IX.
Issues
“This
is the death of me, I feel it constantly
Just
like an enemy that wants to see me bleed
So
I try to be silent while my words they explode like hand granades
I
just gotta stay calm, before I let this time bomb blow up in my
face.”
Issues
– Escape the fate
Scuro
sangue, sangue del suo sangue, sgorgava in zampilli tiepidi da una
delicata pelle di qualche tonalità più
scura
della sua; la carne lacerata ancora pulsava debolmente sotto
l'esaurirsi dei battiti del cuore.
E
lei non riusciva a smettere, non riusciva a fermarsi: ormai pregna
del
liquido ripeteva il movimento con rinnovata forza, come se tutti
i colpi che aveva inferto fino ad allora non fossero stati
sufficienti.
Il
coltello affondava in una pelle fatta burro, penetrando
in profondità ancora e ancora, sempre più a fondo
a far a brandelli
i muscoli e i nervi;
forse solo così si sarebbe finalmente liberata senza la
paura che,
un giorno, quel corpo sarebbe tornato a cercarla vendicando
l'omicidio, uccidendola
sotto l'ira dei suoi colpi.
Un
paio di occhi chiari, sgranati e spenti, offuscati dalla morte, erano
puntati sulla ragazzina ansimante che non aveva visto crescere, una
bestia che non aveva colto nel suo formarsi; quella
stessa
ragazzina in rosso dalla sporca espressione carica d'odio, le lacrime
agli occhi mentre ora le pugnalava il collo,
ora il petto, ora le spalle.
Aggrappata
all’arma,
arrestò
il suo folle attacco
solamente quando vide l'ultima goccia di sangue versarsi
sulle
sue cosce sottili:
e con un conato, poi un altro, la coscienza tornava a impadronirsi di
lei, sussurrandole con intensità crescente la
gravità del massacro
che aveva appena concluso.
Era
come
esser
stata
svegliata da un incubo tremendo,
per poi scoprire che la scena che stava mettendo a fuoco davanti a
sé
fosse
più che
reale.
L’ammasso
di tagli, sangue, membra e brandelli di tessuto rossi e pendenti era
stato
sua madre; ed era stata lei a farle ciò.
L’aveva
uccisa, l’aveva uccisa e aveva continuato ad accoltellarla
anche
dopo aver sentito il suo ultimo respiro.
Ma
non aveva avuto scelta, si era
giustificata,
pulendosi le mani sulle parti ancora bianche della camicia
da notte.
Aveva
trascorso le due giornate per intero, fino all'ultima sera, in un
limbo: un piede ancora nella giovinezza, l'altro
nell'oscurità e nel
terrore, alla mercé di chissà quale presenza.
“I
loro corpi saranno a vostra disposizione presto.”
aveva sentito sua madre pronunciare.
“I
loro corpi saranno a vostra disposizione presto.”
S’era
chiesta fino allo
sfinimento
cosa significasse.
E
si era chiusa in sé stessa abbastanza a lungo, nella
paura
racchiusa
da tali parole: i cerulei occhi sgranati nel vuoto a cercare una
risposta, il respiro mozzato e le labbra che involontariamente
ripetevano e ripetevano la frase.
Il
fatto che si riferisse a lei e alle sorelle le era apparso talmente
limpido da non lasciarle alcun dubbio, abbastanza sicuro da
abbandonarla in un nauseante stato di trance.
Cosa
avrebbe dovuto fare?
Oh
non sarebbe finita bene.
E
come ne sarebbe uscita?
Non
poteva esser conscia dell'intrinseco significato di una vita, non
aveva idea di quanto valesse né la sua, né quella
delle sorelle, né
quella di chissà quale altro essere magico; ma sapeva che
non voleva
morire, e non voleva veder morire le uniche persone a cui teneva.
Era
stata costretta ad una scelta: o lei, o loro.
Non
voleva
ucciderla, mai
l’avrebbe voluto se le circostanze non l’avessero
richiesto;
aveva pensato a molte alternative prima di capire
di non averne
alcuna.
Del
resto non era in grado di fare altrimenti: non
aveva imparato che a distruggere, era stato stupido da
parte sua
pretendere di essere capace d'altro.
Aveva
osservato le sorelle con una velata nostalgia per quei due giorni:
Darcy
aveva dodici anni ed usava spesso leggere anche
per tutto il giorno, ignorando le esercitazioni.
Aveva cambiato occhiali da poco, preferendo
un modello più piccolo rispetto al precedente, che quasi le
faceva
sparire il viso nelle tonde lenti: o meglio, aveva espresso la sua
preferenza alla madre e aveva sperato nella fortuna.
