giorno del mese, un venerdì, sembrava fatto apposta per indulgere nelle più licenziose scorribande.

Così il Duca, copertosi il volto con una maschera spaventosa di seta e velluto neri, aveva incitato anche i suoi amici a travestirsi, e poi, sempre avendo cura di portare con sé qualche soldato che potesse difenderli in caso di pericolo, si era incamminato per le vie della città in cerca di guai.

Con lui, davanti a tutti gli altri, c'erano i più entusiasti di quell'iniziativa, tra cui gli spagnoli Juan da Cardona, Don Ugo di Mancanda, e gli italiani Luigi da Brisighella e Taddeo Della Volpe, imolese. Tronfi e rumorosi, gridavano ai passanti, fischiavano alle donne e buttavano in terra gli anziani in difficoltà.

Sotto al cielo grigio, le loro maschere rilucevano sinistre e nessuno, nemmeno il servizio d'ordine – anzi, soprattutto il servizio d'ordine – osava intralciarli.

Cesare occhieggiava in giro, sempre più preda dei suoi istinti e caricato dal vino bevuto in eccesso già prima di mettere in scena la sua goliardica spedizione. Nella sua mente albergava un mostro, e aveva tutta l'intenzione di liberarlo, prima che lo divorasse. Non faceva altro che pensare a Lucrecia, a come l'aveva saputa impaziente e felice di andarsi a buttare tra le braccia di Alfonso, a Ferrara. Non poteva scordare lo sguardo che il papa gli aveva dedicato, quando gli aveva detto di partire per Cesena subito, come se la giovane gli avesse riferito chissà quali inconfessabili colpe del fratello...

Quando aveva lasciato Roma, sia Lucrecia sia il loro padre si stavano prodigando per incontrare di continuo i due inviati ferraresi, al solo scopo di ingraziarseli e di spremere gli Este quanto più possibile. Cesare li aveva intravisti solo di sfuggita, cercando di non entrare con loro nei dettagli degli accordi, perché ogni qual volta in cui si faceva cenno alla consumazione del matrimonio, non poteva reprimere un forte senso di nausea e l'istinto di saltare alla gola dei due portavoce del Duca Ercole.

Mentre un paio di suoi compari rovesciavano un carretto pieno di verdure, il Borja riconobbe l'aspetto ingannatore di un paio di donne di malaffare fuori da un palazzotto fatiscente e così, indicandole ai suoi, ordinò: “Lance in resta! Tutti alla pugna!”

 

Caterina aveva attraversato Firenze, come indicato direttamente dalla Repubblica – che, costretta dai francesi aveva dato il permesso alla donna di spostarsi dalla villa alle Murate, ma che non intendeva per nessun motivo metterla troppo in mostra – a bordo di una piccola carrozza che la celava completamente al mondo esterno.

Non si era lamentata troppo di quella soluzione. Anche se avrebbe voluto guardare le strade di Firenze, immaginare suo marito Giovanni, ragazzino, mentre le attraversava e, perché no, anche assaporare l'aria fresca di quell'inizio di ottobre, la Tigre stessa preferiva passare inosservata. Aveva trascorso tutta la sua vita alla mercé dell'attenzione di tutti, un po' di anonimato non le stava poi così stretto.

Quella mattina, prima di lasciarla partire, mentre le dava un piccolo bagaglio che le sarebbe servito per il breve soggiorno al monastero, frate Lauro le aveva fatto sapere che Fortunati stava cercando di allentare il controllo a distanza che la Signoria esercitava su di lei, nell'ottica di farle incontrare, prima o poi Scipione e Paolo Riario, o anche solo Antonio Baldraccani e Bernardino da Cremona, dato che tutti loro non chiedevano altro che di poterla rivedere.

Caterina aveva risposto con un suono atono, tenendo per sé il fatto che l'unico che avrebbe voluto davvero rivedere era Baccino da Cremona, ma che per lui, ancora, il piovano di Cascina non sembrava essere stato in grado di fare granché.

La donna si mise a rimuginare su come sarebbe stato anche opportuno licenziare in tronco tutti i servi che attualmente aveva alla villa e che, a breve, sarebbero stati ancor più malfidenti, una volta che avessero capito che da lei non sarebbe arrivato nemmeno un soldo. Era sicura che se avesse potuto chiamare a sé non solo Scipione e Paolo Riario, ma anche Baldraccani e Bernardino da Cremona, aggiungendoci magari qualche altro suo vecchio soldato in fuga dalla Romagna, avrebbe potuto benissimo fare a meno di servidorame. Dopo tutto, aveva vissuto per anni in una rocca militare, in cui i domestici servivano solo relativamente...