Tutto
ciò a cui poteva avere accesso erano trattati o racconti
riguardanti
Whisperia, il loro paese natale, in una lingua rigorosamente
differente da quella parlata: non poteva permettersi ciò che
veniva
venduto a Magix, sarebbe stata una distrazione dagli studi a lei
destinati.
Nel
guardarla, ad Icy si era stretto lo stomaco e l'espressione, lasciata
incontrollata, aveva assunto un'ombra di tristezza – o
qualcosa che
ci fosse andato vicino.
Stormy
aveva appena compiuto undici anni e ancora sfoggiava una
mentalità
alquanto infantile: cercava di uscire di nascosto per esplorare,
conoscere, e aveva un’avversione non indifferente verso gli
ordini
che la madre le dava.
Ribelle
quanto la sua chioma, veniva ripetutamente ripresa e sempre
più le
stava apparendo chiaro ciò che per tutta la vita la gente
sarebbe
andata ripetendo.
Ch'era
un'incapace, che non avrebbe mai concluso nulla.
Al
momento era intenta a dondolarsi sul davanzale, carezzata dal tiepido
vento estivo. Se avesse continuato a ricevere un colpo dopo l'altro
la sua pelle si sarebbe fatta fragile e violacea; il suo animo debole
e senza vita. E sarebbe stata soffocata una volta per tutte.
Immaginare
cosa sarebbe potuto accadere se non avesse agito in fretta,
aveva levato ogni dubbio: Icy
sapeva cosa avrebbe dovuto fare.
Aveva
pensato di agire da sola, evitando accuratamente lo scontro diretto,
e senza esitazione l'aveva fatto: aveva lasciato esplodere le
emozioni che aveva
compresso fino ad allora,
ed era saltata al collo della madre, lacerandolo da parte a parte con
la lama che, forse con troppa forza, stringeva nella mano. E non
s'era fermata
a ciò, ma fendendo un colpo dopo l'altro aveva continuato a
trafiggerla: con un movimento quasi meccanico e
perpetuo
del braccio, affondava
ed estraeva il coltello, e
il sangue schizzava e schizzava sul suo viso contratto dal dolore,
sulle sue braccia, sul suo petto, che irregolarmente si alzava e si
abbassava.
Una
volta svuotata da tale odio s'era allontanata ad ammirare la sua
opera, e aveva deglutito a fatica un conato di vomito: il
raccapricciante cumulo di carne rossa davanti a lei era sua madre.
E
l'aveva fatto lei, tutta da sola.
Senza
l'aiuto delle sorelle, si era detta, con una malsana punta
d’orgoglio.
Le
dita che erano rimaste aggrappate all'arma la lasciarono in un colpo
solo: il rumore metallico risuonò come una sveglia nei suoi
timpani
e in un attimo si era ritrovata china
sul lavandino a tossire e sputare, l'esofago in fiamme e le lacrime
agli occhi per lo sforzo. Giunse
troppo in fretta la soffocante sensazione che non avrebbe saputo
definire: la sensazione creata dall'immagine ormai impressa nella sua
mente che le stava tirando la pelle del petto dall'interno,
mozzandole il respiro; e che le stava facendo bagnare le palpebre e
generava della sua gola dei raccapriccianti rantoli. Doveva essere
qualcosa di spaventoso e il non poterlo riconoscere rendeva il suo
corpo, sporco
e colpevole,
ancora più teso e nervoso.
Si
chiese più e più volte cosa stesse succedendo.
Dove
avesse sbagliato.
Infinite
coltellate fendevano l'aria vicino al suo orecchio, accompagnate
dal
il rumore degli schizzi che
seguivano l’alzarsi del suo braccio, dal tepore del liquido
che le
scivolava sotto la veste; aveva
ucciso, aveva ucciso e stava impazzendo; il sangue su di lei era
ancora caldo e pulsante, passava sotto la sua pelle ed entrava nella
sua carne.
La
carne di un assassino.
Bruciava
sulle guance e doveva tornare indietro, indietro in quel corpo che
non avrebbe dovuto toccare, non avrebbe dovuto macellare:
era sua madre, una
figlia doveva voler bene alla propria madre
e lei invece
le aveva tagliato la gola e pugnalato il torace una ventina di volte
almeno; e
cos'era diventata, cosa diavolo era diventata.
Un
panico mai provato prima la cingeva a sé mentre in silenzio
urlava
contro quel riflesso che non riconosceva: chiedeva chi fosse, quando
s'era sostituito a lei, perché aveva fatto ciò a
l'unica cosa che
la teneva attaccata alla vita; perché, perché
buttare via tutto
così presto. E continuò
ancora per poco nella quiete della notte, fino a che il suo viso non
tornò alla solita espressione impassibile che tanto le
donava: il
suo cuore rallentava considerevolmente la corsa e le restituiva la
dignità persa nelle tubature del lavello.
Il
rassicurante freddo l'abbracciò di nuovo, sfiorandole
il sudicio
volto e
consigliandola
dolcemente
sul da farsi. E
dopo poco tempo era tornata a riconoscersi nel riflesso della
finestra, candida e pulita dal crimine che aveva commesso:
gli occhi lo guardavano con fare maniacale fra i capelli ancora umidi
e lasciati sciolti, cercando una qualsiasi traccia di
impurità; ma
no, era sempre lei.
Sempre
la stessa di prima.
S'era
preoccupata per niente, dopotutto: era bastato pulire un po' e
seppellire i propri sensi di colpa – se così
potevano essere
chiamati – in fondo al torrente insieme all'arma e al sangue
lavato
via dalla camicia da notte; era bastato asciugarsi per un po' vicino
al camino acceso, forzandosi ad osservare Eris gelida ed immobile, la
bocca spalancata e lo sguardo rivolto nella sua direzione; e
svegliare le sorelle mantenendo l'alibi che andava creandosi nella
sua testa.
Un
paio di sopravvissuti all’ira delle antenate, originari di
Domino,
erano venuti per cercare vendetta; sarebbero tornati per loro,
pertanto dovevano muoversi e correre il più lontano
possibile; non
era una giustificazione infallibile, ma era la migliore che era
riuscita a pensare in pochi minuti di riflessione.
Alle
sorelle, spaventate da un risveglio così brusco, era bastata.
Icy
si
decise ad uscire dalla soffocante dimora una volta per tutte,
lasciandosela alle spalle: il
corpo
ancora tremante
apriva la strada alle altre due bambine
e la sensazione di
aver dimenticato qualcosa di importante, di indispensabile, per
poter
scampare
al crimine commesso.
Ma
non aveva tempo per assicurarsene: sforzandosi nel regolarizzare il
respiro, procedette nel silenzio più assoluto, convinta di
aver
seppellito con la sua coscienza quella storia.
Eris
tornò quella sera, tornò per anni e non se ne
andò mai
completamente.
Nonostante
ciò mai Icy avrebbe ammesso di aver provato qualcosa nel
compiere il
suo primo omicidio: né che
ancora ricordasse ossessivamente
le azioni da lei compiute della serata; ma la macabra posa
e quegli occhi che non smettevano mai di scrutarla, osservarla o
giudicarla…
Scacciando
nuovamente le vivide immagini color cremisi, si era passata una mano
sulla fronte, spostandosi appena i capelli dal bianco viso: il sole
aveva cominciato a levarsi sopra alle montagne, donando una rosea
sfumatura ai suoi sensibili occhi.
Senza
perdere troppo tempo, si sollevò dai sedili posteriori e
indossò la
voluminosa giacca di pelle che aveva usato come coperta. Aveva fatto
parecchia strada senza scorgere nemmeno la minima traccia della
sorella, ma avendo estorto un giorno libero al suo asfissiante
compagno avrebbe potuto dedicarsi ulteriormente alla ricerca.
Altrimenti
tutto ciò che stava
facendo,
e aveva fatto, sarebbe stato completamente inutile.
Lasciarsi
alle spalle una lunga scia di omicidi in ogni posto nel quale avesse
messo piede aveva portato l'unico vantaggio di poter tenere al sicuro
le sorelle; sentire l'unica certezza che aveva sviluppato fino ad
allora venir meno, la indusse a stringere istintivamente le mani sul
volante, come quella sera, nell'ombra, aveva fatto con il manico del
lungo coltello pregno del suo stesso sangue.
107 giorni, 5 ore, 17 minuti, 45 secondi alla fine.
Aveva
cominciato ad abituarsi alle notte di Magix: buie quanto il giorno,
senza stelle.
Certe notti ombre di creature magiche sempre in
guerra le une con le altre venivano proiettate sul muro, al quale il
materasso sui cui riposava era appoggiato, dal bagliore dei fuochi;
aveva smesso di spaventarsi come la prima notte, eppure il sonno
tardava a venire e, con il passare dei giorni, le sue otto ore di
riposo si erano già ridotte a cinque scarse.