La carrozza si fermò all'improvviso e Caterina capì di essere arrivata. Il servo che l'aveva accompagnata, l'aiutò a scendere e le prese il bagaglio.

La Leonessa lo ringraziò, poi sollevò lo sguardo verso il monastero. Si trattava di una struttura imponente e scura. Benché conoscesse l'origine del nome 'Murate', che risaliva all'usanza secondo cui per ogni novizia si apriva una porta nel muro e poi, dopo il suo ingresso, la si murava a mimare la sua morte per il mondo esterno, nello scrutare quell'edificio, la Sforza pensò che fosse solo un altro modo per dire la parola 'prigione'.

“Vi stavamo aspettando...” una monaca dal volto pieno e un po' rubizzo le sorrise, affacciandosi dal portone principale.

Caterina a quel punto ringraziò il servo che l'aveva scortata e gli ricordò di tornare a prenderla al giorno e all'ora stabiliti. Mentre l'uomo ripartiva, la religiosa fece segno alla Tigre di seguirla.

“Sarebbe meglio che indossaste un velo... Per rispetto a Nostro Signore, sapete...” disse la monaca, senza traccia di rimprovero, ma solo con un ampio sorriso in volto.

“Perdonatemi...” si affrettò a dire Caterina, che, in effetti, sapeva che i suoi capelli lunghi e sciolti non sarebbero stati molto accettati in quell'ambiente, tanto che se li era fatti acconciare da Bianca proprio in modo che non la infastidissero, una volta coperti dal velo.

Sistemandosi il copricapo di tessuto scuro molto fino e senza ricami, la Leonessa lanciò uno sguardo penetrante alla religiosa e poi, andando a istinto e cercando di ricordare il nome che più spesso aveva sentito uscire dalla bocca di Bianca, le chiese: “Voi siete Suor Ubbidienza?”

La donna, visibilmente contenta di essere stata riconosciuta, annuì e rispose: “Madonna Bianca vi ha parlato di me?”

La Sforza confermò e poi, sentendosi in dovere di sdebitarsi con lei per la vicinanza che aveva sempre dimostrato ai suoi figli, soggiunse: “Vi porto i suoi saluti.”

Tutta soddisfatta per quella riconoscenza, Suor Ubbidienza ringraziò e poi le disse che l'avrebbe accompagnata subito dalla Superiora, perché sapeva bene che loro due dovevano parlare di cose importanti.

“Se per voi non è un problema – soggiunse, dopo un po', mentre attraversavano i corridoi silenziosi e, al momento, deserti delle Murate – vi abbiamo riservato una cella in un punto riparato del monastero... Quella che occupava Madonna Bianca, però, è già stata assegnata a una novizia...”

“Per me non c'è nessun problema...” assicurò la Leonessa.

“Più tardi, se vorrete – riprese Suor Ubbidienza, continuando a guidarla verso l'ufficio di Suor Elena – vi farò conoscere la piccola Cornelia...”

Caterina immaginava che quella proposta sarebbe arrivata e, non sapeva nemmeno lei dire bene perché, ne era atterrita. Tuttavia, ringraziò e disse che l'avrebbe incontrata il prima possibile.

La Superiora le stava aspettando seduta alla sua scrivania e, non appena le vide, chiese a Suor Ubbidienza di lasciare lei e Caterina da sole. Fedele al suo nome, la monaca chinò un po' il capo ed eseguì l'ordine all'istante.

Suor Elena aveva lineamenti duri e uno sguardo intelligente e vivace che non sorprese la Sforza. Si erano scambiate solo delle lettere, fino a quel momento, eppure la milanese aveva sempre nutrito un'istintiva simpatia per quella monaca che, seppur potente come poche altre in Toscana, sapeva restare nell'ombra quel tanto che bastava per permetterle di esercitare realmente il potere che aveva guadagnato con gli anni.

“Lasciate, prima di tutto che vi ringrazi – iniziò a dire Caterina, quando il silenzio tra loro divenne troppo pesante – per tutto quello che avete fatto per i miei figli e... E che continuate a fare per me e per mia nipote Cornelia.”