Fortunatamente
aveva scoperto subito che nemmeno Stormy dormisse granché;
spesso
sembrava aver preso il detto ‘dormire con un occhio
aperto’
troppo sul serio, e Musa non poteva fare a meno di continuare a
domandarsi se non ci fosse una motivazione a spingerla a farsi cauta
e stranamente silenziosa.
Usciva
dall’appartamento solo per stretta necessità, o
per quello che lei
chiamava lavoro: una sorta di incarico da mercenario che sfruttava la
sua velocità nel raccogliere informazioni, o oggetti
preziosi da una
o dall’altra gang, per poi darsela a gambe e consegnarle al
miglior
offerente.
Lavoro
sufficiente a giustificare un nascondiglio a prova di inseguitori, ma
non l’atteggiamento schivo, coperto con un tono
superficialmente
amichevole, che aveva mantenuto durante la loro convivenza.
Cercò
di capire quali fossero i dettagli che la strega voleva nasconderle a
tutti i costi, studiando i suoi comportamenti molto più
controllati
rispetto a come la ricordasse; osservando il modo in cui si
assicurava che le uscite non potessero essere viste o sfondate
dall’esterno, come sopprimeva la propria energia magica per
evitare
di essere rintracciata.
Precauzioni
che la Stormy che aveva conosciuto lei non avrebbe mai preso, che
andavano oltre al semplice adattamento ad una situazione critica.
E
una sera, dopo pomeriggi trascorsi in chiacchiere di circostanza
–
non poteva dirsi esattamente a suo agio con la strega – Musa
ebbe
il coraggio di rendere sonora la domanda che aleggiava nella sua
testa da quando l’aveva incontrata.
“Perché
sei venuta a Magix se sapevi a cosa andavi incontro?”
La
scorse girarsi nella penombra, scostandosi le lenzuola dal viso; le
piantò gli occhi verdi addosso come ad assicurarsi che le
avesse
davvero parlato.
“Beh, non potevo approfittarmi per così
tanto della tua ospitalità. Tu e tuo padre non dovete
mantenere
anche me.” disse a mezza voce; Musa sostenne il suo sguardo,
tentando di delineare gli occhi e il labiale insieme, ma il buio
andava riempiendosi di ricordi che non le appartenevano, ricordi in
cui Stormy era impegnata a raccogliere i suoi averi nella stanza
degli ospiti, a Melody.
Ricordava
le sue mani e il suo ginocchio sinistro premere senza pietà
sulla
valigia che aveva appena comprato, imprecando fino a chiuderla.
“Non
sei mai stata un disturbo per noi, lo sai. Ti davi anche da
fare.”
si accorse a malapena di quello che disse, mentre l’immagine
di
Stormy che presentava a lei e il padre, inginocchiati l’uno
di
fronte all’altro davanti al tavolino basso, il primo pasto
commestibile che era stata in grado di preparare le passava davanti
agli occhi.
“Fatemi aprire la finestra, che qui si sta
crepando di caldo” aveva borbottato appoggiando i
piatti, e
subito aveva fatto scorrere la vetrata alle spalle di Musa, facendo
entrare una tiepida brezza estiva che, per qualcuno che era stato ai
fornelli per almeno un’ora, doveva essere rinfrescante e
rigenerante.
L’aveva vista prendere un ampio respiro, prima di
sedersi a gambe incrociate al lato corto del tavolo.
“Ero
comunque un’altra bocca da sfamare. E poi non volevo mettervi
nei
casini.” le
rispose, immergendola in un’altra onda di memorie: Stormy
s’era
immobilizzata con la tazza di tè in mano, con le gambe a
dondoloni
tra le sbarre di legno del portico; teneva gli occhi sgranati e la
bocca socchiusa, non le aveva risposto e si era chiusa completamente
in sé stessa.
Da allora, come
se qualcun altro le avesse piantato in testa quell’idea,
aveva
deciso che doveva andarsene; e doveva farlo in fretta.
Si
era alzata e si era chiusa nella sua stanza, impacchettando tutto
ciò
che poteva; Musa percepì il dolore e la solitudine che la
sua
partenza aveva lasciato nella dimora.
“Quali casini?” le
chiese, facendosi più vicina a lei; la scorse esitare,
passarsi
nervosamente una mano tra i ricci corvini.
Riconobbe
lo stesso gesto di quando
l’aveva fermata sulla soglia, chiedendole spiegazioni; e lei
s’era
scusata perché
non poteva dirle niente,
intrecciando le dita nei suoi capelli e voltandole le spalle; era
stata l’ultima volta che l’aveva vista,
prima di ritrovarla tutta impolverata, tra le strade malmesse di
Magix.
“Casini
con le mie sorelle.” rispose stringata.
Un
nuovo risentimento animò le parole di Musa; parole che le
scivolarono dalla lingua come se non fosse in
grado di controllarle.
“Credo
tu mi debba una spiegazione, a questo punto. Siamo in questa
situazione insieme: è chiaro che non posso tornare su
Melody, visto
che a quanto pare i trasporti saranno bloccati, quindi non ha senso
che mi tagli fuori dai tuoi problemi. E poi non mi hai mai dato una
spiegazione quando te ne sei andata, vorrei capire se sono io il
problema e mi stai mentendo o…” si prese una
brevissima pausa,
che tuttavia bastò alla strega per inserirsi nel discorso.
“Tu
non sei e non sarai mai il problema, Musa. Cazzo, mi hai tirata su
dalla strada, mi hai servita e riverita e io non potrò mai
ringraziarti abbastanza per quello che hai fatto per me, ma tu non ti
meriti di esser trascinata nei miei casini. Sono casini belli
grossi.” la
sua voce si era aperta ad una nota dolce che la fata credeva non
avesse.
“Non mi credi abbastanza forte per poterti
aiutare?”
le chiese, addolcendo il
tono a sua volta,
ma senza rinunciare a una punta di orgoglio.
“Forse
nemmeno io sono abbastanza forte.” ammise, distogliendo gli
occhi
con vergogna per ciò che aveva appena detto; nonostante la
situazione, a Musa venne da sorridere con benevolenza.
“Ma sì
che lo sei. E ora lo sono anche io, posso darti una
mano.”
Ripiombarono in un silenzio momentaneo; dopo qualche
attimo, Stormy si mosse per avvicinarlesi, guardandola fissa negli
occhi; affondò la bocca sotto le coperte, appoggiando il
mento sulla
sua spalla, come a volerle rivelare un segreto.
“Me ne sono
andata perché mi ha chiamata Darcy. Ha detto che qualcuno
stava
cercando di rintracciarci, e che secondo lei quel qualcuno era nostra
sorella maggiore – Musa ricordò che negli anni che
avevano passato
insieme non aveva mai osato chiamare sua sorella maggiore per nome
–
e me l’ha detto con un’urgenza tale che non me la
sentivo di
ignorarla. Era veramente spaventata.”
“E
quindi sei andata da lei?”
“Sì
– rinforzò la sua affermazione annuendo con il
capo – o almeno,
per un po’ di tempo. Poi mi sono trovata qualcosa da fare che
potesse farmi almeno capire che cazzo stesse succedendo. E, oltre a
quello, cercare di anticipare mia sorella nella sua ricerca; se la
trovo prima io e la ammazzo posso risolvere il problema alla
radice.”
La fata faticò a capire se stesse scherzando o meno;
il tono non l’era parso serio, eppure non scorgeva nessun
segno del
suo caratteristico sorrisetto sarcastico.
“Mi
sembra un po’ esagerato.” le disse quindi in modo
leggero,
evitando di caricare le parole di una serietà che avrebbe
potuto
troncare la discussione.
Stormy
fece un’alzata di spalle, piegando la testa verso sinistra
per
appoggiargliela sulla spalla scoperta; Musa si stupì di non
provare
nessun disagio nella vicinanza, accogliendo la sensazione di comfort
e abitudine che quel gesto le infondeva.
“Se
ci cerca per eliminarci è legittima difesa; altrimenti
può anche
continuare a farsi i cazzi suoi, per quanto me ne freghi.”
“Quindi
mi stai dicendo che con Darcy hai risolto.”
“Già.”
E
aggiunse subito dopo: “In fondo non è
così male.”
Il
silenzio calò nuovamente nella stanza, un silenzio
differente dai
precedenti: non era pregno di tensione
e attesa,
non era segnato dalla difficoltà nel portare avanti una
conversazione che Musa, nel suo mondo, non era abituata ad avere; era
bensì confortevole, s’incastrava perfettamente nel
loro discorso
senza prendere troppo spazio, né troppo poco.
Eppure qualcosa
accadde: parevano due paia di passi, accompagnati da bisbigli tenui
che si riverberavano nella tromba delle scale dell’edificio;
Stormy
si separò velocemente da Musa, che si tirò su
seduta di scatto,
concentrandosi sulla frequenza dei suoi in grado di amplificare con
il suo potere.