La Superiora fece un'espressione difficile da interpretare e poi ribatté: “Erano cose che andavano fatte e che vanno fatte. Vostra nipote è una bambina sana e intelligente e Suor Ubbidienza si sta prendendo con gioia cura di lei.”

La Tigre, convinta che Suor Elena si aspettasse ulteriori ringraziamenti o, magari, qualche promessa dettagliata su come si sarebbe sdebitata, schiuse le labbra, ma dovette tacere subito, perché l'altra batté le mani con fare pratico e ricominciò subito a parlare.

“Messer Fortunati mi ha spiegato alla perfezione tutto – mise in chiaro – e credo che per agire in modo sicuro, si debba fare così: questa notte farò in modo di farvi accompagnare da una persona di estrema fiducia al convento d'Annalena, e vi farò riportare qui prima dell'alba. Faremo così una notte sì e una no, se non cambierà nulla.”

La Sforza ascoltava, sicura che quel piano fosse stato studiato nel dettaglio e che a lei non restasse che fidarsi ciecamente di quello che le veniva detto.

“Nelle ore che vi resteranno libere – concluse in fretta Suor Elena, mentre, inconsciamente, faceva un confronto tra il profilo sveglio, ma a tratti sfuggente, di Bianca Riario e quello più statuario e solido di Caterina – provate a pregare e meditare. È un mio consiglio, e vi chiedo di non renderlo vano. Sono convinta che Dio vi abbia concesso di arrivare fin qui per un motivo: non sprecate l'occasione che vi è stata data.”

La Leonessa, che pur non avvertiva nessuna propensione a seguire davvero quel consiglio, annuì in silenzio.

“Il nostro è un ordine di clausura, ma ho dato ordine alle mia consorelle di aiutarvi nel vostro complesso cammino spirituale, se lo chiederete.” per la prima volta, il viso austero di Suor Elena venne illuminato da un sorriso sincero e aperto.

“Non so cosa potrebbero fare, per me.” disse piano Caterina, non volendo mortificare la Madre Superiora, ma cercando, comunque, di farle capire che lei stessa si riteneva da anni un caso più che perso: “Non sapete quello che sono stata capace di fare... Non può esserci salvezza, per una donna come me.”

“Non c'è nulla che Dio non perdoni, se il nostro pentimento è sincero.” la rincuorò Suor Elena: “E se siete giunta viva fino a qui, io so che un motivo c'è.”

Questa volta la Tigre non provò più a smorzare la fiducia che la monaca sembrava riporre nel potere salvifico del pentimento, e fece solo un cenno con il capo, che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa.

“Ebbene – fece la religiosa – io per ora non ho altro da dirvi. Vi accompagno alla vostra cella e poi, quando sarà ora, vi farò portare da mangiare, a meno che non preferiate raggiungere le altre in refettorio...”

“Magari domani.” prese tempo la Sforza.

“Certamente.” convenne la Superiora.

A quel punto, Suor Elena le disse che l'avrebbe accompagnata alla sua cella e, chiestole se volesse che l'aiutasse con il suo piccolo bagaglio, e sentitosi rispondere di no, non aprì più bocca finché non furono nel corridoio su cui affacciava la stanza designata per la Leonessa.

“Si tratta della penultima porta, lì in fondo.” indicò la monaca.

“Vado da sola...” soffiò Caterina, che, in effetti, aveva voglia di solitudine.

Anche se aveva fatto relativamente poca strada, dalla villa a lì, e non aveva dovuto affrontare ancora nessuna prova importante, né aveva dovuto fronteggiare altri che non fossero un'amichevolissima Suor Ubbidienza e una pragmatica, ma cordiale Suor Elena, la Sforza era stremata.

Suor Elena la guardò con benevolenza, trovando in lei una penitente, più che l'intrepida eroina che tutti le avevano descritto o l'impenitente peccatrice di cui parlavano i motteggi sconci che erano arrivati fino a Firenze.

'Vuoi vedere che ospitare una tigre ci permetterà di restituire al mondo una donna?', si chiese la Superiora, osservando lo sguardo titubante di Caterina e dicendole poi: “Andate pure da sola, vi lascio tranquilla.”