“Non
è possibile.” bisbigliò, fissando il
suo sguardo sulla porta
d’entrata.
“Cosa
non è possibile?” domandò brusca la
strega, alzandosi e prendendo
grandi passi verso la porta per assicurarsi che la magia che
proteggeva le vie di accesso o uscita del locale fosse ancora al suo
posto.
“Ah,
non fa niente. Tanto la porta è incantata, nessuno
è ancora
riuscito ad entrarci; e se entrano li carbonizzo.” disse
voltandosi
verso la fata, dopo non aver ricevuto nessuna risposta.
Musa
si alzò lentamente in piedi; conosceva le due voci in
procinto di
avvicinarsi, eppure non riusciva a fidarsi dei suoni che percepiva;
se Tecna aveva trovato un modo per rintracciarle tutte,
perché non
l’aveva fatto prima?
Perché le aveva permesso di trascorrere
più di una settimana rinchiusa nel bilocale di Stormy per
evitare di
venir uccisa dai malviventi di Magix?
I passi si fermarono
davanti alla porta; la fata chiuse la distanza che la separava dalla
sua ex nemica e, in un bagliore purpureo e violaceo, permise che un
paio di grandi ali luminose emergesse dalle sue scapole.
107 giorni, 4 ore, 53 minuti, 20 secondi alla fine.
“L’appartamento
dev’essere protetto con la magia; ecco perché il
segnale
continuava a sparire e riapparire.” dichiarò
Tecna, analizzando
con sguardo attento quella che sembrava essere una porta di legno
malmessa, il cui spazio tra le assi rivelava un ambiente oscuro e
polveroso.
Aisha avvicinò con cautela il viso alle fessure,
strizzando un occhio per poterci guardare attraverso;
l’ambiente
appariva sgombro e minuscolo, con una sola finestra, dalla quale
penetrava la scarsa luce proveniente dalle strade; il pavimento era
composto da piastrelle rotte e intonaco scrostato, coperto da uno
spesso strato di polvere, che non presentava alcuna traccia di
passaggio per almeno un anno intero.
Tirandosi
indietro, si sporse verso Tecna per controllare che il suo palmare
segnalasse proprio l’interno della stanza; la mappa che era
andata
componendosi gradino dopo gradino mostrava esattamente la
conformazione della stanza, e Musa era rappresentata vicino alla
porta.
“Sì,
dev’essere una
barriera
– si convinse allora – E suppongo che Musa non
possa neanche
sentirci da là dietro.”
“Non
ne ho idea. Potrebbe non essere in grado di disattivarla.”
alzò
lo sguardo verso la porta, distendendo una mano; il
palmo aperto percorse l’altezza del legno con lentezza,
arrestandosi appena prima di sfiorare il suolo.
Nel momento in
cui
raddrizzò le ginocchia, linee verdi perpendicolari si
allungavano
dallo
stipite alto, lungo
i lati lignei della cornice,
innervando la superficie fino al
cemento
spoglio; Tecna le seguiva attentamente con lo sguardo, assottigliando
gli occhi per poter mettere a fuoco i dati in codice binario che
comparivano nei quadrati creati dalla griglia.
Spostò
gli occhi da uno stipite all’altro, toccando il quadrato
centrale
per studiare il grafico che la sua magia aveva composto.
Appoggiò il
polpastrello sul picco di magia nera, prima di rivolgersi alla
compagna.
“Potremmo
avere una pista, Aisha. La traccia di ogni magia è
riconoscibile e
riconducibile al suo proprietario.” disse a mezza voce,
spostando
il viso dall’alto in basso per cercare il punto debole da
forzare
per aprire una breccia nella barriera: ogni barriera ne aveva uno,
l’aveva scoperto nel suo primo anno ad Alfea.
“Stai
dicendo che questa traccia è già nel tuo
database?” tentò la
compagna.
“Esattamente.”
le rispose, appoggiando il pollice sulla vena della superficie
magica; aveva
sempre trovato
abbastanza ironico pensare che le barriere fossero come vetro: un
colpo ben assestato nel punto giusto era sufficiente a farle andare
in frantumi.
Ruotò
il polso, circoscrivendo l’area più fragile con
attenzione; nel
compiere il lento movimento guardò
Aisha
con
la coda dell’occhio.
“Concentra
la tua energia, quando ho finito dovrai colpire questo punto con un
attacco abbastanza potente da rompere la barriera.”
La
principessa di Andros annuì.
“Dobbiamo
aspettarci uno scontro, suppongo. Ipotesi su chi potremmo trovarci
davanti?”
Tecna
alzò nuovamente lo sguardo verso la porta, osservando
nuovamente il
grafico nel quadrato centrale, prima di dischiudere le labbra per
rispondere.
Aisha
la precedette, agguantandola per una spalla e tirandola indietro con
forza; con l’altra mano aveva già formato uno
scudo a proteggerle.
La
porta si era aperta con uno schianto, rivelando un piccolo
appartamento illuminato flebilmente dai fuochi di strada.
“Che
cazzo fai, ma sei scema?!” si sentì una voce
irritata fuori dal
loro campo visivo; ma entrambe le fate, pronte all’attacco,
s’erano
bloccate davanti alla persona che sostava sull’uscio, le cui
grandi
ali passavano a malapena dalla cornice della porta.
Era
Musa.
“Siete
veramente voi?” chiese subito, portando le mani davanti a
sé per
preparare un eventuale attacco. La diffidenza veniva da entrambe le
parti, siccome Tecna la stava già scrupolosamente
analizzando dai
piedi alla punta dei capelli con lo sguardo.
“Sì
che siamo noi, ti abbiamo trovate grazie al dispositivo che ha
sviluppato Tec. Ricordi? Per evitare che ci perdessimo se fosse
successo qualcosa, come
infatti è successo.”
le
rispose Aisha, più positiva nell’ignorare il
dubbio sull’identità
della fata della musica; ma rivolse uno sguardo nervoso alla
zenithiana prima di continuare.
Tecna
annuì appena.
“Affermativo,
è veramente Musa.”
“Stiamo
cercando anche le altre; prima ci uniamo, meglio
è.” aggiunse la
fata dei fluidi.
“Quindi
queste due stanno dalla tua parte?” la voce tornò
a farsi sentire,
e la sua proprietaria uscì dalla penombra per squadrare le
nuove
arrivate con un’espressione scettica; il suo corpo minuto,
coperto
solo da una maglietta oversize che le arrivava fino a metà
coscia,
contrastava in modo netto con l’aspetto etereo
dell’Enchantix di
Musa.
Nonostante
nessuna delle due l’avesse mai vista così, con i
capelli arruffati
e l’impronta del cuscino sulla guancia, non mancarono di
riconoscerla.
“E
me lo chiedi anche? Non sarei qui a parlarci se non stessimo dalla
stessa parte.” le disse Musa, inclinando la testa nella sua
direzione e rivolgendole un sorrisetto appena accennato.
Stormy
ricambiò velocemente lo sguardo, prima di riportarlo sulle
fate,
ancora in silenzio e con gli occhi fissi su di lei.
“Allora
falle entrare. Più ce ne stiamo qui con la porta aperta,
più
attireremo l’attenzione.” e fece loro segno con la
mano di
entrare in modo frettoloso.
Quando
le due fate furono
entrambe in salotto, la strega delle tempeste cacciò fuori
la testa,
guardandosi intorno, prima di chiudere e porre le mani pregne di
magia sul legno della
porta.
Aisha
ne approfittò per avvicinare le labbra
all’orecchio di Musa, non
mancando di tenere d’occhio i movimenti della strega.
“Cosa
ci fai qui con quella?” sussurrò.
La
fata della musica si fece tesa, mettendosi sulla difensiva.
“Se
non avessi incontrato lei probabilmente sarei morta, quindi se sto
bene e al sicuro è solo merito suo. E poi credo sia palese
che
almeno lei non c’entra niente con tutto questo
casino.” disse,
trattenendo a stento l’asprezza che le era rimasta in gola
dopo il
litigio con Stella.
Quanto
era passato? Le sembrava di essersi separata da lei e da Bloom da
mesi, eppure non doveva esser passata più di una settimana.
“Dopo
ciò che ci ha detto Faragonda, è probabile che le
Trix non lavorino
insieme. Quello che stai dicendo non è una novità
per me, ci ho
pensato a lungo venendo qui.” intervenne Tecna
“Siete
state ad Alfea?” Musa aggrottò le sopracciglia,
accorgendosi di
come il ricordo della scuola per fate si fosse offuscato di fronte
alle immagini di un passato che non le era mai appartenuto.
Con
ogni probabilità, la Musa che era al momento non aveva mai
frequentato il college, e i due anni passati in compagnia delle sue
più care amiche andavano svuotandosi di significato.
“Sì,
non riusciresti a capire quanto è cambiata neanche se te la
descrivessi nei minimi dettagli.” rispose Aisha con una
smorfia
poco rassicurante. La melodyiana poteva solo immaginare il peggio.