Ottenuto il placido permesso di fare come chiedeva, la Leonessa camminò lentamente fino alla porta della sua cella – cella era un termine che non digeriva, ma sapeva che, almeno in quel caso, per lei non avrebbe avuto una valenza negativa – e quando l'aprì, si trovò davanti qualcosa di inatteso.

Nel piccolo, ma accogliente ambiente celato dalla pesante porta di legno scuro, c'era Suor Ubbidienza e, con lei, una bambina di poco più di due anni, con i capelli scuri e due occhi dal taglio inconfondibile.

Senza parole, Caterina fissò la monaca e questa, con il suo incrollabile ottimismo, le sorrise di rimando, dicendo: “So che avrei dovuto aspettare che foste voi a dirmi di portarvela. ma ho pensato che prima fosse meglio che poi... Vi presento vostra nipote, Cornelia.”

La Tigre restava immobile, gli occhi puntati sulla piccola. C'era qualcosa, in lei, che l'attirava, come una forza silenziosa che le chiedesse di prestarle attenzione. Eppure non provava nei suoi confronti alcun affetto istintivo, nessun amore incondizionato... Se ne vergognava, anche se cercava di dirsi che, forse, dato tutto il contesto, non poteva essere altrimenti.

“Potete lasciarci un po' da sole?” domandò, con un soffio, la Sforza.

Suor Ubbidienza, in parte fraintendendo il tono della Leonessa, allargò ancora di più il suo sorriso, e annuì: “Certamente!”

La piccola guardò la monaca andarsene e nei suoi occhi si stava già facendo strada il velo del pianto. Era normale, si diceva Caterina, che una bambina della sua età, trovandosi improvvisamente da sola con una perfetta sconosciuta, si spaventasse. Tuttavia, quell'atteggiamento che portava subito al pianto, seppur non conclamato, per il momento, le fece fare uno spiacevolissimo parallelismo con Ottaviano.

La sensazione di vuoto che provò alla bocca dello stomaco nel pensarci fu tale che si inginocchiò subito davanti a Cornelia e le sussurrò: “Non piangere... Sono tua nonna, non voglio farti del male.”

L'ultima frase le era scivolata dalle labbra senza che quasi se ne accorgesse. L'espressione corrucciata della piccola la portò a chiedersi se la bambina capisse il senso di quelle parole.

“Nonna Caterina?” domandò, invece, la nipote, accigliandosi e squadrandola come se, finalmente, potesse incontrare dal vivo qualcuno di cui aveva sempre e solo sentito raccontare le avventure e le prodezze.

La Tigre allungò una mano verso di lei, sfiorandole i capelli scuri e un po' mossi e annuì: “Sono io... Chi ti ha parlato di me? Tua zia Bianca?”

“E Ubbidienza.” rispose, abbassando lo sguardo, vergognosa, Cornelia.

Quell'informazione, portò Caterina a stringere appena le labbra. Immaginava che Bianca avesse raccontato alla nipote, così come a Giovannino, le storie di famiglia. Non si aspettava, invece, che lo facesse una monaca...

“Ti trovi bene qui?” chiese la Sforza, cercando di rompere il silenzio che era calato tra loro.

Cornelia annuì, ma non disse nulla.

Più la osservava, più la Leonessa vedeva in lei Ottaviano, ma il sentimento che provava verso di lei stava cambiando. Dalla totale iniziale apatia, mescolata a una strana curiosità, adesso stava arrivando un senso di compassione, unito a un profondissimo e mai sopito senso di colpa. Sapeva di aver sempre sbagliato con il suo primogenito, perché non erano sue, le colpe di Girolamo Riario, e sapeva di essere stata in parte la causa di tutto quello che poi lui, scientemente, aveva fatto dopo per punirla.

Mossa da uno slancio che la sorprese, attirò a sé Cornelia, che quasi si spaventò e la strinse con forza, come se un solo abbraccio potesse bastare per sistemare tutto. Voleva imporsi di non vedere in quella bambina solo il frutto delle violenze che suo figlio Ottaviano aveva usato nei confronti di una donna innocente. Voleva vedere in lei solo ed esclusivamente una bambina, anzi, una bambina che aveva il suo stesso sangue nelle vene.

“Io e te andremo d'accordo.” sentenziò la Sforza, come se quello fosse un ordine categorico, e non un augurio.

La piccola, vinta dalla vicinanza imposta, sciolte le riserve, l'abbracciò a sua volta e le sussurrò all'orecchio un semplice: “Sì.”

   
 
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