“Come
dicevo – riprese Tecna, infastidita dall’essere
interrotta –
sono arrivata a costruire un’ipotesi, confermata
dall’atteggiamento
di Stormy nei tuoi, e di conseguenza nei nostri, confronti: le
streghe potrebbero avere un ruolo marginale in tutta questa faccenda,
o addirittura nessun ruolo.”
“E
allora chi avrebbe fatto un casino di queste proporzioni?”
chiese
la principessa di Andros, scettica.
Tecna
rifletté un momento; il suo sguardo ricadde su Stormy, che
staccava
le mani dalla porta con uno sbuffo mal contenuto.
“Ne
riparliamo quando saremo sole.” sussurrò la fata,
in parte celando
il fatto che non avesse
una risposta a quella domanda. O almeno, non ancora.
La
strega tornò da loro, squadrandole una seconda volta.
“Fammi
capire, ce ne sono altre come te, Musa? Perché se ce ne
sono, non ho
tutto lo spazio del mondo per nasconderle nel mio
appartamento.”
fece, incrociando
le
braccia.
“Altre
tre, ma se conosci qualche posto sicuro possiamo trasferirci altrove.
E poi dovremmo avere un piano
per allora?” le rispose Musa, rivolgendo uno sguardo esitante
a
Tecna, che annuì.
“Ho
già qualche idea, si può pensare a qualcosa di
più concreto.”
A
tali
parole, Stormy piegò
le labbra in un sorrisetto.
“Beh,
se quello che volete fare è far saltare questa
società di merda,
allora ci sto.”
Aisha
si voltò verso Tecna con le sopracciglia aggrottate,
schiudendo la
bocca per sussurrarle ‘non
vorrai…’; ma la
compagna la precedette.
“In
un certo senso. Più siamo, meglio è, quindi
siediti: ti spiegherò
tutto.” disse alla
strega, che prese a sedere sul divano con un ghigno soddisfatto.
Includere
Stormy nella loro operazione poteva sembrare una decisione
affrettata, ma tenendola all’oscuro dei dettagli
più oscuri –
come il fatto che Tecna avesse tutte le intenzioni di cancellare
l’errore che aveva creato quella linea temporale, eliminando
di
conseguenza anche lei – sarebbe stata un aiuto prezioso.
Per
quanto sia lei che Aisha fossero in grado di orientarsi con la carta
sul suo palmare, avere al proprio fianco qualcuno che conosceva la
città dall’interno, pericoli compresi, era un
vantaggio che Tecna
non voleva lasciarsi scappare.
“Allora
sputa il rospo.” le disse la strega, incrociando le gambe e
affondando comodamente la schiena tra i cuscini.
Avvertenze
e condizioni per l’uso:
Sono
stupita dal fatto che questa volta, invece che un anno e mezzo, ci ho
messo solo tre mesi.
Non
abituatevi troppo, ma io stessa sono esaltata da questa
“conquista”;
in ogni caso mi sento di scusarmi, perché è
comunque un tempo di
aggiornamento imbarazzante.
Al
momento sono presissima con la sessione (infatti non so manco come
sono riuscita a tirar fuori questo capitolo, forse perché
era già
mezzo pronto da quasi un anno), quindi non saprei dare una data al
prossimo aggiornamento. Forse settembre? Spero veramente di
sì.
E’
estate e auguro a tutti un’estate divertente e finalmente un
po’
più libera dalla pandemia. Divertitevi voi che potete!
Ringrazio,
come sempre, Ladynabla,
Ghillyam
e Applepagly
(che so che lurka sempre perché me lo dice) per essere
onnipresenti
e sopportare questo tempo di aggiornamento veramente incredibile,
nonché sorbirmi i miei scleri su vari argomenti, compreso il
tempo
che non è mai abbastanza.
Siete
veramente la forza che spinge il mio cervello, fuso e disfatto, a
farmi scrivere.
Questa
storia andrà avanti ancora un bel po’,
perché io stessa voglio
vedere la fine.
Grazie
anche a tutti i lettori silenziosi, siete preziosissimi e sono
davvero contenta se la storia vi piace e vi tiene compagnia durante
questi mesi estivi (anni, contando che l’ho iniziata tipo nel
2018?).
Se
avete voglia, ditemi cosa ne pensate! Anche con un messaggino, non
serve per forza la recensione.
Alla
prossima missione, sperando di vedere il giorno in cui il mio
ginocchio sarà a posto e non continuerò a
rompermelo.
Mary